La prima occasione in cui mi è capitato di vedere Persona, forse il più grande capolavoro del regista svedese Ingmar Bergman, è stato al cinema, durante una rassegna che proponeva una delle diverse versioni restaurate che ne sono state fatte nel corso degli anni. Appena fuori dalla sala, ricordo di aver ricontrollato d’istinto l’anno di uscita del film, anche se ero piuttosto sicura di ricordarlo, perché mi sembrava inverosimile che la data giusta fosse davvero il 1966. I riferimenti iconografici con cui avevo sempre inquadrato l’estetica anni Sessanta, soprattutto per quanto riguarda la figura femminile, mi erano sembrati del tutto altri rispetto all’immagine restituita dalle protagoniste di quest’opera, l’infermiera Alma (Bibi Andersson) e l’attrice di teatro Elisabeth (Liv Ullmann) – entrambe muse del regista al cinema, oltre che sue compagne nella vita reale. Durante la visione del film, infatti, il mio immaginario fatto di tailleur con gonne sotto il ginocchio, lunghi cappotti color pastello e acconciature cotonate, ha lasciato spazio ai jeans a sigaretta, camicie con tagli maschili e Ray Ban scuri, identici a quelli indossati da Jim Jarmusch una ventina d’anni dopo.
Il principale motivo per cui Persona mi ha affascinata fin dall’inizio è legato a questa mancata corrispondenza fra l’idea di femminilità che avevo sempre ritenuto propria dell’epoca e quella del tutto diversa, estremamente contemporanea, che Bergman propone nel suo film, anticipando i tempi in maniera incredibile, quasi disturbante. Il regista, infatti, mette in scena donne dalla personalità sfaccettata, mosse con violenza da desideri e impulsi sessuali, che si dimostrano capaci di comportamenti crudeli e apertamente egoisti, impossibili da includere nella maschera sociale del sacrificio e della perfezione femminile, che essendo tuttora attuale, cinquant’anni fa veniva certo percepita come un’imposizione sociale limitante. Ciò che colpisce delle protagoniste di Persona – complice anche il progressismo che già allora caratterizzava la cultura scandinava, libera dal retaggio della chiesa cattolica – è dunque il loro essere talmente lontane dalla narrazione della femminilità portata avanti dal resto del cinema europeo antecedente alle rivoluzioni del ‘68, che sembrano provenire da un’altra epoca, molto più vicina al presente. Alma ed Elisabeth, infatti, sia dal punto di vista estetico che per caratterizzazione psicologica, non sono soltanto impossibili da ricondurre al modello di moglie e madre dedita alla casa, al marito, alla famiglia; ma rifiutano, soprattutto, la rappresentazione di una femminilità timida, sbiadita, lontana dagli eccessi, presentandosi come due donne che vivono emozioni aggressive; che si desiderano profondamente, fino ad arrivare a odiarsi.
La stessa crisi vissuta da Elisabeth, quando nel corso di uno spettacolo teatrale in cui interpreta l’Elettra di Sofocle – tragedia greca che Bergman riprende, proprio per la modernità con cui viene rappresentata la protagonista – di colpo si chiude in un silenzio impenetrabile, è la manifestazione di un malessere radicale, che irrompe nella sua vita senza mezzi termini, dando avvio all’analisi psicologica contemporanea per profondità e tematiche trattate che viene portata avanti nel film. Il mutismo di Elisabeth, infatti, è causato dal suo peggior tormento, un’angoscia astratta, sofisticata, lontana dalle banalizzazioni a cui l’emotività femminile viene spesso ridotta: l’attrice vive nel terrore di far trapelare gli aspetti più vili e meschini della sua personalità, quelli che preferisce tenere nascosti, lasciandoli stagnare dietro all’immagine di sé che ha deciso di mostrare agli altri. Nel momento in cui viene affidata all’ospedale psichiatrico, dove fa la conoscenza di Alma e i medici ne accertano lo stato di piena salute sia fisica che mentale, la sua incapacità di parlare si rivela per ciò che è realmente: una decisione presa a seguito di un lucido calcolo, per impedire alle persone che la circondano di avere accesso ai suoi pensieri, di penetrare la sua identità più intima e di giudicarla.
Il dramma che Bergman racconta nel suo film – e a cui allude lo stesso titolo dell’opera, che riprende l’etimo latino della parola “persona”, utilizzata dagli etruschi per indicare la maschera teatrale – fuoriesce dai canoni stereotipati della femminilità angelica, incorruttibile, dimessa, perché riguarda la difficoltà di ricomprendere nella propria identità personale anche le bassezze, le crudeltà e tutti i pensieri degradanti che attraversano la nostra mente, costringendoci a riconoscerli come qualcosa che ci appartiene, una volta che, avendoli rivelati a qualcun altro, non possiamo più permetterci di negarli. Elisabeth, infatti, non soffre di una condizione medica, ma esistenziale, che scaturisce dal timore di essere “smascherata”, di vedere colmato “l’abisso che separa ciò che sei per gli altri e ciò che sei per te stesso”, come afferma la dottoressa che la prende in cura in una delle diagnosi più belle della storia del cinema.
Il rapporto tra Alma ed Elisabeth si sviluppa lungo il periodo di isolamento terapeutico che trascorrono insieme nel tentativo di far uscire l’attrice dal suo silenzio, convivendo su un’isola svedese che va configurandosi, scena dopo scena, come la collocazione geografica di un luogo psichico. Alma mostra fin da subito una devozione viscerale nei confronti di Elisabeth e, nel desiderio di conquistarsi le sue attenzioni, le confida con sincerità assoluta – tale da invertire il rapporto tra assistente e assistita – delle vicende molto personali che, per vergogna, non ha mai avuto il coraggio di rivelare a nessuno, come un’esperienza sessuale di gruppo e un aborto – temi che per il mondo dell’epoca erano dei tabù, considerando che in Italia, per esempio, non c’era ancora il divorzio. I racconti dell’infermiera, pur rimanendo monologhi privi dell’intervento diretto di Elisabeth, bastano per risvegliare il dolore che l’attrice prova nel custodire il suo più grande segreto, legato al sentimento d’odio che nutre per il figlio, nato da una gravidanza indesiderata; e a innescare un processo di identificazione reciproca dove le verità irrivelabili che consumano l’esistenza di una delle due protagoniste permettono all’altra di riconoscere, scavando tra esse, una fallibilità che è uguale alla sua.
Toccando due dei tabù inviolabili legati all’immagine femminile – il rifiuto della maternità e la libertà sessuale, che ancora oggi non sono stati del tutto sdoganati – Bergman descrive un legame fondato proprio sulla non conformità a determinati standard sociali e sul senso di inadeguatezza che ne deriva, un sentimento condiviso che le due donne interpretano, in un primo momento, come un innamoramento, ma che inizia poi a deteriorarsi. Questa affinità emotiva totalizzante e unificatrice – restituita nel film da un’immagine simbolica dove si assiste alla fusione dei volti delle protagoniste – stringe Alma ed Elisabeth in un rapporto morboso, tenendole sospese a metà tra l’erotismo e l’inquietudine, in uno stato di sottomissione alle proprie frustrazioni dove diventa impossibile distinguere il sé dall’Altro. Il regista, infatti, offre l’immagine di un conflitto identitario che sconfina la dimensione individuale, una suggestione con cui sembra intercettare, portandolo alla sua deriva estrema, il concetto di “fusione mortale” che il filosofo francese Georges Bataille riconosce come centro dell’esperienza erotica nel libro del 1969 L’erotismo, quando descrive l’istante che permette a due persone di perdere la percezione dei limiti che li separano, di smarrire la coscienza della loro distinzione. Secondo il pensiero di Bataille, misurandosi con le manifestazioni dell’eros, l’essere umano può sperimentare, nel corso della vita, la morte della propria individualità, che viene “uccisa” dal godimento del corpo, per diventare pura tensione verso un altro individuo, in cui ci si riconosce come fosse uno specchio – motivo per cui la scoperta della sfera erotica, oltre a incuriosirci, ci spaventa.
La carica erotica di Persona, infatti, è ribadita continuamente dallo scorrere di immagini dove tutto diventa corpo, esibendo la fisicità di due donne in una modalità inedita, molto diversa dal canone di tanto altro cinema. In particolare, i primi piani studiati nei minimi dettagli dal regista sembrano voler violare le convenzioni circa i confini corporei, in una costante operazione di avvicinamento, ingrandimento, isolamento del viso, in grado di simulare la distanza che si crea quando si vuole toccare, baciare o colpire qualcuno – un effetto sottolineato anche dai frequenti sguardi in camera. La precisione con cui lo spettatore può osservare il modificarsi delle espressioni di Elisabeth e Alma, infatti, è tale da mettere gradualmente a nudo la loro soggettività, fino quasi a scorticarla, senza lasciare alcun dubbio rispetto all’emozione che stanno provando. In questo modo, Bergman sottolinea l’impotenza della parola – confermata anche dall’assenza quasi totale del commento musicale – contro la forza straripante dell’immagine, che rappresenta il centro espressivo indiscusso della psicologia dei suoi personaggi.
L’ostentazione dello sguardo sui corpi, dunque, è un modo per oltrepassarli e alludere alla psiche, rafforzando con la parsimonia che caratterizza l’utilizzo della luce, le scelte di montaggio e la composizione delle scene il senso d’angoscia dei personaggi. Anche i riferimenti al palcoscenico teatrale – come la famosa sequenza di fotogrammi iniziale che si ripete per tre volte nel corso del film e può essere letta come una simulazione del sipario – sono scelte subliminali, che contribuiscono a spostare tutto l’interesse del pubblico sulla molteplicità psicologica dei personaggi, coinvolgendolo in un’esperienza sensoriale che va oltre la semplice visione, perché dà l’illusione di poter allungare le mani e toccare il contenuto dei pensieri delle protagoniste, soprattutto di quelli più corrotti. Soppesandone la gravità, lo spettatore può dunque metterli a confronto con i propri, scoprendo di conservarne alcuni simili dietro alla maschera che indossa.
Persona ha la capacità di descrivere la condizione umana in maniera universale, con la precisione dei discorsi che ci riguardano. Ma quello che è forse l’aspetto più sovversivo di questo film di Bergman è quello di aver scelto due donne per raccontare la menzogna che si cela in ogni identità sociale e in ogni individualità che non ha fatto i conti con i propri coni d’ombra. La contemporaneità dell’analisi psicologica a cui sono sottoposte le due protagoniste, infatti, risiede soprattutto nel suo valore politico, nella volontà di mostrare una femminilità spietatamente reale, come mai nessuno aveva fatto prima al cinema. Il capolavoro di Bergman possiede la profondità di riflessione di un’opera di filosofia esistenzialista e il carico di rottura di una verità inedita, sconosciuta, che conserva ancora la sua forza a più di cinquant’anni dall’uscita del film, ricordandoci quanto aldilà dei modi in cui ci rappresentiamo e veniamo rappresentati, siamo tutti ugualmente in conflitto con gli aspetti di noi stessi che non riusciamo ad accettare.