
Inizia con una citazione della poetessa americana Premio Pulitzer Mary Oliver Tendaberry, esordio al lungometraggio del 2024 della regista e artista visiva Haley Elizabeth Anderson, tra le giovani figure più interessanti del cinema indipendente americano, visibile dal 25 aprile su MUBI Italia: “Come ti aspettavi che fosse l’amore? Come un giorno d’estate?”. Un’amarezza sospesa fluttua sul fondo nero di questo esergo visivo, che scompare rapido come un’onda per lasciare spazio a Coney Island, luogo-non-luogo di New York, fulcro di questa storia, così come di tantissime altre, una sorta di tripudio emotivo, storico, progettuale, come già ci ha raccontato l’architetto e urbaista olandese Rem Koolhaas in uno dei capitoli più belli e ricchi di Delirious New York.
Coney Island era luogo d’approdo di molti immigrati, fu qui – come ci ricorda la voce narrante, Dakota – che nel 1849 Hermann Melville scrisse Moby Dick, fu qui che nel 1870 fu inventato l’hot dog e che nel 1903 aprì il primo Luna Park, e poi Dreamland, parco di enorme sperimentazione tecnologica e scientifica, anche se in realtà era un parco divertimenti. Coney Island fu una piattaforma di sperimentazione urbana incredibile, fondamentale per lo sviluppo di Manhattan. Eppure, dagli anni Trenta, tra guerre di mafia, grande depressione e il devastante incendio del 1932, la piccola penisola si svuotò. Coney Island era la terra dei conigli, era la terra dei Lenape, i nativi della zona, c’erano prima loro, e chiamavano quelle terre “Narrioch”, terre senza ombra, eppure Coney Island è diventata la terra dove sono iniziati molti incubi, come dice Dakota. Lì il passato è vicino, ma dimenticato. Il luogo in cui la terra incontra il mare è senz’ombra. È uno spazio liminale, di confine, anche percettivo e inconscio. Questo luogo – come ogni luogo, ma più di altri – non è solo un’indicazione e una definizione geografica, ma un’atmosfera emotiva e immaginifica, intima e collettiva. Ogni luogo è fatto delle storie – vere e immaginate – che ci si sono svolte, delle esperienze che sono state fatte lì, del modo in cui è stato visto, visitato, fotografato, raccontato, sfruttato nel tempo. Tutti questi strati compongono un’immagine e una percezione subconscia dello spazio, gli danno vita, e forma e forza, come fa questo film.
Tendaberry, anche se non è un documentario, ne riprende l’estetica e gli stilemi per raccontare la storia di Dakota. Lo fa usando le immagini come se fossero ricordi o proiezioni di pensieri e stati d’animo: momenti che ci aiutano a misurare e dare senso alla nostra vita, fatta di emozioni, tempo che passa e una percezione soggettiva, spesso tutt’altro che lineare, a volte rapida e caotica come l’insieme di stimoli e di eventi che attraversano le grandi città. In questo solco si inserisce la riflessione anche sul girato, sul lasciare traccia audiovisiva della realtà, e sullo sviluppo che il memoir video ha avuto dagli anni Ottanta a oggi, in particolare attraverso la figura di Nelson Sullivan, videomaker e vlogger gay statunitense che ha raccontato la vita della scena artistica e dei club di Downtown Manhattan dal 1982 fino alla sua morte, raccogliendo circa 1.900 ore di girato, spesso girando la videocamera verso se stesso anticipando quello che oggi facciamo tutti o quasi. I suoi video – oggi visibili su YouTube su 5NinthAvenueProject – hanno documentato la vita quotidiana newyorkese, le serate selvagge in particolare della scena queer e i momenti intimi con i suoi amici, tra cui Keith Haring, Sylvia Miles e Susanne Bartsch, solo per citarne alcuni.
“Odio stare qui, amo stare qui, vorrei essere di nuovo piccola,” dice Dakota, soprannominata Kota, che sembra parte di una specie per cui – per quanto autoctona – a New York non sembra esserci spazio, così come per i lenape prima di lei e prima di tutti gli abitanti della città, così come per i coyote, che sono pure sempre stati in quelle terre ma ora vengono considerati animali indesiderati in città, motivo di notizia. Il film infatti richiama un tema ormai ricorrente nella narrazione americana, quello della donna, madre, sola, e ogni volta, al pari del racconto del Calvario di Cristo, non perde di intensità e dramma questo racconto, basti pensare alla serie Maid, o a The Florida Project. Sembra una storia che si ripete, di stato in stato, ma con la stessa dinamica. Una giovane donna, sola, magari con un figlio, o in procinto di diventare madre, che ha un rapporto problematico con la famiglia, e magari viene da un ambiente svantaggiato, o banalmente meno privilegiato di altri, sembra non solo non potercela fare a sopravvivere – e non solo negli Stati Uniti, l’Italia anche se manca di una narrazione libera da retorica simile non è diversa – ma sembra proprio che tutto intorno la ostacoli, le remi contro, la sfrutti come capro espiatorio per scaricare a propria volta la propria rabbia e la propria insoddisfazione e frustrazione, oltre che per dare valore a qualche strana distorta idea di meritocrazia che serpeggia anche tra i più svantaggiati, paradossalmente aumentando ancora di più ingiustizie e divario sociale.
Kota ha un brutto rapporto con la madre, è sola a New York, lavora in un piccolo supermercato, poi il suo ragazzo Yuri è costretto a tornare in Ucraina perché il padre ha un infarto, proprio in quel periodo la Russia invade il Paese e Kota, che ha appena scoperto di essere incinta, e vuole tenere il bambino, anche se secondo Yuri – che pure dice di amarla – è una cosa da matti, una stupidaggine, perde le sue tracce. Deve lasciare la casa in cui stavano perché ora è sola e costa troppo, è in crisi e al lavoro si lamentano dei suoi ritardi, e dei suoi scoppi di rabbia, ha paura, si sente in trappola, e il mondo intorno a lei sembra stringerle un cappio al collo ogni giorno di più. La truffano, la licenziano, le si rompe pure la busta della spesa con le cose che aveva comprato con gli ultimi soldi per mangiare qualcosa di vagamente sano in gravidanza. Ma sembra che nessuno sia disposto ad aiutare chi è indifeso e in difficoltà, piuttosto la società pare impegnarsi a trovare le colpe personali – che personali non sono mai come racconta bene la matematica e saggista Cathy O’Neil ne L’era dell’umiliazione – che in qualche modo, e con enormi bias, giustifichino il motivo per cui alcune persone siano bisognose di aiuto, e non se lo meritino.
Lo sviluppo narrativo, e il montaggio del film, sottolineano il caos della città, e dell’intera società contemporanea, individualista e tardo-capitalista, ma anche il senso di disorientamento della protagonista. La narrazione scelta da Anderson combina elementi di fiction, documentario e materiali d’archivio e utilizza diverse tecniche, tra cui il Super 8, un grande classico della nostra infanzia negli anni Novanta, il digitale e il video analogico, per creare un collage visivo che riflette la complessità emotiva di Kota, così come lo iato e al tempo stesso il mescolarsi della sfera percettiva del ricordo e del presente. Le immagini di Coney Island e Brighton Beach, spesso accompagnate da voice-over evocativi e poetici, o dalle canzoni scritte da Kota, contribuiscono a creare un’atmosfera onirica e malinconica, messa ulteriormente in risalto dalla performance dell’attrice esordiente che la interpreta, Kota Johan, che offre una performance intensa e sfaccettata, vulnerabile e determinata al tempo stesso, che rifiuta di essere una vittima, pur essendolo, evidentemente, ma che cerca in ogni modo di trovare un senso di appartenenza in una città in continua evoluzione, di ritagliare la sua nicchia ecologica, anche quando tutto intorno a lei le è ostile.
Il tema dell’identità è infatti fondamentale, così come quello delle sfaccettature che assume nella transitorietà e nell’estrema rapidità della vita urbana. Anche per questo Kota sembra essere tanto affascinata dai materiali video di Sullivan, dalla traccia lasciata dalla sua vita, dai suoi ricordi, dal modo in cui, proprio come tra il mare e la spiaggia, presente e passato si incontrano per darci forma, creare ciò che siamo. Questo tema dell’identità individuale nella grande metropoli è un topos cardine che affonda le sue radici già in Baudelaire e nello spleen parigino, passando per romanzi come Berlin, Alexanderplatz di Alfred Döblin, ma anche le pièces del drammaturgo ungherese Ödön von Horváth, per poi approdare nella narrazione più contemporanea a New York, con film come Un uomo da marciapiede, ma anche Stranger Than Paradise, di Jim Jarmusch, Dog Day Afternoon, inoltre il tema della presenza degli animali in città, quasi come una presenza mistica, ricorda un uso narrativo tipico di questi “attori” fatto da David Lynch, ma anche Ghost Dog, sempre per tornare a Jarmush. Nell’insieme gli immaginari che attraversano le metropoli occidentali e la cultura americana sembrano sovrapporsi e fondersi in una tragedia intima e onirica, in cui la percezione sensibile guida tutta la storia, attraverso un ricco spettro di sfumature.
Haley Elizabeth Anderson ha sicuramente sfidato le convenzioni narrative tradizionali che vengono concesse al racconto femminile, e che per fortuna negli Stati Uniti stanno trovando sempre più spazio, anche se non vengono loro certo risparmiate critiche. Le donne stanno finalmente riuscendo a trovare uno spazio di ricerca narrativa libera e autentica, che al pari di quella maschile trova riscontri nel pubblico, offrendo uno sguardo intimo e poetico, in questo caso sulla vita di una giovane donna in una metropoli in continua trasformazione e in un periodo di crisi globale. Così la storia femminile, estremamente specifica, attraverso la creazione di uno stato d’animo evocativo e intimo, è capace di farsi universale, invitando qualsiasi spettatore a capire cosa significa vivere in quei panni, affrontare quelle difficoltà, in maniera intensa, proprio perché “vicina”, vicinissima, epidermica, e a riflettere sul significato, sul potere e sul valore del ricordo, dell’identità e della resilienza, sul nostro essere tutti esseri interconnessi, e pur nell’infinita diversità uguali.
“Tendaberry” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova.
