“La ragazza con la pistola”, di Monicelli, non si piange addosso, ma ride guardandosi alle spalle - THE VISION

Nel famoso scontro tra Nanni Moretti e Mario Monicelli ospiti di Alberto Arbasino nel suo programma Match del 1977, tra le provocazioni giovanili del primo e le risposte sagge del secondo, moderate dall’intuito brillante del terzo, in scena c’erano tre visioni del mondo: morettiana, monicelliana e arbasiniana. In quell’episodio cult della nostra televisione, ciascuno con le proprie argomentazioni difendeva il suo modo di raccontare, e di conseguenza di produrre, di mettere insieme i pezzi necessari alla narrazione di una storia. Nel caso di Mario Monicelli, regista simbolo della commedia all’italiana – accusato da Moretti, figlio della generazione cinematografica successiva e naturalmente in opposizione con i vecchi registi, di aver creato un sistema chiuso che non lascia spazio alla novità e che addomestica il pubblico – la consapevolezza è totale. Monicelli, che nell’intervista ha più di sessant’anni e un disincanto maturo, che si contrappone alla verve polemica del giovane collega, sa cosa è stata la commedia all’italiana, e sa anche che quello specifico periodo glorioso della comicità al cinema, cominciato tra la fine degli anni Cinquanta e finito all’inizio degli anni Settanta, non è ripetibile. Moretti, infatti, è l’incarnazione di una delle tante direzioni che avrebbe preso la comicità, tra eredi caricaturali dei grandi maestri, che spinsero fino al grottesco e al volgare in molti casi i principi della commedia all’italiana, e autori come lui, registi e protagonisti dei loro stessi film – come Verdone, Troisi, solo per citarne alcuni.

Non è un caso, infatti, che tra le ultime commedie di Monicelli ci sia una delle sue opere più amare e dissacranti, Parenti serpenti, dal finale tragicomico indimenticabile: la stufa a carbone degli anziani genitori abruzzesi che viene sostituita da quella a gas per farli saltare in aria ed eliminare il problema della loro assistenza. Sul calare della sua carriera, Monicelli dà al cinismo nei suoi racconti un ruolo ancora più centrale, in sintonia con un periodo storico in cui l’illusione del benessere e del futuro radioso si è ormai ricalibrato su altri principi, valori e priorità, e di conseguenza anche su altre storie. Non che nei decenni precedenti Monicelli fosse spensierato e ottimista, tutt’altro; ma ci sono alcuni esempi nella sua grande filmografia che sebbene mantengano l’essenza del suo modo di rappresentare il mondo – spietato, sfacciato e grottesco – ci forniscono anche un altro tipo di sguardo sulla realtà in un periodo in cui alcuni cambiamenti sociali ed economici stavano effettivamente rivoluzionando l’Occidente. La ragazza con la pistola è forse tra quelli che meglio mettono in scena non solo l’ironia senza pietà e la comicità tragica dell’universo monicelliano, ma anche la rappresentazione di una fase della storia d’Italia in cui la spinta verso la modernità e il progressismo sembravano voler dare davvero un nuovo volto al nostro paese.

Può sembrare paradossale che il regista di film cult di comicità maschile come Amici miei, L’armata Brancaleone o La grande guerra, pellicole straordinarie e universali ma anche segnate da ruoli femminili spesso solo di accompagnamento a quelli dei suoi protagonisti, sia riuscito a mettere in scena una commedia su una donna così precisa e brillante come La ragazza con la pistola. Nel 1968, ossia nel pieno del fermento culturale che ha accompagnato il boom economico, Monica Vitti si cimenta per la prima volta in un ruolo da protagonista in un film comico. Lo fa nei panni di Assunta Patanè, una siciliana che vive in un paesino sperduto di finzione, un luogo arretrato, dove vige ancora la legge patriarcale del disonore, delle fuitine e dei matrimoni riparatori. Sin dai primissimi fotogrammi, il film si manifesta in tutta la sua forza di scrittura e interpretazione: Assunta Patanè, sempre vestita rigorosamente di nero, balla timidamente alla finestra di casa con sua cugina, osservando da lontano l’uomo che le fa perdere la testa, Vincenzo Macaluso, interpretato da Carlo Giuffrè; e da questo gioco di sguardi nasce il malinteso che dà inizio all’avventura della protagonista.

Come era consuetudine nell’Italia non troppo lontana dal presente, Macaluso organizza un rapimento per potersi accaparrare non Assunta, ma sua cugina. “Di marmo sono,” dice Assunta quando Vincenzo prova a profanare il suo onore nonostante sia deluso dall’errore dei rapitori che in una catapecchia di campagna hanno portato lei e non la cugina a cui ambiva. La prima parte del film, infatti, ruota attorno alla mentalità arcaica non solo degli uomini del paese, ma anche delle donne stesse, vittime di questo sistema che le relega a puri oggetti da contendersi. Nella comicità degli incontri drammatici tra Assunta e Vincenzo, dove il maschilismo del secondo è talmente retrogrado da diventare ridicolo, si intravede non solo il genio di Monicelli e di Rodolfo Sonego, autore della sceneggiatura, ma anche quello di Monica Vitti, che mette in scena una parodia della donna sicula tutta d’un pezzo a dir poco esilarante anche perché molto verosimile.

Il siciliano di Vitti, infatti, seppur parodistico, è credibile. La lingua con cui Assunta Patanè affronta tutto il suo percorso è un dialetto cinematografico che diventa universale, come spesso accade nella commedia italiana, altro tema interessante che affrontano Edoardo Ferrario, Michela Giraud e Saverio Raimondo nella prima puntata della seconda stagione del podcast di MUBI Voci italiane contemporanee, quest’anno dedicato all’analisi dell’evoluzione della comicità italiana. Quando un particolarismo linguistico riesce a uscire dai confini della città in cui prende vita e diventa comprensibile a tutti e a tutte, vuol dire che siamo di fronte a un lavoro di scrittura e di messa in scena non indifferente. È quello che succede con il romano de Le finte bionde, citato da Ferrario, o con il palermitano di Ciprì e Maresco, citato da Raimondo: ne La ragazza con la pistola, Monica Vitti supera lo stereotipo e lo fa diventare un personaggio di finzione immortale, volutamente caricaturale, ma anche perfetto nella sua delineatura di dettagli chiari e precisi. La sua esagerazione, oltretutto, diventa funzionale nel momento in cui Assunta Patanè deve affrontare il mondo esterno, la realtà fuori dal cerchio di protezione e soffocamento in cui vive, convinta di non poter fare altro che uccidere l’uomo che l’ha profanata. Pistola in borsa e motivazione di ferro, la ragazza che ha perso il suo onore per colpa di un farabutto che voleva rapire sua cugina sale su una nave e va a cercarlo in Scozia per rimediare al danno imperdonabile.

Con il passaggio dal paesino arcaico alla patria della modernità, il Regno Unito, comincia la vera formazione della protagonista, che passa attraverso lo scontro diretto tra la sua ostinazione a voler portare a termine il regolamento di conti e un mondo completamente diverso da ciò che lei non avrebbe mai neanche potuto immaginare. La prima tappa dell’emancipazione avviene attraverso il lavoro: Assunta sa che ha bisogno di soldi per continuare a inseguire Vincenzo, e se inizialmente è solo uno strumento per la sua caccia, col passare del tempo si trasforma in un mezzo di libertà. Poi, tramite gli usi e i costumi dei giovani inglesi della generazione dei sessantottini, votati all’apertura mentale, al sesso libero e al divertimento. Agli occhi intrisi di conservatorismo bigotto di Assunta, quell’ammasso di ragazzi capelloni e ragazze in minigonna che bevono, fumano e ballano disinibiti sembra praticamente l’inferno. Quando però la sua missione si prolunga, i tentativi di omicidio d’onore al femminile falliscono e la vita londinese comincia ad affascinare la protagonista, la storia si capovolge e anche i ruoli tra chi rincorre e chi è rincorso si invertono. La nuova Assunta fa la modella a Londra, ha una sua indipendenza economica, canta in un ristorante, fuma, ha tagliato la sua lunga treccia che la legava al passato. Il contatto col progresso l’ha resa a sua volta una paladina del progressismo, proprio perché lontana anni luce, non solo geograficamente ma anche mentalmente, dal luogo che per anni le aveva fatto credere che l’unico obiettivo nella sua vita fosse diventare moglie di qualcuno che l’avrebbe rapita in mezzo alla strada. E proprio quando la libertà la rende felice e appagata, Vincenzo ritorna solo per poter esercitare il suo potere su di lei, convinto di essere un’alternativa irresistibile alla vita da donna moderna che fa Assunta in pieno stile swinging London.

Il finale di La ragazza con la pistola non è un finale aperto ma un lieto fine. La storia comica e rocambolesca di una donna che cambia tutto di sé in una rivoluzione non solo esteriore, di costume e di abitudini, ma anche interiore, nel modo in cui si percepisce come parte attiva della società e non come strumento funzionale al suo uomo, è una parabola sempreverde di un tema che, oggi come negli anni Sessanta, resta attuale. Forse, al regista dei finali disillusi e degli uomini spietati, serviva una protagonista donna come Assunta Patanè per una conclusione che non ci lasciasse con una risata amara. Il meno monicelliano dei film di Monicelli, La ragazza con la pistola, è una commedia in cui l’ironia fa da propulsore per un racconto che guarda avanti e non si piange addosso, ma al contrario ride guardandosi alle spalle, come fa Monica Vitti nell’ultimo fotogramma del film ripensando alla sua vecchia vita e a quanto è distante da lei.


“La ragazza con la pistola” è disponibile in streaming su MUBI Italia nella rassegna “‘O famo strano: ridere con la commedia italiana”, dedicata alla seconda stagione del MUBI Podcast: Voci Italiane Contemporanee, sull’evoluzione della comicità italiana. Iscriviti qui per avere 30 giorni di prova gratuita.

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