In “Sirât”, per schivare la morte, bisogna attraversare la vita a occhi chiusi - THE VISION
Membership

La libertà di un rave non l’ho mai trovata da nessun’altra parte. C’è qualcosa di profondamente umano, che non ha a che fare solo con la musica o con le luci che distinguono il giorno dal buio. Parlo di ciò che accade tra le persone, anche e soprattutto tra sconosciuti: quella connessione intangibile, quella sospensione del giudizio che sembra impossibile altrove. Esiste come una poetica nel modo in cui ci si muove insieme nello spazio, allo stesso tempo eppure ognuno al suo ritmo, trasformando il suono in impulsi. È un mondo dove le differenze sociali, culturali o economiche svaniscono nella musica, e ciò che rimane è la pura esperienza del presente. È liberatorio sapere che, per qualche ora, non sei definito dal lavoro, dal titolo di studio, dai soldi o dai giudizi altrui. Sei semplicemente parte di un flusso collettivo, un organismo vivente di suoni, corpi e vibrazioni. È il tipo di sensazione attorno a cui gira – ribaltandola e abbracciandola – Sirât, il nuovo film del regista spagnolo Oliver Laxe, al cinema dall’8 gennaio insieme a MUBI Italia. Presentata all’ultima edizione del Festival di Cannes, dove ha ricevuto il premio della Giuria in ex-aequo con In die Sonne schauen di Mascha Schilinski, la pellicola è stata anche inserita nella shortlist di diverse categorie degli Oscar, tra cui miglior film internazionale, suono, casting, fotografia e, naturalmente, colonna sonora originale, dominata dal beat elettronico che esplode nel racconto. 

La musica, infatti, scuote ancora le casse quando Luis arriva a un rave nel cuore delle montagne del sud del Marocco insieme a Esteban, il suo secondogenito. Sono alla ricerca di Mar, loro figlia e sorella, scomparsa mesi prima durante una festa simile. Immersi nella musica elettronica e in un senso di libertà crudo e sconosciuto, mostrano la sua foto ancora e ancora a ogni sconosciuto che incontrano. Molti gli dicono di non averla mai vista, altri che forse conoscono quel volto, somiglia a qualcuno che hanno già visto anche se non ricordano il luogo né il suo nome. La speranza si affievolisce, ma i due continuano ad andare avanti, seguendo un gruppo di ravers diretti verso un’ultima festa, attraverso il deserto. Davanti a loro si estendono all’infinito distese di sabbia e montagne di rocce altissime. Il paesaggio si fa ostile, il caldo opprimente, le certezze si sgretolano. Man mano che si inoltrano nella vastità bruciante, il loro viaggio si trasforma in un confronto con i propri limiti, con il dolore non elaborato e con domande essenziali sull’amore, sulla perdita e sul senso di andare avanti.

“Sirāt” (in arabo صِرَاط) significa letteralmente “sentiero”, “via”, “cammino”. Nel contesto religioso islamico, il Ṣirāṭ al-Mustaqīm è il “sentiero retto”, la via giusta che l’essere umano è chiamato a seguire nella vita. Ma c’è anche un significato ancora più potente e simbolico: il Sirāt è il ponte sottilissimo che, nel Giorno del Giudizio, ogni anima deve attraversare per raggiungere l’aldilà. È descritto come una lama o un filo teso sopra l’abisso dell’inferno: chi è leggero lo attraversa, chi è appesantito cade. Per questo, il termine non indica solo una strada fisica, ma un passaggio estremo, una prova di verità e di trasformazione, un attraversamento in cui non ci sono scorciatoie né protezioni. È il momento in cui si è costretti a confrontarsi con ciò che si è davvero. Nel film di Laxe, il titolo richiama proprio questa idea: il viaggio nel deserto non è solo una ricerca, ma un cammino iniziatico, un attraversamento pericoloso e necessario in cui si avanza su un equilibrio precario tra speranza e perdita, vita e morte, senso e smarrimento.

“Molti di noi si chiedono se, come individui e come società, siamo davvero capaci di cambiare, di non ripetere all’infinito gli stessi errori. Non è affatto scontato. Viviamo tempi destabilizzanti. Per quanto buone possano essere le nostre intenzioni, per quanto l’ambiente che ci circonda ci spinga in una certa direzione, cambiare rotta è incredibilmente difficile”, racconta il regista. “Eppure, nelle esperienze di pre-morte, qualcosa dentro di noi sembra aprirsi, rompersi. In quei momenti il cambiamento diventa possibile. In meglio. Sono situazioni di autenticità radicale, in cui la vita ti afferra e ti chiede chi sei davvero – momenti in cui hai la sensazione di essere gettato in un abisso, senza alcuna rete di sicurezza”. 

Viviamo in una società profondamente tanatofobica, che ha espulso la morte dal novero delle proprie possibilità. Persino i rituali più umani, che un tempo ci aiutavano a elaborarla e a integrarla nella vita, sono stati delegati a istituzioni che oggi li svolgono al posto nostro. Riconnettersi con la morte in un mondo come il nostro solleva inevitabilmente continui interrogativi, a cui il cinema, come quello di Laxe, cerca di rispondere mostrando ciò che la società ha scelto di evitare e rendere invisibile. Teniamo la morte e il dolore a distanza, e forse proprio per questo viviamo spesso intorpiditi, scollegati dalle nostre verità più profonde. Ma la vita fa quello che vuole: irrompe e ci scuote dal torpore, chiedendoci se siamo davvero convinti della strada che stiamo percorrendo, della meta a cui ambiamo.

Donare del cibo, cucinare, ricordare gli scomparsi, pregare insieme: i rituali legati alla morte sono esistiti in tutte le epoche e le civiltà. Secondo la classificazione che l’antropologo francese Arnold Van Gennep propone nell’omonimo saggio, si tratta di riti di passaggio, cerimonie pubbliche che segnano un cambiamento di status, un evento che spezza la continuità: da quel momento ci sarà un prima e un dopo. Sono principalmente riti collettivi che, oggi, si stanno trasformando sempre più in una questione privata, anche come conseguenza dell’obbligo sociale di nascondere il dolore. In Sirât, è il riconoscimento della propria piccolezza a squarciare questo velo, la consapevolezza di vivere una vita che è nulla rispetto all’immensità del mondo. Da qui nasce la cura, priva di ogni giudizio: dalla dissoluzione del nostro ego. Non c’è più nulla da perdere, la paura scompare. È una comunione tra feriti. Non a caso Laxe, dopo O que arde, che gli è valso il premio Un Certain Regard nel 2019, resta fedele anche qui al suo approccio contemplativo e spirituale, proseguendo la ricerca di un cinema intenso, lento e vissuto, capace di indagare il legame tra l’essere umano e la natura, la ricerca interiore e le tradizioni. Perché la morte, e di conseguenza la vita, hanno bisogno del tentativo di trascendere i nostri limiti umani per essere esplorate davvero.

In Sirât la libertà che nasce dal rave, quella sospensione del mondo che sembra possibile solo nella notte e nel suono, si rivela per ciò che è davvero: non una fuga, ma una soglia. Un luogo liminale in cui le identità si sciolgono e le certezze vacillano, preparando il terreno a un attraversamento più profondo. Il deserto che segue non è l’opposto della festa, ma il suo rovescio necessario: se il rave è l’esperienza del corpo che si perde nel collettivo, il cammino è quello dell’anima che è costretta a restare, a sentire, a portare il peso di ciò che manca. È lì, quando tutto si confonde, che emergono le domande più radicali su cosa significhi amare, perdere, continuare. Non ci sono risposte consolatorie, nemmeno la vita le ha, ma solo domande da attraversare come un rito antico, collettivo. Quando anche loro faranno fatica a emergere, forse non resterà davvero altro che chiudere gli occhi e attraversare la strada, ballando per schivare la morte.

Membership
Segui Giuseppe su The Vision