Una cosa che mi fa sempre sorridere è che mia figlia di cinque anni sia una grande appassionata di film western, o forse – per qualche ragione che mi sfugge – riconosca nel ritmo di alcuni film, che rientrano immancabilmente nel genere western, qualcosa di avvincente ed emozionante, universale anche per una bambina della sua età. Nell’ottica di certi discorsi sessisti che oggi si sentono spesso fare, come se fossimo andati indietro nel tempo, un prodotto culturale del genere ovviamente non sarebbe stato adatto a una bambina. Forse, a voler ampliare la prospettiva, qualcuno potrebbe anche dire col senno di poi che non sarebbe stato adatto a un minore tout court. Eppure eccoci qui, sopravvissuti anche alle passioni cinematografiche dei nostri avi. Io stessa ho sviluppato una certa affezione nei loro confronti durante i pomeriggi che passavo a giocare a casa dei miei nonni e la tv era sempre settata su uno di questi film. In realtà, certi “vecchi western” non erano affatto semplici prodotti commerciali, ma film che per varie ragioni hanno fatto la storia del cinema, affrontando in maniera anche molto raffinata determinate tematiche filosofiche e sociali, sfilandosi dal canone del genere con elementi singolari e facendosi amare contemporaneamente dal grande pubblico – anche perché guidati dal precetto dello “show don’t tell” (pur avendo battute che lasciano il segno) e seguendo per filo e per segno il famoso “viaggio dell’eroe”.
Nel tempo mi sono chiesta cosa abbia fatto sì che questi film si imprimessero tanto nella mia mente, e credo che al di là della qualità cinematografica sia stata la loro ambizione di raccontare grandi storie, epiche eppure umane, una sorta di eroismo inosservato, perché relegato a quelle che erano per antonomasia le estreme propaggini dell’impero e affidato alla narrazione orale, una dimensione indomita, di nessuno, in cui il singolo faceva e diventava la storia, scegliendo di non appartenerle. Per questo i grandi personaggi di questo genere ci affascinano tanto, perché hanno il coraggio di sottrarsi alla logica dell’utile, della maggioranza, del privilegio, della sopravvivenza, diventando istantaneamente figure a metà tra i folli e gli eroi. Piccolo grande uomo, diretto da Arthur Penn nel 1970 e tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1964 da Thomas Berger e ambientato nell’Ottocento, rientra a pieno titolo fra questi, proponendo per la prima volta sul grande schermo una narrazione alternativa del tema dei nativi e del loro sterminio da parte degli americani. Il Far West per com’era sempre stato raccontato al cinema viene sbriciolato insieme ai suoi miti – bianchi. Il rispetto per la cultura nativa e la denuncia del genocidio subito dagli “indiani” non scadono mai nel melodramma. Lo sguardo agli invasori è sempre ironico e grottesco, e per certi aspetti – sottolineati dalla stessa colonna sonora – ricorda quello che il compositore russo Sergej Prokof’ev riservava al potere; allo stesso modo i nativi non vengono idealizzati e racchiusi nella bolla del “buon selvaggio” o dell’esotico new-agismo, ma appaiono come esseri umani, coi loro pregi e i loro difetti.
Tutto inizia con la rocambolesca scoperta da parte di un giornalista appassionato di cultura nativa di un grande vecchio, dall’iperbolica età di 121 anni: è lui Jack Crabb (interpretato da un giovane e istrionico Dustin Hoffman), colui che ha “conosciuto il generale George Armstrong Custer, per quello che era”, e ha anche “conosciuto gli indiani, per quello che erano”. Rimasto orfano in seguito a un’imboscata da parte dei Pawnee, Jack viene trovato da un Cheyenne (tribù nemica dei Pawnee), Ombra Silenziosa, e portato – insieme a sua sorella Caroline – nel suo accampamento. Caroline, però, scappa la notte stessa e Jack resta solo, stringendo un legame d’affetto molto stretto con l’anziano capo tribù, Cotenna di Bisonte, saggio curatore che Jack finisce per considerare una sorta di nonno – interpretato dall’attore Nativo canadese Chief Dan George.
Jack, così, cresce tra gli “indiani selvaggi”, in particolare nella tribù dei Cheyenne “che chiamano sé stessi il popolo degli uomini” e che in realtà selvaggi sono ben poco: vivono in armonia con la natura e secondo la credenza per cui tutto l’esistente è retto dal Grande Spirito. La loro base valoriale si fonda sul rispetto e la lealtà, verso amici e nemici, così come animali, elementi del paesaggio e cicli stagionali. Da una semplice precisazione linguistica passa il sottotesto che ogni popolazione, ogni gruppo umano, si consideri unico, prescelto rappresentante della specie, quando evidentemente non lo è e a volte solo i pregiudizi o la geografia possono farglielo credere.
A causa della sua bassa statura e al tempo stesso del suo coraggio nella lotta, Jack viene chiamato “Piccolo Grande Uomo”. Il nonno gli racconta la storia di un guerriero che portava il suo stesso nome, Piccolo Uomo, unico a salvarsi durante una battaglia tra Pawnee e Cheyenne. “Se smetti di combattere ti lasceremo andare,” gli dissero i nemici, ma Piccolo Uomo rispose: “È un buon giorno per morire”. Fu così che gli tagliarono la testa. Questa è una battuta che ha segnato l’immaginario di molte generazioni, dagli anni Settanta a oggi, e anche se non avete mai visto questo film probabilmente l’avrete sentita citata almeno una volta, dato che è arrivata a fare da sottotitolo a Die Hard. Al di là del taglio maschista di quest’ultimo film, questa frase fa da accordatura semantica a tutta la narrazione, racchiude in sé secoli – per non dire millenni – di riflessioni filosofiche che come fiumi carsici sono arrivati a noi, forse in sordina, ma con un’innegabile potenza.
Dopo lo sterminio di donne e bambini del loro villaggio per mano dell’esercito statunitense – che massacra gli indiani armati solo di archi, frecce e bastoni – i Cheyenne scendono in guerra. Cotenna di Bisonte dice a Jack che se vuole lasciarli per ricongiungersi al popolo a cui appartiene, loro accetteranno la sua decisione, ma Jack decide di rimanere con chi lo ha cresciuto, in cuor suo – al pari del Tenente John Dunbar o, meglio, “Balla coi Lupi” – sente di non appartenere ai bianchi (e di non volerlo fare), anche se non appartiene del tutto nemmeno ai nativi. Eppure, durante il combattimento, Piccolo Grande Uomo, che sta per essere ucciso da un militare, a differenza della storia narrata dal nonno, si salva mostrandosi per quello che è: un uomo bianco. Dato che è cresciuto tra i nativi, si decide che debba essere rieducato – come sistematicamente avvenne con gli stessi bambini Nativi negli Stati Uniti e in Canada anche durante il Novecento, per estirpare la loro cultura e uniformarli a quella della maggioranza. Jack viene così preso in custodia da un ottuso sacerdote protestante, che predica la mortificazione del mondo dei sensi per il raggiungimento della “salvezza spirituale”.
Jack si invaghisce della moglie, Louise (Faye Dunaway), che se da un lato gli trasmette una grande passione per la religione, dall’altro attraverso i suoi comportamenti dimostra di non seguirne i precetti, iniziandolo al sesso. Incapace di gestire questa contraddizione che fa vacillare il suo mondo, Jack scappa, ha una crisi esistenziale e finisce nelle mani di un truffatore, Merriweather (Martin Balsam), con cui imbroglia e si immerge in un modo sconosciuto e apparentemente senza regole. Dopo vari sgarri, però, i due vengono catturati da una banda di giustizieri, capitanati da quella che Jack scoprirà essere sua sorella.
La sorella – cresciuta tra i bianchi – gli insegna a sparare, spazientita perché gli indiani non l’hanno a suo avviso allevato abbastanza bene e perché “un uomo non è un uomo senza una pistola”. Jack all’inizio è molto dubbioso, ma poi diventa sempre più bravo fino a diventare un vero e proprio pistolero “ammazzasette”, finendo per conoscere il leggendario Wild Bill Hickok, celebre personaggio della storia statunitense – interpretato da Jeff Corey. Accumulato un po’ di denaro Jack tenta di mettersi in affari per fare fortuna e si sposa con la svedese Olga, ma ben presto finisce in bancarotta. Così, per rifarsi intraprende un nuovo viaggio verso il West. La loro diligenza, però, viene attaccata dai nativi, che rapiscono Olga. Per ritrovarla, Jack, all’inizio vaga per i territori abitati dai nativi e poi si arruola nell’esercito. “Per capire meglio la realtà fate un passo indietro e osservatela con uno sguardo lontano. Capirete così che la diversità, in quanto tale, non può essere inferiore”, così scriveva il famoso antropologo e filosofo francese Claude Lévi-Strauss, e in un certo senso è proprio ciò che fa Jack, spostandosi di volta in volta a lato del mondo che ha imparato ad abitare, e guardandolo con gli occhi dell’Altro.
Durante un’azione contro un villaggio indiano – che si risolve nell’ennesimo assurdo massacro – Jack tenta di fermare un ufficiale, rendendosi così colpevole di insubordinazione ed essendo quindi costretto a disertare. Ancora una volta non appare in grado di riconoscere e rispettare le leggi – assurde, impari e violente – dei bianchi. Nella mischia assiste anche alla morte di Ombra Silenziosa, che lo aveva salvato da bambino. Jack, però, salva a sua volta sua figlia, incinta, e la sposa: grazie a lei, ritorna alla tribù di Cotenna di Bisonte, ormai molto anziano e cieco. Qui ritrova anche sua moglie Olga, sposata – ironia della sorte – con Orso Giovane, il suo vecchio nemico d’infanzia a cui Jack ha salvato la vita.
Durante l’inverno, George Armstrong Custer – rappresentato nel film come un tronfio e ottuso militarista, impulsivo, falso e arrogante – e il suo Settimo Cavalleggeri attaccano di sorpresa l’accampamento indiano, in quella che è diventata una delle scene più famose della storia del cinema. Al suono di una grottesca marcetta militare, l’esercito stermina tutta la tribù di Jack, compresa la moglie, e tutti i cavalli, senza alcun motivo se non quello dell’offesa. Cotenna di Bisonte è perplesso perché nel sogno della notte precedente non ha avuto la premonizione dell’attacco. Jack lo vuole salvare, ma lui gli dice: “È un bel giorno per morire” – strappando un sorriso al pubblico. Evidentemente, però, per Jack non lo è neanche questa volta, perché cerca di convincere – come se stesse discutendo con un bambino o un visionario che ormai vede oltre la realtà – il nonno a mettersi in salvo. D’accordo, dice Jack, ma per farlo dovresti almeno raggiungere il fiume, per ricongiungerti a tutte le acque del mondo. Ma è già troppo tardi, i soldati li hanno già circondati fuori dal tepee e presto li uccideranno barbaramente. A Jack, allora, forse per tentare di rendere più dolce l’avvicinarsi della morte al nonno, viene un’idea: se lui non ha visto i soldati nel suo sogno, probabilmente neanche loro possono vedere lui. Era questo il senso della sua premonizione. Sono invisibili. Felice di questa trovata il nonno esce dalla tenda beato e lui gli corre dietro, disperato, per tentare di salvarlo in qualche modo. Eppure, attraversano l’accampamento, e nessuno li aggredisce; anzi, nessuno sembra effettivamente vederli, come se fossero davvero diventati invisibili, grazie alla loro comprensione del sogno. Cotenna di Bisonte, cieco, continua a sorridere credendosi invisibile in mezzo alla battaglia.
Animato da un sentimento di vendetta, Jack riesce ad arruolarsi di nuovo nell’esercito ed è deciso a uccidere Custer, responsabile del massacro, ma non ce la fa. Il generale lo scopre ma lo lascia in libertà, dopo avergli detto che è un fallito sia come bianco che come Cheyenne. Ritornato ramengo, il protagonista ha un’altra profonda crisi di identità, ancor più profonda della precedente, che cerca di annegare nell’alcol. Assiste alla morte di Wild Bill Hickok, ucciso per vendetta da un avventore. Ritrova Louise, che ora si fa chiamare Lulù e lavora come prostituta. Ha anche un fugace incontro con Merriweather. Una sorta di carosello di commiato che fa sì che Crabb decida di ritirarsi dalla società, rifugiandosi nella natura selvaggia e diventando una sorta di eremita, sentendosi ormai del tutto scollegato e incompreso dal mondo in cui vive, che non sembra più risuonare insieme a lui – rievocando la filosofia – ancora attuale – di uno dei più grandi pensatori statunitensi dell’Ottocento, Ralph Waldo Emerson.
La vista di una trappola posizionata da un cacciatore e il pensiero di un animale catturato – che pur di salvarsi si stacca l’arto imprigionato nella tagliola – fanno sì che decida di suicidarsi. Raggiunge la cima di una rupe, ma da lì vede l’esercito di Custer. A quel punto si rianima e capisce che è arrivato il momento di affrontarlo una volta per tutte, solo così potrà definire una sua identità e far valere le sue ragioni. Così riesce a tornare nel reparto di Custer come mulattiere, convincendolo a cadere nell’imboscata di Little Bighorn. D’altronde Custer è talmente ottuso che basta un po’ di spicciola psicologia inversa. “Questa volta però la mia arma non era un coltello, ma la verità”, racconta Jack. Durante la battaglia Custer sta per ucciderlo, ma viene colpito da Orso Giovane, che finalmente – come promesso – riesce a ricambiare il suo debito con Piccolo Grande Uomo.
Nonostante la vittoria su Custer, i bianchi continueranno ad avere la meglio, non ci si può liberare di loro, il loro numero cresce senza fine, mentre “il popolo degli uomini” è sempre stato piccolo e scarso. Il capo tribù aspetta la sua fine e si congeda dal mondo, ringraziando il grande spirito e dichiarandosi pronto ad accettare ciò che è e ciò che è stato, vuole morire perché ha il cuore triste. Senza i valori incarnati dai Cheyenne il mondo perde il proprio centro. Il nonno si fa accompagnare in cima alla montagna, perché gli indiani vengono sepolti in cielo. La morte, tanto attesa e invocata, però, non arriva, si ostina a lottare, “il potere che ciò che [si vuole] avvenga davvero” non viene accordato a Cotenna di Bisonte, inizia solo a piovere a dirotto. “A volte la magia funziona, e a volte no invece,” dice il vecchio serenamente, e poi come se niente fosse – dopo aver constatato di essere ancora vivo – ricomincia a parlare di donne mentre Piccolo Grande Uomo lo aiuta a camminare lungo la discesa.
Una volta finito di raccontare la sua storia, Jack congeda il giornalista, e rimane solo insieme ai suoi ricordi di un mondo ormai svanito, per certi aspetti dimenticato, svilito, ridicolizzato e incompreso. Eppure, il dubbio è che Jack non sia riuscito a imparare a fondo la lezione di Cotenna di Bisonte, tant’è che ora è l’uomo più vecchio del mondo. Per lui non è mai stato un bel giorno per morire, ma sempre un bel giorno per scegliere di continuare a vivere e far sopravvivere la sua verità, restando attaccato ai suoi valori personali – pur non vedendoli riconosciuti da quasi nessuno – e incarnandoli nella sua esistenza: è questa la cosa che – al di là del dubbio della finzione narrativa e della sospensione d’incredulità – lo ha tenuto in vita per così tanto tempo e ancora oggi, quando sembra che nulla abbia più senso e nessuno rispetti ciò in cui crediamo, ci può ispirare.