In “Speriamo che sia femmina”, di Monicelli, le donne non chiedono scusa, non devono dimostrare nulla - THE VISION
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Tra i sette archetipi femminili che la psicanalista junghiana Jean S. Bolen individua nel pantheon greco, ho sempre amato particolarmente Estia, la dea vergine del focolare domestico. La sua figura è anticonvenzionale non solo rispetto all’idea della donna pienamente calata nell’impalcatura sociale e familiare del patriarcato – come per esempio Era. L’unicità di Estia sta anche nel suo essere una divinità vergine, e dunque immune alla dipendenza da un partner, e al contempo molto diversa dagli archetipi delle altre due dee vergini, Atena e Artemide. Se Atena, dea della sapienza, incarna la forza dell’intelletto e l’indipendenza raggiunta attraverso il raziocinio, Artemide è la dea della caccia: entrambe con immagini, in una luce forse un po’ stereotipata, rimandano comunque alla forza, fisica o mentale, del maschio. Estia invece non è nulla di tutto questo.

Non si lega a un uomo né a un dio, eppure sceglie il focolare domestico come luogo in cui esprimere sé stessa; incarna un’immagine di cura, di calore e di accoglienza, ma non ha bisogno di compiacere nessun partner né di sacrificare una parte di sé sull’altare del “prendersi cura degli altri”. Estia è l’archetipo della donna legata a un’idea casa e di famiglia non ingolfate dagli attributi culturali che diamo loro oggi, in base ai quali se una donna si sente pienamente realizzata in un’immagine più statica e meno combattiva, allora è e sarà per forza dipendente da un “maschio alfa”; in base ai quali o trova realizzazione e appagamento fuori casa, o dovrà votare la sua vita alle pretese di altre persone. Estia – oggi forse la meno nota tra le sette divinità archetipiche – è libera pur rimanendo tra le mura di casa, pur praticando la cura e l’accoglienza, ed è a lei che penso quando rivedo Speriamo che sia femmina, commedia amara del 1986 diretta da Mario Monicelli. Un affresco, quello di Monicelli, di donne libere e solidali, tutte disilluse e, in alcuni casi, rese sagge da un dolore pregresso.

Protagonista del film è una famiglia anticonvenzionale, tutta al femminile, in cui le donne organizzano la propria vita e indipendenza, mentale e affettiva, contando su sé stesse e sostenendosi a vicenda. Donne che vivono in un casolare di campagna, con Elena – Liv Ullmann – come capofamiglia; giovani e meno giovani che lavorano duramente, che non si negano alcuni piaceri e, al contempo, sanno mettersi in fuga dagli uomini che si rivelano venali, egocentrici. A caratterizzare i personaggi maschili che orbitano nel film, infatti, c’è la tendenza a rivelarsi egoisti, immaturi anche da adulti; spesso inetti, facili alle passioni inconsistenti e in fuga dalle proprie responsabilità, e per questo tenuti fuori dal casolare di campagna. Unico uomo ben accetto nel gineceo è lo zio Gugo, anziano e rimbambito, i cui eccessi di autoritarismo sono l’immagine comica e amara di un patriarcato ormai inerme, e solo per questo capace di suscitare anche simpatia.

Tra i personaggi maschili più interessanti c’è Leonardo – Philippe Noiret –, marito di Elena e padre di Franca e Malvina, che non vive nel casolare di campagna per decisione condivisa con la moglie. Quando irrompe sulla scena lo fa per chiedere un aiuto economico a Elena, che però non acconsente e a ragione, poiché questi è inaffidabile e irresponsabile, e trascinerà in una spirale di debiti anche la sua amante Lori, interpretata da Stefania Sandrelli. Elena sa di non poter contare su Leonardo, e lo inviterà a non attribuirsi il ruolo di saggio educatore della famiglia di cui non è all’altezza; al contempo non gli chiude la porta in faccia, non prova rabbia nei suoi confronti, ma è sempre ferma nel far valere le proprie ragioni e opinioni, difendendosi dalla venalità e dai tentativi di persuasione di colui che è il padre delle sue figlie.

Maschi fragili e spesso incoerenti, volubili nelle passioni e nei desideri, che tentano di “ammaliare” le donne per restare a galla, che hanno paura di invecchiare e di fallire ma dissimulano queste paure indossando, talvolta, una maschera; che tentano di irrobustire un’identità fragile aderendo a stereotipi rassicuranti: da una parte, appunto, Leonardo –, che tiene a precisare che ormai non dorme mai con nessuna donna, ma che ci va solo a letto –, dall’altra Cesare – Adalberto Maria Merli –, che tradisce la moglie per non distrarsi dai propri fallimenti, arrivando persino a cercare conforto in Malvina, per lui attraente solo in quanto giovane e, come ammette lo stesso Cesare, “nuova”. Ma se gli uomini del film sono tanto inconsistenti, le donne non sono affatto presentate come eroine. Per lo meno non tutte, ed è proprio questo a renderle così forti, quasi irreali nella loro solidità e dignità spontanea, mai forzata o sottolineata. Siamo abituati, soprattutto oggi, a narrazioni epiche di donne che, secondo il pensiero comune, sono state tanto straordinarie da “avercela fatta”; donne forti “nonostante tutto”, che non mollano mai, che combattono: le protagoniste di Monicelli sono altra cosa. Speriamo che sia femmina non è un grido di denuncia contro il patriarcato ma un sussurro, un’utopia ben congegnata che sembra portarci in un tempo e in un luogo in cui le donne vivono, semplicemente, senza doversi sempre far perdonare qualcosa, senza doversi scusare per il solo fatto di non essere uomini.

Se qualunque donna che si afferma come individuo a sé stante, anche la più emancipata, sembra conservare più o meno inconsciamente sempre un, pur lieve, sostrato di senso di colpa atavico, nel film questo sostrato sembra dissolversi, e, d’altro canto, tutte si distinguono per la tendenza a deporre le armi con le altre donne e praticare la solidarietà. Alcune delle protagoniste si rivelano spezzate, ammaccate e, talvolta, assumono comportamenti che un certo pensiero bigotto non ci penserebbe un attimo a condannare. Se Claudia – Catherine Deneuve – è l’amante di un uomo sposato e, per necessità legate al lavoro di attrice, trascura la propria figlia piccola, Franca – Giuliana De Sio – vive svariati amorazzi con uomini che usa e non stima, senza investire realmente in nessun legame. Anche Fosca – la domestica dedita al focolare ma mai compiacente con gli uomini – che vive lontana dal marito e verrà da lui tradita e abbandonata, riceve le critiche aspre e paternalistiche di Don Maurizio, parroco del paesino: “la famiglia deve restare insieme”, le dice, accusandola indirettamente di aver causato la rottura del proprio matrimonio, poiché non ha seguito il marito in Australia.

Nella società contemporanea, si è avvezzi a tendere la mano e a elogiare solo le donne prossime alla perfezione, ammantate di un’aura di eroismo che le assolve dall’essere nate femmine; nel film di Monicelli invece le donne volubili, come Franca e Lori, ricevono dalle altre il medesimo supporto di quelle più giudiziose, come la Malvina interpretata da una giovane Lucrezia Lante della Rovere. Perciò, sì, è interessante vedere all’opera nel film le virtù che siamo abituati a lodare nelle donne, ma ancora più interessante è vedere come, finalmente, si conceda loro la stessa la possibilità di sbagliare, di essere egoiste, di inseguire il piacere anche fugace, di rivelarsi incoerenti; di essere amanti di uomini sposati o di avere una vita sentimentale instabile. Senza per questo perdere l’appoggio e l’amore delle altre donne, senza essere ritratte come delle macchiette inconsistenti o incarnazioni di un pericoloso mix di tentazione e colpa. Per portare le abitudini del microcosmo di Monicelli anche nella vita reale, bisognerebbe imparare a posare sulle donne lo stesso sguardo che si ha spesso per gli uomini: comprensivo, empatico, anche assolutorio. Ma purtroppo, ancora oggi, se sei donna e vuoi ricevere la solidarietà femminile devi sacrificarti molto, aderire a certi stereotipi, rivelarti instancabile e multitasking.

Speriamo che sia femmina realizza un ritratto sfaccettato e stratificato di un mondo femminile così all’avanguardia da sembrare quasi utopico. Le protagoniste non accettano alcun compromesso col sesso maschile, soffrono per l’egoismo e l’inettitudine degli uomini a cui si legano – pur saltuariamente –, ma questo non impedisce loro di mantenere uno sguardo lucido sulla propria esistenza; il dolore che provano non appanna la vista di nessuna di queste donne che, pur tutte diverse – assennate, vulnerabili, frivole – impediscono a qualunque uomo di approfittarsi della loro umanità e solidità. Donne che vivono la casa e la governano, che restituiscono al focolare domestico la dignità di luogo di realizzazione piena e indipendente, e non di asservimento all’uomo. Che lavorano e amano, che vogliono essere desiderate e per questo, talvolta, sbagliano, seguendo i propri impulsi e al contempo sanno fare marcia indietro responsabilmente, ma senza lasciare spazio a sensi di colpa o vergogna. Ma che insieme, nessuna esclusa, rigettano l’idea che esistano per donne e uomini codici etici differenti, che colpevolizzano le prime e, per le stesse scelte o azioni, assolvono i secondi. Che imparano a fare mai alcuno sconto agli uomini pur di non vederli andare via.

Benché sia un film degli anni Ottanta, Speriamo che sia femmina ha saputo raccontare la presa di coscienza dell’universo femminile della propria saggezza e capacità di costruire legami solidi e un’esistenza mentalmente e concretamente libera, mai scevra da amarezze eppure solida e capace di spensieratezza. Racconta la ribellione pacata alle imposizioni e ai rigidi schemi della famiglia tradizionale, segnando il trionfo dei legami che non sono soltanto di sangue, ma che scaturiscono da una scelta affettiva consapevole. Ma soprattutto mette in scena donne che non chiedono scusa, che non si sacrificano, e che allo stesso tempo non vogliono e non devono dimostrare nulla, né di essere immuni ai passi falsi, né di “avere le palle”, come se il complimento più edificante per una donna fosse riconoscerle di somigliare al maschio. Di fronte alle spinte reazionarie degli ultimi tempi, il film di Monicelli va riscoperto per comprendere il valore dei legami liberi e paritari, in contrasto con retaggi patriarcali ancora duri a morire.

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