L’adattamento televisivo di Persone normali (Normal People), il secondo, straordinariamente popolare romanzo di quella che viene definita l’enfant prodige della letteratura irlandese, Sally Rooney, è uscito tutto d’un colpo – pronto per il binge watching – l’ultima domenica di aprile. Nell’arco di dodici episodi di mezz’ora, sviluppati da BBC Three in collaborazione con la piattaforma di streaming statunitense Hulu, si dipana la storia d’amore tra due ragazzi, Marianne e Connell, che si prendono e lasciano ancora e ancora, dai tempi del liceo agli ultimi anni d’università. La trama non suona certo originale, soprattutto per chi non ha letto Rooney. Eppure, non c’è alcun dubbio: il libro, pubblicato nel 2018, non ha fatto altro che confermare l’hype che già aleggiava attorno all’autrice – descritta a tratti come “la Salinger dei tempi di Snapchat” – a partire dal suo romanzo d’esordio, Parlarne tra amici. E la serie non è stata da meno: soltanto nei primi dieci giorni dalla sua uscita oltre 16 milioni di persone l’hanno guardata su BBC iPlayer.
“È l’esatto opposto del distanziamento sociale”, ha commentato la produttrice esecutiva Emma Norton, spiegando che la serie – con le sue scene intime e la centralità data al contatto tra i protagonisti – spera di fornire una via di fuga almeno momentanea dalla straniante situazione di lockdown in cui si trovano milioni di persone. Ma il successo di una storia all’apparenza già vista e rivista non si può spiegare soltanto in luce della pandemia: d’altronde, Rooney era una star da ben prima. Uno dei motivi del suo successo, infatti, è il modo in cui il mondo, interiore ed esteriore, in cui si muovono i personaggi ricalchi alla perfezione le preoccupazioni con cui si confronta costantemente chi è cresciuto all’ombra della crisi del 2008.
Sally Rooney, classe 1991, è stata elevata a voce di una generazione: quella dei Millennial, nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, cresciuti e costretti a decidere che cosa fare della propria vita a cavallo tra gli anni Duemila e gli anni Dieci, con tutta l’insicurezza politica ed economica che li ha caratterizzati. Secondo un sondaggio globale pubblicato da Deloitte nel dicembre 2019, gran parte dei Millennial e della generazione Z si dichiara insicura e pessimista verso il futuro. Appena il 24% dei giovani intervistati, ad esempio, si aspetta un miglioramento sociale e politico. Soltanto il 26% è convinto che l’economia evolverà positivamente. E non c’è alcuna ragione di credere che la pandemia in corso possa cambiare, se non in peggio, queste percezioni. D’altronde, gli ultimi dati mostrano che i giovani saranno senza dubbio la categoria che subirà il colpo più pesante nella crisi economica alle porte – partendo già da un’indubbia situazione di precarietà. Una precarietà che non può che mettere alla prova la salute mentale di chi la vive: non a caso, l’incertezza sulle prospettive future e la conseguente paralisi in cui moltissimi si ritrovano è considerata tra le cause centrali dei disturbi d’ansia e depressione a cui alte percentuali di Millennial sono esposti.
Tutto questo, in Normal People, c’è. Traspare costantemente sotto al fattore emotivo, che pur trascina la storia dipingendo con fedeltà la difficoltà nel comunicare le proprie emozioni e intenzioni, il terrore di rimanere soli ma anche di non poter mai essere veramente amati, e i vari meccanismi di difesa adottati per far fronte all’intensità di un sentimento.
Marianne e Connell si trovano a crescere nella contea di Sligo – un posto che i meme sugli stereotipi irlandesi categorizzano come l’equivalente del nostro Molise. Lei proviene da una famiglia ricca ma violenta – psicologicamente quando non fisicamente – nei suoi confronti, e lui è il figlio della loro donna delle pulizie. Lui è bello, atletico e popolare, in cima alla “piramide sociale” del liceo. Ma è anche profondamente insicuro, convinto che qualsiasi passo falso possa fargli perdere uno status che gli sta comunque stretto. Lei, estremamente brillante, non ha amici se non Connell, con il quale ha moltissimo in comune, ma che fa finta di non conoscerla nei corridoi della scuola, e non vede l’ora di lasciarsi la provincia alle spalle. La loro relazione, nata in segreto tra le mura della casa di Marianne, viene inaugurata sotto il peso di dinamiche di potere che sembrano fuori dal loro controllo, e si infrange contro il terrore di Connell che qualcuno dei suoi amici possa scoprire il loro rapporto.
È al Trinity College di Dublino, dove entrambi si ritroveranno a studiare – lui Letteratura inglese, lei Scienze Politiche – che le insicurezze di entrambi vengono alla luce come mai prima. “Le paure non han fissa dimora”, cantavano gli Zen Circus. Le ansie della tarda adolescenza li inseguono: benché entrambi siano belli e intelligenti, non riescono a non odiare se stessi, proiettando costantemente ciò che gli altri pensano di loro a massimo metro di giudizio. Un’attitudine forse odiosa, ma comprensibile, in un contesto – quello dell’università del Ventunesimo secolo, al contempo vista come necessaria per la mobilità sociale, ma condizione non più sufficiente ad essere considerati desiderabili nel mondo del lavoro – in cui ci si ritrova spesso a confrontarsi ossessivamente con i risultati e i successi altrui. Alla difficoltà di accettarsi si aggiunge la realizzazione dei limiti imposti dalle condizioni materiali, a maggior ragione nella Dublino post-2008, che deve raccogliere i cocci del decaduto mito della Tigre Celtica, dagli anni Novanta avanguardia europea sfrenatamente ottimista in luce di una crescita economica priva di precedenti nella storia irlandese. Ma la stessa storia sarebbe potuta essere ambientata a Roma, Atene, Madrid o Londra e il risultato non sarebbe cambiato drasticamente: la sensazione di essere iperqualificati ma “inutili” trascende i confini. Rooney, d’altronde, può capirla benissimo, dato che detiene una di quelle lauree umanistiche che vengono paragonate, ancora e ancora, a dei pezzi di carta straccia.
Per Connell in particolare – cresciuto da una madre single che ha lasciato la scuola per metterlo alla luce, appartenente in tutto e per tutto alla working class – lo scontro con la realtà dublinese è violento. Il fine settimana lavora per mantenersi, l’appartamento in cui si ritrova è una topaia. Non indossa i vestiti giusti, non ha l’accento giusto, non proviene dalla famiglia giusta, non ha le parole giuste da dire in classe o tra gli amici di Marianne, che intanto sembra aver trovato il proprio elemento. È convinto che lei, per questo, non lo possa veramente amare. Esempio lampante di quel “senso di inferiorità ontologica” a cui accennava Mark Fisher sul suo blog, parlando delle cause della propria depressione. Ma anche della sindrome dell’impostore, della quale secondo alcuni studi soffrirebbe un Millennial su tre.
Il momento in cui entrambi ricevono una borsa di studio molto ambita rivela l’enormità della differenza tra i due: “Per Marianne, che non paga l’affitto o le tasse scolastiche e non ha un’idea concreta di quanto costino queste cose, è solo una questione di reputazione. Vorrebbe che il suo intelletto superiore venisse affermato in pubblico dal trasferimento di grandi quantità di denaro. In questo modo potrebbe fare la modesta senza che nessuno le creda davvero”, spiega l’autrice. Per Connell rappresenta invece l’accesso a una vita che gli appariva altrimenti irraggiungibile: “Sono i soldi, la sostanza che conferisce realtà al mondo”, dice. La borsa di studio gli permette di viaggiare in Europa, di passare un pomeriggio intero ad ammirare un Vermeer a migliaia di chilometri dal posto dove è nato, di smettere di preoccuparsi dell’affitto o lavorare nel tempo libero.
La rilevanza data allo scontro tra classi sociali diverse non è casuale: cresciuta in una famiglia dalla lunga tradizione di sinistra, Rooney si definisce marxista. “Sarebbe stato veramente difficile per me scrivere di giovani che lasciano l’Irlanda occidentale per andare al college e non affrontare le disparità economiche che stavano emergendo negli anni dell’austerity, come la diminuzione del sostegno alle persone di estrazione popolare che andavano all’università. Non credo che avrei potuto davvero esplorare ciò che accadeva nelle vite interiori dei personaggi senza tenere in conto i cambiamenti che succedevano all’esterno”, ha spiegato in un’intervista.
L’importanza di una rete di protezione sociale robusta affiora anche rispetto alla salute mentale. Dopo il suicidio di un amico d’infanzia a Sligo, Connell comincia a soffrire di attacchi di panico e cala in una depressione profonda. Un amico lo convince a chiedere aiuto allo sportello dell’università, dove trova però un ascolto superficiale e standardizzato, tornando a casa con un plico di fotocopie generiche sulla gestione dell’ansia “che farà finta di leggere”.
Attorno a una riscoperta del conflitto di classe danzano allora altri temi cari ai Millennial, ma ancora lontani dal discorso pubblico: il consenso e il privilegio, la comunicazione online e la fragilità, la difficoltà nel chiedere aiuto e sostegno psicologico – soprattutto per gli uomini. L’assenza di concrete prospettive lavorative, la precarietà, la percezione che una casa, un matrimonio, dei figli – una stabilità – siano lontanissimi, oltre l’orizzonte dell’immaginabile; e poi le falle nell’idea di meritocrazia, ma anche, attraverso la lente di Marianne, la violenza, il catcalling, la percezione di insicurezza nell’occupare spazio, il sesso come dinamica di potere.
A questa centralità del potere e all’incertezza individuale che ne deriva Rooney torna ancora e ancora. Anche nella costruzione dei rapporti tra i personaggi emerge l’idea che gli individui non esistano a sé, ma che vengano formati e plasmati dal rapporto con gli altri, da un’intersezione, appunto, degli svantaggi e vantaggi dati dall’età, dall’aspetto fisico, dall’educazione, dallo status, dai soldi. In un certo senso, hanno fatto notare diversi critici, è come un romanzo dell’Ottocento abbigliato con abiti moderni: l’imbarazzo delle differenze di classe, le assurde differenze di genere, la crudeltà e l’assenza di figure paterne o di mentori che possano aiutare a navigare un mondo disorientante percorrono le pagine di Rooney quanto quelle di Jane Austen o George Elliot. Al contrario di loro, però, la giovane autrice è fermamente convinta di una cosa: che le tendenze ad autodeterminarsi esclusivamente tramite l’individualizzazione vadano ripensate. Che “le persone possono veramente cambiarsi a vicenda”, aiutarsi, salvarsi a vicenda.
Normal people è allora una storia che non ha l’ambizione di cambiare il mondo – “sto solo cercando di osservare, con in mente quei quadri concettuali, come queste questioni vengono percepite dall’individuo in un preciso momento della vita”, ha affermato Rooney – ma che comincia con l’indicare le linee di faglia della società contemporanea a cui non stiamo prestando sufficiente attenzione. Le stesse che la pandemia globale sta portando a galla. “Sto cercando di mostrare come le condizioni sociali siano connesse a un sistema più ampio. Si spera che cercando di mostrare queste cose si possa pensare che non debba necessariamente andare così”, spiega l’autrice. O, come dice Frances, la protagonista del primo romanzo di Rooney: “Prima di capire certe cose le devi vivere. Non puoi sempre assumere una posizione analitica”. Una ragione in più per attaccarsi allo schermo.