È dicembre, ma in North Carolina c’è ancora una temperatura che ti permette di stare all’aperto, a bordo piscina, insieme a tua moglie Kathleen. Siete sposati da 12 anni e la vostra famiglia non potrebbe essere più felice. Bevete insieme un ultimo bicchiere, poi lei dice che vuole rientrare in casa. La saluti come se niente fosse, vi vedrete poi a letto, perchè tu vuoi rimanere ancora un po’ fuori, a goderti quest’aria stranamente tiepida.
Quando l’ultimo bicchiere è finito e inizi a sentire un po’ di freddo, ti alzi e rientri anche tu. Quello che trovi aprendo la porta è tua moglie, riversa a terra, ai piedi delle scale, in una pozza di sangue. Ti butti in ginocchio, disperato, senti se respira ancora, cerchi di capire se è viva. E chiami il 911, ovviamente.
Questo è quello che è successo a Michael Peterson la sera del 9 dicembre 2001. O meglio, questo è quello che Michael Peterson sostiene gli sia successo quella notte. Perchè quando i soccorsi sono arrivati e hanno trovato Kathleen morta i poliziotti hanno iniziato a sospettare quasi all’istante di Michael. Troppi aspetti, infatti, non tornano. Il sangue a terra, per essere caduta da pochi gradini – e neanche molto ripidi – è troppo; troppe sono le ferite sul cranio – 7 per la precisione; e ancora: come ha fatto Michael a non sentire Kathleen gridare aiuto?
Questo è l’incipit della serie true crime The Staircase, originariamente trasmessa nel 2005 da BBC e Sundance e ora arricchita di 3 nuovi episodi da Netflix. Nei 13 episodi totali di The Staircase seguiamo le vicende processuali di Michael Peterson dal momento in cui viene incriminato, pochi giorni dopo la morte di Kathleen, fino alla risoluzione del caso, oltre quindici anni più tardi.
Durante queste tredici ore abbiamo la possibilità di conoscere i dettagli più intimi della vicenda di Peterson, grazie a un accesso incredibile all’intimità della famiglia garantito alla troupe del regista francese Jean-Xavier de Lestrade. E se tredici ore vi sembrano troppo vi posso garantire che vi sbagliate perché, puntata dopo puntata, accadono colpi di scena come nel migliore dei thriller processuali hollywoodiani.
Sembra, infatti, che dieci anni prima una delle più care amiche di Peterson sia morta nello stesso identico modo di Kathleen, cadendo rovinosamente dalle scale. Paterson sembrerebbe quindi un possibile serial killer che procede seguendo un modus operandi ben preciso. Come se non bastasse, poi, delle mail trovate nel computer di Peterson testimonierebbero incontri con un gigolò e, di conseguenza, una sua presunta e nascosta omosessualità. Se Kathleen lo avesse scoperto, sarebbe forse potuto essere un buon il movente.
“Scrivendo” la realtà con la maestria del migliore degli sceneggiatori, Lestrade ci guida negli eventi straordinari di un uomo che, fin dai primi minuti, si dichiara innocente e innamorato di sua moglie. Senza rivelarvi nulla del finale, quello che posso dirvi è che, nonostante tutto il tempo passato con Peterson, alla fine non si riesce a capire con certezza se sia un bugiardo o una vittima, un assassino o uno sventurato. E questo è forse il pregio migliore di The Staircase.
Un risultato di questo livello è stato ottenuto soprattuto grazie al punto di vista del regista francese e dal contatto privilegiato che ha avuto con i vari protagonisti della storia. Fin dal primo momento dell’inchiesta, Lestrade accende le telecamere sulla vita di Peterson senza mai avere la pretesa di esprimere un giudizio. Grazie a un monte ore di girato che non oso nemmeno immaginare, possiamo osservare rapiti la costruzione della difesa dell’avvocato David Rudolf vedendo come, realmente, si svolgono in America quei processi a cui siamo abituati ad assistere nei legal drama di Hollywood. Inizialmente anche l’accusa aveva permesso alle camere di seguire le indagini ma, dopo i primi episodi, questo accordo è saltato, forse perchè il D.A. si era reso conto di avere poche prove in mano o forse perchè aveva realizzato che questo documentario sarebbe potuto diventare un’arma a doppio taglio. Registrando ogni singolo momento del processo il documentario diventa infatti una testimonianza di tutto ciò che è accaduto, offrendosi a diverse interpretazioni possibili.
La costruzione narrativa di The Staircase è semplicemente perfetta. Le musiche sono praticamente assenti e il ritmo è quello lento del documentario observational, da cui proprio Netflix ci ha fatto allontanare con le sue serie docu laccate e dall’apparenza cinematografica. Questa è la realtà, semplice e terrificante e, nonostante stilisticamente la serie sia abbastanza dimessa – lontana da serie come Making a Murderer e The Jinx – non si riesce a smettere di guardarla. Oltre alla costruzione della vicenda un ruolo fondamentale lo giocano i personaggi. Con la tridimensionalità che solo il reale raccontato con qualità riesce a rendere, impariamo a conoscere fin dai primi minuti la personalità eclettica e tormentata di Michael Peterson, uno scrittore di non troppo successo, un veterano del vietnam che, in molti sostengono, non ha mai fatto un vero giorno di guerra, e un affettuoso padre di famiglia. La famiglia Peterson è larga e varia. Ci sono i due figli maschi di Michael, avuti dal suo precedente matrimonio, c’è la figlia di Kathleen – che presto prenderà le distanze da Michael accusandolo dell’omicidio della madre – e ci sono le due figlie adottate dopo la morte dell’amica di Michael – morta allo stesso modo di Kathleen – dieci anni prima. Vengono tutti tratteggiati con atteggiamenti ed espressioni che li definiscono caratterialmente e nell’arco delle tredici puntate li vediamo crescere, invecchiare, mettere su famiglia. Quindici anni nella vita di una persona non sono pochi. Menzione d’onore anche agli avvocati e ai loro collaboratori. Non mi stupirei se David Rudolf, l’avvocato di Michael, diventasse protagonista di un qualche factual legale da qui a breve. Le sue movenze, il suo modo di esprimersi, la sua caparbietà sono degne del Paul Newman di The Verdict, del Denzel Washington di Philadelphia, del John Torturro di The Night Of. Solo che sono vere.
In un momento commovente di una delle ultime puntate, il regista Lestrade scavalca la telecamera ed entra in campo per abbracciare Michael. Il reale valore di questo documentario sta tutto in questa inquadratura. L’ossessione di un regista che per quasi due decadi ha dedicato la sua vita al racconto di una persona e delle sue sventure è troppo grande, troppo forte per essere costretta dietro a una telecamera. È insomma la vita a essere la vera protagonista di The Staircase, la vita di queste persone che trasuda da tutte queste ore di girato e che si intrufola nelle vicende crime della storia. Ci troviamo a vedere, per decine di minuti, i racconti delle vacanze di Michael con la sua famiglia, i noiosi viaggi in macchina degli avvocati, i piccoli momenti di tensione prima di eventi significativi – c’è una scena meravigliosa in cui Rudolf sta provando il suo speech per il giorno successivo in tribunale e ha a che fare con un assistente sovrappeso che non riesce a mettere una slide dopo l’altra e il cui telefono continua a vibrare, distraendo l’avvocato. Questa scena non ha nessun peso narrativo, eppure è lì, a testimonianza che la vita vera va oltre il racconto di genere, va oltre al semplice susseguirsi di scene “narrativamente rilevanti”. E questa vita raccontata raggiunge il suo massimo splendore televisivo nel momento in cui un semplice cartello con scritta bianca su nero ci informa che otto anni sono passati, che tre anni sono passati, che i mesi passano e noi siamo ancora lì, con Michael, noi sempre uguali a noi stessi, e lui invecchiato, ingrigito, fragile come una persona che ha raggiunto la vecchiaia in modo brutale, non raccontato, nascosta da un banalissimo cartello.
Non mi stupisce affatto che Netflix si sia comprata The Staircase. Non esisterebbero Making a Murder, The Keepers, Evil Genius o The Investigator senza The Staircase. I tre nuovi episodi prodotti da Netflix riaccendo le camere sulla famiglia Peterson nel 2016, lasciando invariata la cifra stilistica del documentario – una scelta più che corretta. Aggiornarne lo stile con nuovi metodi di ripresa o con ritmi narrativi diversi sarebbe stata una storpiatura. Non credo che questi nuovi episodi fossero realmente necessari, ma se ne apprezza comunque la visione. Anche alla fine di Hoop Dreams – un altro documentario che ricorda molto nello stile e nel mood, seppur con una tematica completamente diversa The Staircase – ricordo di aver cercato spsasmodicamente informazioni su che fine avessero fatto i protagonisti della storia. I tre episodi prodotti da Netflix assolvono esattamente a questo compito.
Da un punto di vista produttivo, quando nel 2004 uscirono i primi 8 episodi non esisteva ancora il binge watching e un’intera serie documentaristica era quanto meno fuori dagli schemi. Ora che i nostri occhi sono più abituati al racconto del reale, anche grazie al grande contributo di Netflix, appare quindi naturale che la società di Hastings abbia voluto prendere il pacchetto Staircase e brandizzarlo realizzando questi 3 nuovi episodi. Nel panorama di contaminazione attuale, in cui i film sembrano documentari e i documentari hanno sempre più un gusto cinematografico, The Staircase ci ricorda il punto di partenza di questo percorso. Un punto di partenza che, se perso di vista, ci lascerebbe una grave perdita, soprattutto per chi si è approcciato solo di recente a questo genere, a cui una serie come The Staircase regala la possibilità di scoprire da dove vengono molte delle più recenti opere documentaristiche di successo.