Post-horror: Steve Rose, critico cinematografico del Guardian, definisce così la new wave del genere horror che da qualche tempo starebbe prendendo piede a Hollywood e non solo.
Dato per morto negli anni Novanta, quando ha consegnato all’immaginario collettivo la maschera urlante di Scream e poco altro, nel terzo millennio il cinema de paura è risorto dalla sua tomba e ha ricominciato a mordere. Lo dice prima di tutto il box office: da franchise di successo come Insidious e La notte del giudizio fino agli incassi record di It, ormai l’orrore è diventato l’investimento più sicuro per i produttori.
Ma lo dice anche la critica. It Follows, The VVitch, The Neon Demon: titoli recenti che si sono conquistati analisi e attenzioni comunemente riservate a una cinematografia “alta”. È il post-horror di cui parla Rose: un sottogenere che rinuncia del tutto o in parte agli spaventi meccanici, i cosiddetti jumpscare, per veicolare inquietudini più diffuse e profonde. Sono film che accettano i clichés del terrore di celluloide ma cercano di portarli in una direzione inedita, anche a costo di spiazzare i fan; è il caso, ad esempio, di It Comes at Night, incubo postapocalittico giocato su allegorie politiche e atmosfere da quadro di Bruegel, lodato dai recensori ufficiali e fischiato dalla platea di Twitter. Sono, in breve, film horror d’autore.
C’è chi sostiene che Rose, da cinefilo snob, si sarebbe semplicemente accorto tardi che non tutto il cinema di genere è serie B. In effetti chiunque abbia visto Videodrome e Il seme della follia, giusto per non citare i soliti Shining e L’esorcista, non può che avere qualche resistenza ad accettare il concetto di horror d’autore come una novità. Ma resta il fatto che in questo periodo storico sono sempre più numerosi i cineasti con ambizioni autoriali che scelgono di mettere in scena diavoli e mostri. Se vi piace considerare l’arte, in generale, e il cinema, in particolare, come un termometro della società, traete pure le vostre conclusioni.
Nel 2017 sono usciti in Italia almeno tre film ai quali si può appiccicare a ragion veduta l’etichetta di post-horror. Probabilmente ve li siete persi.
Personal Shopper, di Olivier Assayas
Può stupire che un regista da festival come il francese Olivier Assayas flirti col cinema di genere. Eppure Personal Shopper, vincitore del Prix de la mise en scène a Cannes 2016 e approdato quest’anno nelle nostre sale, racconta una ghost story a tutti gli effetti. Un giovane americano muore a Parigi e la sorella, una sensitiva, si trasferisce in città per cercare di contattare il suo spirito, mentre si guadagna da vivere come assistente personale di una starlette. Dopo aver assistito all’apparizione di un fantasma dalle fattezze femminili, la ragazza inizia a ricevere misteriosi messaggi al cellulare.
C’è di mezzo anche un omicidio, ma non aspettatevi troppa trama. Assayas ce lo dice subito, parlando di pittura astratta in una delle prime scene: più che a disegnare linee narrative nette è interessato a far passare delle suggestioni. La protagonista, una Kristen Stewart scavata e lattiginosa che già di suo sembra il fantasma della Bella di Twilight, si muove in un gelido vuoto cosmico nel quale è difficile distinguere l’aldilà dall’aldiquà: la sua datrice di lavoro è una voce al telefono, il suo ragazzo esiste solo su Skype e lei vive in simbiosi con lo smartphone, ma attraversa l’intero film senza mai toccare un altro essere umano. Siamo tutti fantasmi digitali? I lunghi dialoghi via SMS con un’entità che potrebbe non essere reale vi torneranno in mente ogni volta che vi ritroverete a litigare con uno sconosciuto su Facebook.
La cura del benessere, di Gore Verbinski
Se Assayas è un debuttante della paura, Gore Verbinski è un veterano: è l’uomo che con The Ring ha dato la stura all’invasione dei remake USA di horror giapponesi. Ma tutta la sua variegata filmografia è percorsa da un certo fil rouge orrorifico, che va dai non morti di Pirati dei Caraibi alle mostruose lucertole di Rango.
In La cura del benessere un manager rampante newyorkese viene spedito in una spa extralusso sulle Alpi svizzere con l’obiettivo di riportare a casa un vecchio CEO. Peccato che andarsene non sia facile come sembra: la struttura sorge in un castello frankensteiniano dai trascorsi sinistri, e a capo del personale c’è un mellifluo mad doctor convinto che chiunque abbia qualcosa da farsi curare. In seguito a un incidente d’auto, forse non casuale, il protagonista passa da visitatore a degente e scopre una serie di incredibili verità.
Cesellato di virtuosismi visivi a base d’acqua e superfici riflettenti, La cura del benessere comincia come un film di Cronenberg e si trasforma gradualmente in una fiaba dark, una cosa tra Tim Burton e Del Toro, con tanto di principessa in pericolo e incendio purificatore. In sottotraccia, tuttavia, si nasconde un apologo anticapitalista: senza voler rivelare troppo, il senso di fondo è che la vita contemporanea è di per sé una malattia. Del resto il film si apre con l’employee of the month di un’azienda che muore d’infarto mentre fa gli straordinari: già un manifesto.
Scappa – Get Out, di Jordan Peele
A differenza di Assayas e Verbinski, Jordan Peele ha precedenti come attore e sceneggiatore ma è un esordiente totale dietro la macchina da presa. Il suo esordio fa botto, Scappa – Get Out, è un successo clamoroso negli Stati Uniti e detiene il record del maggior incasso di tutti i tempi tra i film diretti da registi di colore.
L’etnia di Peele non è un dettaglio, perché la questione razziale è al centro dell’intreccio. Chris, povero e nero, deve incontrare i genitori della sua fidanzata, bianca e ricca. Se fossimo negli anni Sessanta queste sarebbero le premesse di un altro Indovina chi viene a cena? E invece, siccome da allora sono passati cinquant’anni e due mandati di Obama, Chris si ritrova in mezzo a un raduno di amici di famiglia dove tutti fanno a gara nel mostrarsi il più possibile liberal e antirazzisti. Va da sé che qualcosa non quadra, a partire da due domestici dalla pelle scura che si comportano come zombi.
Benché giochi con le aspettative dello spettatore per spingerlo a credere il contrario, Scappa non è un film sul razzismo: a conti fatti, nessun personaggio si può tecnicamente definire razzista. Scappa è un film sul modo in cui cambia la percezione dell’elemento razziale in un’America sempre meno WASP, nella quale l’equilibrio del potere è in continua ridefinizione. Ma soprattutto è un film-puzzle in cui, malgrado l’apparente caos iniziale, alla fine tutti i pezzi vanno al loro posto con precisione geometrica.
Di più non si può dire senza spoilerare.