Esiste un termine coniato dal sociologo Edward C.Banfield negli anni Cinquanta che, per quanto oggetto di critiche e rielaborazioni nel corso degli anni da parte di altri sociologi, trovo sempre molto interessante ed evocativo, ossia “familismo amorale”. Il concetto di raccomandazione, una parola spesso intraducibile in altre lingue che connota in modo chiaro un tratto della società italiana, è un sempreverde delle conversazioni alle cene tra amici, delle chiacchiere da bar: tutti conosciamo qualcuno che ha ottenuto qualcosa per il semplice fatto di essere il figlio o l’amico o l’amante di qualcun altro, tutti sappiamo che il nepotismo esiste, ci danneggia, crea situazioni spiacevoli, eppure è un’usanza che non si è mai estinta e probabilmente mai lo sarà. Gli inglesi dicono “L’elefante nella stanza” per parlare di un enorme problema chiaro a tutti ma che nessuno risolve e non so dire se il familismo amorale, il nepotismo e le raccomandazioni siano in effetti un tratto esclusivo dell’italianità – a istinto direi di sì, ma non è così che si fanno le statistiche – di certo, però, anche il caso recente della querelle tra Mattia Feltri, Vittorio Feltri e Laura Boldrini potrebbe considerarsi un ennesimo campanello d’allarme per lo stato delle cose nel mondo del lavoro, specialmente ad alti livelli, del nostro Paese.
Per portare avanti la sua indagine sul familismo amorale, il sociologo Banfield trascorse del tempo in un paesino della Basilicata, regione d’origine di uno dei maestri della New Hollywood americana, Francis Ford Coppola, nonché capostipite di una famiglia che spesso è stata accusata di nepotismo. La famiglia Coppola, infatti, è ciò che potremmo definire il simbolo dell’aristocrazia cinematografica statunitense, dal momento che tanti attori, attrici, registi e registe importanti e famosi fanno parte di qualche ramo dell’albero genealogico del regista della saga de Il Padrino. Ed è proprio la trilogia iconica e immortale che racconta le vicende della famiglia Corleone – la mafia, la famiglia, la tradizione: gli elementi di questa vicenda tornano anche sullo schermo – che è costata a Coppola l’accusa di aver raccomandato sua figlia Sofia per interpretare un ruolo centrale nel terzo capitolo della saga, sostituendo Winona Ryder, impossibilitata per questioni di salute a girare il film . La presenza goffa e poco espressiva di Sofia Coppola, allora appena diciannovenne, fu addirittura additata come causa centrale del flop de Il Padrino III, dal momento che la ragazza non aveva mai recitato e non sapeva nemmeno mascherare il suo accento da teenager californiana. In effetti, la performance di Coppola figlia è memorabile per quanto poco riuscita – celebre la scena della sua morte – ma non è certo per questo che il film è andato male, semmai perché Francis Ford Coppola non ne azzeccava una da un po’, come ogni tanto succede agli artisti, anche i migliori.
L’ingresso di Sofia Coppola nel mondo del cinema, dunque, è coronato da una caterva di insulti e polemiche, generate più per una mossa poco furba del padre che per una sua colpa. Le accuse di nepotismo, o familismo amorale, quello che predilige il legame di sangue alla competenza – sebbene la fisionomia di Sofia Coppola ne Il Padrino III sia molto azzeccata per il ruolo, a prescindere dalle sue doti attoriali – per quanto anche fondate, hanno fatto sì che la figlia di Francis Ford Coppola abbandonasse prematuramente il mondo della recitazione, facendo tirare un sospiro di sollievo a gran parte della critica. Una scelta di cui non penso si sia pentita, visto che il suo ruolo nel cinema non era quello di attrice – raccomandata o meritevole che fosse. Sofia Coppola, infatti, nei primi anni Duemila, forse anche mossa da un senso di rivalsa per il battesimo di fuoco indelicato, ha contribuito alla creazione di un nuovo filone di cinema americano, un genere che è andato di pari passo con la musica, con la scena culturale newyorkese indipendente, con un’estetica che, piaccia o no, ha lasciato un segno profondo nel nostro immaginario recente.
Non è facile storicizzare qualcosa di così vicino come l’inizio del nuovo millennio, ma abbiamo già a disposizione molti elementi stilistici per poter tracciare una personalità abbastanza definita. Per quanto mi riguarda, parlando del cinema di circa vent’anni fa, non sono mai stata una grande fan dei film di Sofia Coppola, non mi hanno mai colpita particolarmente a livello di sceneggiatura e trama, non la inserirei in una lista dei miei registi preferiti; ma questi sono gusti personali. Al contrario, se mi chiedessero una lista dei registi più influenti per il cinema americano degli anni Duemila, non esiterei un secondo a metterla in pole position: Sofia Coppola ha infatti creato un’estetica che, proprio grazie alla sua formazione, alla sua crescita in questo castello dorato dell’aristocrazia cinematografica statunitense – anche se “italoamericana” forse sarebbe più accurata come definizione – è diventata la sua cifra stilistica, diventando un punto di riferimento per il cinema contemporaneo.
Quando basta vedere un fotogramma di un film per capire di che regista si tratta vuol dire che il regista in questione ha creato qualcosa di significativo, nuovo e personale, una missione che dovrebbe appartenere a qualsiasi artista. Sofia Coppola e il suo “female gaze”, come lo ha definito lei stessa, è presente nei suoi film attraverso una serie di elementi chiave del suo racconto, che ha molto a che vedere con l’ambiente in cui si è formata in quanto donna; un ambiente privilegiato, elitario, protetto, ma anche culturalmente stimolante come pochi ed è in questa sua personalità eclettica, concretizzata in immagini e atmosfere sempre ascrivibili al suo stile, che sta la bellezza dei suoi film.
Più che come protagonista de Il Padrino III, infatti, bisognerebbe partire da Sofia Coppola protagonista del video dei Chemical Brothers Elektrobank, dalla sua connessione profonda e inscindibile con il mondo musicale della scena newyorkese fine anni Novanta, dai Beastie Boys ai Sonic Youth fino agli Strokes, dal french touch degli Air ai Phoenix: la regista de Il giardino delle vergini suicide, capolavoro di decadentismo adolescenziale, trasognato e voyeurista, ha creato un universo di immagini che si legano perfettamente alla musica rock che, nel suo ultimo impulso creativo davvero significativo, tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, ha dato un grosso contributo al patrimonio culturale contemporaneo. Ogni film di Sofia Coppola sembra infatti un lungo videoclip, un intreccio perfetto e indissolubile tra musica e immagini, una tradizione audiovisiva di quella incredibile coolness che ruota attorno a questa regista, un tratto che, non a caso, anche uno stilista come Marc Jacobs non si è lasciato sfuggire, proclamandola sua musa.
Ne Il giardino delle vergini suicide, del 1999, da cui è tratto anche il video musicale di una delle canzoni più belle di sempre scritte dagli Air, “Playground Love”, il racconto della vita misteriosa di queste sorelle si mescola con l’oscurità del loro disagio, un mix che ricorda le atmosfere pittoriche preraffaellite in un tripudio di amore e morte. Lost in Translation, invece, film del 2003 che le ha fatto vincere diversi Oscar, già solo con l’inquadratura iniziale su Scarlett Johansson vale tutti i restanti minuti per iconicità, oltre alle immagini cult che ritraggono lei e Bill Murray nell’albergo di Tokyo in cui è ambientato il lungometraggio. Maria Antoinette, del 2006, è forse l’apice di questo suo stile ibrido tra musica, moda, cinema: un film in cui la protagonista, Kirsten Dunst, vestendo i panni di una delle nobili più famose della storia moderna racconta l’adolescenza di una ragazza, i suoi desideri, le sue incertezze, creando questo ponte fittizio tra passato e presente fatto di immagini, vestiti e canzoni. Un esperimento postmoderno di commistione tra la vita di una regnante francese famosa per essere stata decapitata e una canzone degli Strokes, una metafora autobiografica che, per alcuni aspetti, rivela proprio la parte più intima di Sofia Coppola stessa, cresciuta in un mondo simile a una Versailles ma in chiave hollywoodiana.
Anche con i film successivi, Somewhere, The Bling Ring, The Beguiled e l’ultimo, uscito nel 2020, On the rocks, Sofia Coppola mantiene uno stile altamente riconoscibile e imputabile di quel tocco girly che le è stato criticato, definendolo magari superficiale e lezioso. In realtà, è proprio questa sua estrema femminilità che la contraddistingue, visto che il mondo del cinema è sempre stato dominato dal genere maschile che con il suo sguardo e il suo punto di vista ha dato forma a un immaginario ben codificato. Perché mai una donna dovrebbe adattarsi a quel codice, se può costruirne uno suo? Ma soprattutto, perché mai qualcosa “da ragazza” o “da femmina” dovrebbe essere meno universale a livello di espressività e immedesimazione, specialmente nel cinema dove il punto di vista può variare molto in base al regista o alla regista che sta dietro alla camera. Proprio questa grande sensibilità estetica, sviluppata in un ambiente oltremodo creativo e stimolante, privilegiato come pochi ma pur sempre molto fertile, hanno fatto sì che Sofia Coppola desse prova del suo talento trasmettendo al pubblico un repertorio di immagini e di suggestioni che, piacciano o no, sono chiaramente sue, affrancandosi ormai da tempo dal nome del padre. Non c’è raccomandazione o nepotismo che regga di fronte a qualcosa del genere: la coolness, purtroppo, non si compra né si regala. E Sofia Coppola è forse la maestra indiscussa di quella coolness indie americana dei primi anni Zero, un tratto artistico che, a prescindere dai gusti personali, non si può non riconoscerle.