Dove la logica strumentale della filosofia o delle scienze sociali non potevano arrivare, molto spesso si è inserito il cinema. E se si parla delle grandi domande sulla società moderna e sull’essere umano, il pensiero non può che andare ai film di Stanley Kubrick. Nessuno come lui, infatti, è riuscito a mettere insieme la piazza e il palazzo, presentando temi complessi attraverso una forma fruibile ed esteticamente ineccepibile, mettendo insieme la profondità di una riflessione sfaccettata e critica sulla condizione umana con la capacità di farsi capire dal grande pubblico, con opere destinate a diventare parte integrante del nostro immaginario collettivo.
Riservato e non abituato alla luce dai riflettori, la vita di Kubrick, nato nel 1928 a New York, si mescola con la leggenda. Da sempre considerato un perfezionista, in un’intervista al giornale tedesco Der Spiegel, Kubrick smentì coloro che l’avevano accusato di far ripetere le scene agli attori un centinaio di volte, ma affermò che in alcuni casi era successo di arrivare fino a sessanta takes. Qualcuno, come Robert Duvall, è arrivato perfino a definirlo “nemico degli attori” per le condizioni di estremo rigore che imponeva sul set, un set che era completamente suo. Tutto il processo artistico, infatti, dalla sceneggiatura alla fotografia, dal sonoro al montaggio, doveva passare da lui. Eppure, ciò che rende così straordinario il suo cinema non sta tanto nella capacità tecnica o nell’analitica e minuziosa costruzione del film. L’unicità Kubrick sta nell’essere stato in grado, forse come nessun altro dopo Shakespeare, di mettere insieme cultura alta e bassa, il pubblico e la critica, il risultato commerciale con la profondità dei temi mai portati prima d’allora sullo schermo, diventando accessibile senza scadere nella banalità.
Il successo di Kubrick non è mai stato messo in discussione. Con l’eccezione di alcuni film in alcuni Paesi – come Barry Lyndon negli Stati Uniti – il pubblico reagì sempre positivamente ai suoi film. Ma il suo impatto va bene oltre gli incassi al botteghino e l’influenza avuta sul mondo del cinema che lo ha seguito, con la quasi totalità dei più grandi registi contemporanei che dichiarano di ispirarsi ai suoi lavori. Anche le colonne sonore utilizzate da Kubrick sono entrate nell’immaginario collettivo, come nel caso dell’overture di Così parlò Zaratustra e “Sul bel Danubio blu” di Johann Strauss in 2001, o le musiche realizzate per Shining e Arancia meccanica da Wendy Carlos. Per non parlare poi dell’iconicità delle maschere di Eyes Wide Shut, del discorso del sergente Hartman in Full Metal Jacket o dei drughi, la banda di ragazzi dediti all’iper-violenza di Arancia meccanica. E ancora dell’occhio rosso di HAL900, che dopo 2001 diventa il simbolo dell’intelligenza artificiale per antonomasia, oltre che delle sue derive. Con questo film, Kubrick diventò addirittura protagonista di una teoria del complotto: come raccontato dal documentario Room 237, secondo alcuni, il regista avrebbe diretto il finto sbarco sulla luna del 20 luglio 1969 e Kubrick avrebbe nascosto le prove di questa verità proprio in alcune scene di Shining.
Con i suoi tredici film, Kubrick ha toccato quasi tutti i generi, dimostrando un’ecletticità tecnica e tematica che gli ha permesso di raccontare tutte le sfaccettature e le contraddizioni dell’essere umano. Come ha scritto il critico cinematografico Davide D’alto, “Kubrick è il regista dei grandi temi che arrovellano l’uomo al cospetto della modernità”. Proprio come le commedie e le tragedie di Shakespeare, nessuna delle sue sceneggiature era originale, ma sempre tratta da libri o opere precedenti. Perché la grandezza non sta soltanto nella trama in sé, ma in come questa trama viene sviluppata e raccontata. La sostanza non è separata dalla forma, ma quest’ultima rafforza la prima, aprendo prospettive di significato altrimenti irraggiungibili. Kubrick lo spiega parlando di 2001: la trama, ridotta all’osso, sarebbe lineare. Ciò che ci sconvolge, che ci rapisce e fa sì che ci mettiamo in discussione sta in tutto il resto: le inquadrature dal basso del monolite ci interrogano sulla piccolezza umana nei confronti dell’universo; l’ambiguo comportamento di HAL9000 ribalta il dominio umano sulla tecnica, trasformando il soggetto in oggetto; i colori dello psichedelico e apparentemente impossibile viaggio inter-dimensionale di Floyd diventano un’esplorazione del nostro stesso inconscio.
Come ha sostenuto il professore Philip Kuberski nel suo Kubrick’s Total Cinema, i film di Kubrick “pensano”: non perché impongano un pensiero allo spettatore, ma perché dall’unione di immagini, suoni, dialoghi e montaggio esce una filosofia e una riflessione sulla vita e sull’uomo che non dipende dall’astrazione della parola scritta, ma dalla concretezza di una storia portata sullo schermo. Il pensiero del regista non è mai esplicito, mai ostentato, eppure è ben presente nelle sue opere, che ognuno di noi è libero di interpretare. Ed è proprio il necessario e personale contributo dello spettatore a permettere un’interiorizzazione del messaggio.
Solo con questo passaggio si capisce come l’Odissea nello spazio di 2001 possa essere letta sia come un’amara riflessione sulla fine dell’essere umano, sia come un inno al superamento nietzschiano e superomistico della nostra condizione. Allo stesso modo Arancia meccanica non è più un’apologia dell’inevitabilità del male, ma una ben più sfaccettata riflessione sul necessario ruolo della violenza nella società e su come il legame tra quella legittima e quella criminale sia più sottile di quello che di solito ci viene raccontato. Il dottor Stranamore, poi, non è frutto dell’ideologia del sadismo, come ebbe a dire il critico italiano Fernaldo Di Giammatteo, ma il modo migliore in cui, secondo Kubrick, poteva essere rappresentata l’assurdità tragicomica della mutua distruzione tra popoli. Eyes Wide Shut non racconta la sessualità attraverso l’ostentazione del nudo, ma piuttosto attraverso i misteri irrisolti, i dialoghi sospesi, gli sguardi e le inquadrature, creando scene ben più erotiche e sature di desiderio rispetto a quelle che mostrano esplicitamente i rapporti.
In un’intervista a Newsweek il regista affermò che “C’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nell’essere umano, un lato maligno che accompagna sempre la nostra personalità”. I personaggi di Kubrick sono desideranti e violenti, costantemente in tensione tra una folle ragione e la ragione della follia, tra la legge morale e l’istinto animale. Kubrick scava in fondo al desiderio dei personaggi fino ad arrivare all’ospite inquietante che dimora in ognuno di essi. In questo senso è un regista critico, un’artista che preferisce mostrare il lato oscuro dell’essere umano, pur senza chiudere la porta a una possibile alternativa. Un’alternativa che però non è mai lieto fine, ma una presa di consapevolezza della drammaticità e allo stesso tempo della necessità del reale.
Kubrick ci ricorda che il problema non sta nel conoscere le risposte, ma piuttosto nel porre la domanda giusta, quella che ci sconvolge e che ci spaventa. La domanda per cui non c’è nessuna risposta pronta. E quindi quella di cui abbiamo bisogno.