In un’intervista rilasciata nel 1993 al quotidiano francese Le Monde, Federico Fellini ha definito Nanni Moretti “un giovane Savonarola”, abbastanza convincente da essere riuscito a far piacere le sue idee anche a “un vecchio Papa corrotto” come lui. Questa affermazione è stata ricordata in più di un’occasione da giornalisti e ammiratori a Moretti, che ha sempre preso le distanze dal parallelismo con il predicatore domenicano, forte della certezza che Fellini, in realtà, non avesse mai visto nessuno dei suoi film, così come quelli di qualsiasi altro autore, e non tanto per una questione di snobismo, quanto per il totale disinteresse che il grande regista romano nutriva nei confronti della dimensione di spettatore, quando si trattava di cinema. Per questo, stando al diretto interessato, una similitudine del genere non poteva che risultare quanto meno azzardata, anche se dopo aver visto Il sol dell’avvenire, l’ultima opera di Moretti, io la trovo sempre più calzante.
Che Fellini leggesse molti libri, ma guardasse davvero pochi film – a parte qualche pellicola di Tinto Brass, di nascosto – è in effetti piuttosto noto. Quello che mi piace pensare, però, è che egli, magari senza nemmeno aver visto mezza scena di Ecce Bombo, fosse riuscito a intuire un aspetto inconfondibile della figura Moretti, che è esattamente ciò che rende unico il suo cinema e anche il suo ultimo film: la capacità di trattare ogni opera come una seduta di autoanalisi – o meglio, di autocoscienza –, un tentativo di materializzare la propria soggettività immergendo lo spettatore in una prospettiva estremamente personale, ma altrettanto persuasiva, perché fondata su alcuni principi incrollabili, molto simili a quelli che stanno alla base di un credo o di un’ideologia politica – dall’amore incondizionato per i dolci, all’ossessione per le scarpe che le persone scelgono di indossare, passando per una certa intolleranza alla filmografia di Lina Wertmüller e a tutto ciò che questa rappresenta in Io sono un autarchico. Il sol dell’avvenire è la sintesi di questa sua particolare visione del mondo, una sorta di circo tragicomico che ne tiene assieme tutte le componenti, e permette così di intercettare ancora una volta i pensieri dell’autore e il suo sguardo sulla realtà, per scoprire come esso si sia trasformato nel tempo, e in cosa, invece, sia rimasto invariato.
Non è un caso che nel film la metafora dell’esplorazione interiore sia rappresentata proprio da uno spettacolo circense, un omaggio a Fellini e al suo immaginario onirico e opulento che Moretti, al contrario, presenta come una forma di intrattenimento adatta anche all’asciutta sobrietà di certa sinistra. La compagnia ungherese Budavari, con i suoi acrobati, elefanti e mangiafuoco, è al centro della sceneggiatura che scandisce la vita di Giovanni – un regista non particolarmente prolifico interpretato dallo stesso Moretti – che riesce a realizzare soltanto un film ogni cinque anni, anche se al momento ne ha tre per la testa. Accanto alla vicenda di un nuotatore che vuole mappare Roma a vasche, attraversando in stile libero tutte le piscine della città – una citazione manipolata di Palombella Rossa –; e al racconto di una storia d’amore lunga cinquant’anni, ma soffocata da una colonna sonora onnipresente – le cui vere protagoniste sono “Lontano Lontano” e “La canzone dell’amore perduto”, non di certo gli attori –; Giovanni sta realizzando questo film sul PCI ambientato al Quarticciolo nel 1956, dove il direttore dell’Unità (Silvio Orlando), in piena invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica, decide di invitare il circo di Budapest a esibirsi nel suo quartiere.
A partire dall’irruzione nelle idee incomplete e spesso sconclusionate del protagonista, Il sol dell’avvenire mi ha proiettata nelle varie fasi del meccanismo cinematografico, sempre filtrate dall’introspezione di Giovanni, che pur non essendo un regista in crisi non può fare a meno di trasferire le sue nevrosi nel lavoro, mettendo in scena il vasto spettro di manie dell’essere umano che Moretti ha saputo rendere la cifra specifica del suo cinema, perché alcune di esse rappresentano, in primis, un tratto distintivo della sua personalità. Così le attrici che recitano nel suo film non possono portare i sabot, lasciando i talloni scoperti – un gesto sacrilego concesso soltanto ad Aretha Franklin in The Blues Brothers –, il giorno che precede l’inizio delle riprese è immancabilmente segnato da un rito propiziatorio che abbina Lola di Jacques Demy al gelato alla cannella – e che dà tutta l’impressione di rappresentare un dettaglio autobiografico –, e la perfezione delle scene deve essere calibrata sul metro “politico e poetico” dei fratelli Taviani in San Michele aveva un gallo. Tutto il resto va buttato e rigirato, a costo di sforare malamente i tempi di produzione – come Moretti è solito fare anche nella vita reale.
Le allusioni ai primi capolavori – compreso il tango intervallato da palleggi sulle note di “Et si tu n’existais pas”, che riprende La messa è finita – sono talmente frequenti da insinuare il dubbio che Michele Apicella sia in qualche modo entrato a far parte del film, rimanendo in disparte, ma solo per farsi notare di più. I “dilemmi dell’apparire” del regista, però, mi sono sembrati più complessi e stratificati degli inizi, tanto da richiedere una moltiplicazione dei suoi alter ego. Nonostante il personaggio di Giovanni incarni per molti aspetti la psiche di Moretti, nel film si assiste a una sorta di mitosi soggettiva, per cui anche la moglie del protagonista, Paola (Margerita Buy), che intraprende un percorso di psicanalisi quando si scopre incapace di lasciarlo; e l’attore interpretato da Orlando, che fa del finale del film – in cui viene inscenato il suo suicidio – quasi una missione esistenziale, sono parte integrante della totalità espressiva che l’autore tenta sempre di raggiungere per raccontarsi.
In una scena che mi è persa una reminiscenza di Caro diario, con il suo attacco alla violenza gratuita al cinema, lo scontro tra Giovanni e la moglie prende quasi le sembianze di un conflitto interiore. Arrivati all’ultimo ciak del nuovo film di un regista esordiente, a cui Paola sta lavorando come produttrice, infatti, il protagonista non può fare a meno di essere sé stesso in modo eccessivo e sconveniente – forse anche un po’ colpevole, in questo caso –, proprio come il Moretti ossessivo di Bianca. Finisce così per intavolare un dibattito sugli spargimenti di sangue inutili, in cui include l’esecuzione prevista dalla scena, coinvolgendo addirittura Renzo Piano, con il suo particolare punto di vista sulla trasfigurazione della brutalità in Apocalypse Now; e la matematica Chiara Valerio, che provvede a calcolare le possibili traiettorie dei proiettili per dimostrare le loro insopportabili asimmetrie. La sequenza si conclude con uno splendido richiamo a Breve film sull’uccidere di Krzysztof Kieślowski, dove oltre sette minuti della narrazione vengono dedicati a seguire un ragazzo che tenta di uccidere un tassista, mostrando quella che Moretti definisce la “fatica della violenza”, che non è lì per intrattenere, ma per nauseare, per allontanare da ciò che scorre sullo schermo, e quindi è tutt’altro che superflua.
D’altronde, come afferma Giovanni quasi per giustificare l’accaduto, “nella vita due o tre principi ci vogliono”. E nonostante alcune cose siano inevitabilmente cambiate – il regista preferisce un monopattino elettrico alla Vespa per i suoi sopralluoghi, canta Sono solo parole di Noemi in macchina invece di Battiato e a un certo punto rischia di farsi finanziare il film da Netflix, prima di ripiegare su una produzione coreana – ne Il sol dell’avvenire, quelli di Moretti ci sono tutti. Per esprimerli, decide di passare attraverso il cinema stesso, conferendo alle opere che più ha amato il ruolo fondamentale che è sempre stato ricoperto dalle sue idiosincrasie personali. In questo film, infatti, Moretti è più Savonarola che mai. Quello che riesce a creare attorno alla sua visione cinematografica, fatta non solo dei film che ha realizzato, ma di tutte le narrazioni che hanno avuto un impatto su di lui, è una vera e propria forma di culto, un’ideologia che è prima intima e poi artistica, e che decide di condividere perché gli appartiene profondamente, come tutti siamo portati a fare con quello che davvero ci appassiona.
Anche la decisione che modifica le sorti del finale, un po’ come l’imprevisto che ha determinato la genesi di Caro Diario, è un omaggio al racconto cinematografico. Giovanni subisce una sorta di conversione, con cui abbandona l’ossessione per la verosimiglianza che continuava a rallentare le riprese, per provare a “fare la storia con i se”, immaginando un protagonista che non si suicida, e soprattutto un PCI che sceglie di condannare l’URSS, schierandosi a sostegno del popolo ungherese. Le ipotesi e i controfattuali che riscrivono il copione, ma anche la Storia, sembrano in qualche modo riappacificare il protagonista con la narrazione della sua stessa esistenza, in quello che è il preludio di un nuovo “avvenire”. Un attimo prima di una parata che riempie i Fori Imperiali, riunendo le figure simbolo del cinema di Moretti, tutti iniziano a girare “come i dervisci turner”, e finalmente si sente la voce di Battiato cantare, come se la sua musica rappresentasse il testo di una visione del mondo a cui né il regista, né noi, saremo mai disposti a rinunciare.