Pupi Avati, che negli anni forse più laici della storia italiana non ebbe paura a definirsi cattolico, a metà degli anni Ottanta diede vita a quello che probabilmente è il film anti-natalizio per eccellenza, Regalo di Natale. La sua storia di mancato perdono, infatti, è ambientata proprio nel giorno simbolico della nascita di Gesù, il Redentore, cosa che fa riverberare ancora di più la sua feroce rappresentazione di quell’epoca tanto controversa. Avati, nonostante la sua fede, o forse proprio grazie a essa, ebbe il coraggio di mettere in scena un’analisi spietata, perché assolutamente oggettiva e velenosa della deriva che la società italiana aveva preso all’epoca, abbandonando gli insegnamenti della dottrina cristiana per abbracciare il nuovo culto del capitalismo, in cui vale chi riesce a fare soldi e ad avere successo.
Messo e rimesso in scena più volte a teatro fino a oggi, tanto la sceneggiatura si presta alla drammaturgia, Regalo di Natale fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1986, dove valse la Coppa Volpi all’interpretazione di Carlo Delle Piane e successivamente il Nastro d’Argento a Diego Abatantuono e il David di Donatello a Riz Ortolani e a Raffaele De Luca, rispettivamente per la miglior canzone originale e il suono. Abatantuono, che prese il ruolo rifiutato da Lino Banfi, all’epoca aveva solo 31 anni, eppure interpretò alla perfezione il personaggio di un uomo maturo. Per la prima volta nella sua carriera, inoltre, ebbe l’occasione di dimostrare al pubblico il suo grande talento drammatico.
La storia, dalla grande complessità psicologica, mostra cinque “solitudini virili” e mette in scena un cupo affresco dell’Italia degli anni Ottanta. Il racconto vede quattro amici di vecchia data – Gabriele detto Lele (Alessandro Haber), Ugo (Gianni Cavina), Stefano (George Eastman) e Franco (Diego Abatantuono) – che la notte del 25 dicembre, nonostante i rancori che col tempo di sono calcificati tra loro, si ritrovano nella villa dell’amante di Stefano, fuori Bologna, per giocare a poker con l’avvocato Santelia (interpretato da Carlo Delle Piane), un tetro quanto facoltoso industriale ossessionato dalle donne e dal proprio infelice aspetto fisico, famoso per farsi spennare e che pur di stare con qualcuno la notte di Natale è disposto anche ad accettare l’eventualità di perdere. La partita, all’inizio apparentemente amichevole, finisce per trasformarsi in uno scontro di vita o di morte metaforiche, costringendo i personaggi a un bilancio indiretto della loro stessa esistenza, tra bugie, inganni, tradimenti e sconfitte. Ciascuno partecipa sperando di vincere la quantità di denaro necessaria a svoltare la propria vita, senza rendersi conto di essere parte di un ingranaggio molto più grande.
Questo film sembra inserirsi in un certo tipo di narrazione natalizia epurata dalla retorica dei buoni sentimenti. La disperazione e la crudezza sembrano infatti richiamare un altro famoso monologo teatrale sulla solitudine non a caso sempre scritto negli anni Ottanta Il Natale di Harry dell’inglese Steven Berkoff, sceneggiatore di Arancia meccanica, Barry Lyndon e Absolute Beginners. Il monologo è una lunga telefonata di Harry, un uomo solo, quarantenne, negli anni del conformismo e dell’edonismo più sfrenato, nei quali non si ritrova perché non condivide, rinchiudendosi in un isolamento sempre più insopportabile all’avvicinarsi del Natale, il momento dell’anno in cui tutto diventa più duro, più difficile e più falso. “Il Natale è una valanga che ti viene addosso, se il tuo Natale vale zero spaccato è perché questo è quello che vali tu”, dice Harry sintetizzando alla perfezione le coordinate esistenziali dettate da valori ormai distorti in cui si muovono anche i personaggi di Regalo di Natale. Questo film però richiama anche un altro grande topos, legato alla notte di Natale come simbolico momento di giudizio e resa dei conti con la propria anima, come nel Canto di Natale di Charles Dickens. Eppure Avati non cede alle sirene del lieto fine e della redenzione, possibile solo per lo spettatore che viene posto di fronte allo spettacolo pornografico della cattiveria tra esseri umani, che pure in qualità di amici di vecchia data dovrebbero essere legati da un affetto profondo.
Pupi Avati ha sempre scandagliato il tema dell’amicizia, e nel caso di questa commedia grottesca sembra volerlo vedere mentre marcisce e si putrefà, contaminato dall’avidità, dall’egoismo e dall’invidia. In un certo senso Avati – che all’epoca aveva 48 anni – sembra ossessionato dalla nostalgia per qualcosa che è stato e non potrà più tornare, perché ormai irrimediabilmente mutato e compromesso. E questo suo desiderio di confronto tra presente e passato, che altro non è che la memoria, riverbera nei titoli di coda del film, accompagnati dalle foto degli attori da ragazzi (che paradossalmente sono la cosa che mi è rimasta più in mente dopo tanti anni dalla prima visione del film).
Ugo lavora per una televisione privata facendo televendite di articoli per la casa, separato dalla moglie che lo disprezza, ha quattro figli che non vede mai, non ama e dai quali non è amato. Per andare alla partita non si è fatto problemi a mollare la madre e la sua famiglia (“Senza di me state meglio, chiedete ai ragazzi”, dice alla madre e alla moglie, e loro rispondono “Sì, senza papà stiamo meglio”). Questo passaggio mostra un’insanabile cesura, perché ormai dato di fatto conclamato, tra il ruolo del padre e il resto della famiglia, suggerendo una maschilità che dai bambini e dalle donne viene percepita come inutile, per non dire profondamente inquinante e quindi preferibilmente assente. Lele, che incarna la figura del perdente, è un’uomo dall’aria debole e impacciata, scrive articoletti sperando di diventare giornalista e viene sistematicamente bistrattato dai colleghi; pagato una miseria e senza famiglia sogna di pubblicare un libro su John Ford; Stefano gestisce una palestra, sta con una donna benestante ma è infatuato di un ragazzo che si allena da lui; Franco possiede un’importante cinema a Milano, ha un matrimonio (infelice) e tutti pensano sia ricco, ma in realtà è una messa in scena, infatti è perseguitato dai creditori, proprio per questo accetta di prendere parte alla partita nonostante la sua ex moglie Martina, unica donna che sostiene di aver mai amato, lo avesse tradito con Ugo.
Il rapporto tra questi uomini è profondamente fisico, anche a mostrare che il rapporto con il corpo e l’apparenza non è un tema potenzialmente traumatico solo dal punto di vista femminile, come in molti potrebbero pensare. Il più debole tra i cinque, Lele, finisce infatti per apparire come una sorta di pupazzo alla mercé della forza del resto del mondo (tanto che alla fine della partita viene buttato fuori). Anche lo sguardo sul corpo dell’altro, sempre oggettificato, viene mostrato senza alcuna pietà. Ugo dice addirittura di essere contento del fatto che, mentre lui gioca a carte, la fidanzata è a letto con un aiuto regia, perché almeno così si guadagnerà una piccola parte in un film. L’utile, insomma, prima di tutto. Nelle personalità di questi uomini confluiscono tutte le aberrazioni di un’epoca in cui l’unica cosa che conta è il denaro e il privilegio che può far ottenere. Gli episodi prendono spunto a piene mani dalla vita reale e dall’esperienza di Avati, sono grotteschi, spudorati e incarnano a pieno una società gretta fondata sul raggiro, sardonica, guidata da valori volgari, eppure ciononostante ancora piena di energie, di desiderio – per quanto distorto e perverso.
Il personaggio di Lele sembra incarnare la vendetta di Avati nei confronti di quei cinefili che definisce “la rovina del cinema”. Infatti, secondo il regista, “il cinefilo è una persona disturbata, che non ha parametri, che non sa comparare la realtà, che non è capace di uscire dalla sala cinematografica. Quelli che vanno al cinema per mestiere sono […] le persone meno affidabili, alle quali è difficile chiedere cosa sia la realtà delle cose”. E forse in questo Avati ha sempre cercato di prendere le distanze dalla sua stessa ombra, che nutre e mette in fuga grazie al suo fare un cinema tanto radicato nella vita quotidiana, nella materialità delle cose del mondo.
Soltanto Stefano, nonostante tutto, si comporta in maniera corretta e civile, forse perché è l’unico a non avere un disperato bisogno di soldi, oltre a essere il solo ad avere un fisico curato e prestante che rimanda a una sorta di idea di salute – che però tutti gli altri sfruttano per mettere in dubbio la sua mascolinità, forse per giustificare invece la loro incapacità di prendersi cura di alcunché, compreso il loro corpo. Stefano è il personaggio meno appariscente, l’unico a non sentire il bisogno di doversi far notare a tutti i costi. E sembra incarnare l’opposto del ritratto di Dorian Gray. La sua nobiltà di spirito, che riverbera in qualche modo nel suo aspetto fisico, inattaccabile, viene invece presa di mira e svalutata dagli altri come simbolo di effeminatezza. L’uomo virile è dunque quello che domina gli altri e le altre, volgare, disposto a sacrificare qualsiasi valore etico in nome del denaro, che vede il sesso come mera merce di scambio, che invece di vergognarsi si fa forza dei suoi difetti, un uomo senza pudore, completamente prostrato alle dinamiche di sfruttamento del potere, al tempo stesso vittima e carnefice, senza nemmeno rendersene conto.
Durante la partita questi uomini si dicono e rinfacciano le peggiori cose, c’è solo un enorme tabù che nessuno ha il coraggio di infrangere, come fosse al tempo uno spauracchio sacro: l’omosessualità. Tutte le loro paure e fragilità sembrano confluire in maniera esasperata nel personaggio dell’avvocato Santelia: apparentemente solo, frustrato perché poco attraente e incapace di rapportarsi in maniera positiva con gli altri. Eppure in questo film nulla è ciò che sembra. Tutta la vicenda nasce da un mentire che si è fatto prassi e che pervade ogni sfera dell’esistenza, compresa la propria identità che finisce per essere un enorme bluff.
La partita a poker rappresenta l’arte dell’inganno per eccellenza, che va ben oltre l’enorme rito della perdita finanziaria e della dilapidazione di un patrimonio – che potremmo ricordare la splendida novella Il giocatore, di Fedor Dostoevskij. Non a caso per rendere in maniera realistica i dettagli legati al gioco Avati collaborò con Giovanni Bruzzi: pittore, biscazziere e niente meno che occultista. Ci si abbraccia allo scoccare della mezzanotte del Natale, per poi colpire quello stesso amico alle spalle, dandogli il colpo di grazia. La lezione di questo film sembra essere che nessuno riesce a redimersi in un mondo tale, chi ha tradito una volta tradirà ancora e nemmeno l’amore potrà salvarlo, perché svuotato da qualsiasi significato spirituale. La società degli anni Ottanta – da cui per forza di cose deriva la nostra – sembra allora basarsi sull’ingegno sfruttato per fare il male degli altri a proprio vantaggio e al tempo stesso su una falsa promessa – vincere annientando gli altri – in nome della quale si è disposti a sacrificare tutto, sperando di vederla realizzata e credendo così di raggiungere il vertice della piramide sociale, e così la salvezza, senza rendersi conto di stare ingannando prima di tutto sé stessi.