Quando pensiamo alla Spagna, di solito, l’immaginario che viene in mente a chi è nato abbastanza tardi da non vedere il dopoguerra è quello tipico delle feste Erasmus a Valencia, narrate da quel collega di università che ha appena finito i suoi sei mesi di scambio, della sangria in bottiglia e delle fantasie vagamente eccentriche dei vestiti Desigual. Ovviamente la terra dei toreri e della Santa Inquisizione non è fatta solo di questo, ma come l’Italia agli occhi dell’estero è tutta un “pizza, spaghetti, mafia”, e come tutti i Paesi del mondo, anche la penisola iberica passa anche attraverso questi ammassi di luoghi comuni funzionali giusto ad avere una memoria visiva immediata che vada poco oltre i colori di una bandiera. La cosa interessante di questa terra è che se oggi per le generazioni più giovani – complici anche i palinsesti di Italia Uno e Paso Adelante – la rappresentazione più gettonata è proprio quella sgargiante e festaiola degli scambi universitari, l’atmosfera fino a poco più di quarant’anni fa era decisamente diversa, considerato che fino al 1975 Francisco Franco era ancora in vita. Questo cambio repentino nell’atmosfera politica e culturale spagnola è anche la causa più plausibile per questa esplosione di colori, divertimento, libertà ed espadrillas che oggi associamo così candidamente a un popolo e a una nazione che ha una storia lunga e complessa. La cosiddetta Movida madrileña, movimento di reazione agli anni bui del dopoguerra e della dittatura, è la manifestazione tangibile della rivolta che negli anni Ottanta ha cambiato radicalmente lo spirito spagnolo, e con lui anche le sue manifestazioni artistiche. E Pedro Almodóvar, il regista che oggi concorre a Cannes con il suo ultimo film Dolor y Gloria, è forse l’esempio più alto e acclamato dell’attuale produzione cinematografica iberica.
Almodóvar infatti non è solo un regista spagnolo famoso anche al di fuori del suo luogo di provenienza, ma è uno di quegli artisti che contribuiscono in modo attivo – e nel suo caso anche positivo – a dare forma all’immagine e all’idea che da fuori possiamo farcene. Lasciando da parte ogni banalità confinata ai luoghi comuni e ai pregiudizi che inevitabilmente ognuno di noi si crea rispetto a ciò che conosce solo da estraneo, il cinema di questo regista non solo ha fissato nella mente dei suoi spettatori ritratti indelebili e ormai condivisi da un pubblico molto vasto, ma ha anche saputo dare voce a certe categorie sociali che durante gli anni della dittatura erano rimaste schiacciate dalla violenza di Franco e da ciò che la sua politica ha portato alla Spagna.
Almodóvar è così diventato non solo quel famoso regista spagnolo che tutti bene o male conosciamo, anche solo per averlo sentito nominare, ma anche il narratore per eccellenza delle minoranze, degli emarginati, della diversità, in grado di dar voce in modo molto particolare sia alle donne che agli omosessuali, due categorie spesso escluse o mal rappresentate dalla narrazione dominante. E la cosa più interessante del suo modo di raffigurarle, oltre al fatto di dare loro uno spazio spesso precluso, è che non si limita solo a un racconto didascalico o descrittivo ma crea piuttosto una sorta di universo parallelo in cui ognuno dei suoi personaggi ha esattamente quelle caratteristiche che lo rendono un soggetto “almodovariano”. I colori, le atmosfere, il modo di recitare, gli oggetti che circondano gli attori e le interazioni tra di loro, le musiche, certi temi ricorrenti: nel cinema di Almodóvar, così come in tutte le opere d’arte di chi ha la capacità di creare uno stile preciso e riconoscibile, tutto sembra essere parte di un unico mondo coerente che risponde alle sue stesse regole.
Il primo film di Almodóvar che segue più chiaramente questa sorta di legge rappresentativa che rende ogni suo film così denso della sua poetica probabilmente è Donne sull’orlo di una crisi di nervi, del 1988. Ciò che da spettatrice donna mi stupisce di questa pellicola è il modo in cui un uomo è stato in grado di mettere in scena certi tratti della femminilità che spesso sfuggono al genere maschile, senza però fare sì che diventasse tutto una sorta di commedia al femminile o una versione cinematografica di qualche fiction in stile Commesse. Donne sull’orlo di una crisi di nervi, infatti, è un lungometraggio in cui le donne fanno da protagoniste senza aver bisogno di direzionare la narrazione verso una tendenza univoca, autoreferenziale e adatta solo a chi appartiene a questa categoria del genere umano: il tema centrale, la rabbia e i risentimenti verso uomini che hanno tradito e abbandonato, non prende in alcun modo una piega patetica ma diventa piuttosto un espediente per dare forma agli aspetti più tragicomici dell’emotività femminile.
E si tratta di un modo di rappresentare i sentimenti e i drammi molto caro ad Almodóvar, il quale ha infatti dichiarato più volte di trovarsi così bene con i personaggi femminili proprio per questa caratteristica innata delle donne di avere uno spettro emotivo più variopinto e auto-ironico, anche nelle loro tragedie personali più gravi. In effetti, il risultato di questo film, che mischia una serie di sottotrame che ruotano attorno alla presenza assente di uomini, è quello di mettere in scena un ritratto della femminilità non solo divertente, paradossale e comico ma anche di rendere le sue protagoniste portavoci emblematiche di certi stati d’animo difficili da rappresentare ma ben chiari a tutte le donne, tracciando ritratti spesso confinati a stereotipi di genere. Di certo è necessaria una grande sensibilità e uno spirito d’osservazione molto acuto per individuare dettagli e modi di sentire che non sono propri di chi sta componendo un ritratto simile, ed è evidente che ad Almodóvar non sfuggono certe caratteristiche: dai tratti più apparentemente superficiali come i vestiti, le scarpe, gli accessori (è interessante infatti notare ad esempio il rapporto della protagonista del film, Pepa, con il telefono che lancia dal balcone e che più volte riprende come oggetto diegetico fondamentale) fino alle note più profonde di ciascuna, non è un caso se Donne sull’orlo di una crisi di nervi è diventato un cult.
Le donne dunque sono un perno sia dell’estetica che della narrazione di Almodóvar, messe in scena nella molteplicità delle loro forme, come madri, come figlie, come suore, e soprattutto come figure di risolutezza ed emancipazione. Questo non tanto attraverso una costruzione eroica o straordinaria, piuttosto nella loro declinazione più quotidiana, normale, domestica. In Volver, ad esempio, film del 2006, Penelope Cruz interpreta il ruolo di una madre la cui storia dark e surreale, come spesso sono le pellicole di Almodóvar, sembra il miscuglio di una serie di personaggi femminili che rimandano molto anche al cinema classico italiano: potremmo infatti avere davanti una combinazione di Sophia Loren ne La Ciociara, Anna Magnani in Bellissima e anche un po’ di quella bellezza intensa e seriosa di Claudia Cardinale diretta da Fellini. La rappresentazione di tutti i personaggi femminili di questo lungometraggio si affida dunque alla complessità identitaria che è un altro dei temi fondamentali del cinema di Almodóvar: spesso nei suoi film alcuni personaggi si rivelano essere altro da quello che sono, attraverso momenti di agnizione e disvelamento in cui si ribalta la trama, creando quella tensione paradossale che è appunto una sua cifra stilistica molto precisa.
Un elemento interessante e innovativo del modo di raccontare di Almodóvar è proprio la fluidità che si manifesta nella precarietà dell’identità dei suoi personaggi: scopriamo ad esempio che la madre di Penelope Cruz in Volver, ovvero Carmen Maura, non è morta come pensavamo dall’inizio, così come in La Mala Educación, del 2004, veniamo a sapere che uno dei protagonisti, Gael García Bernal, non è davvero chi credevamo ma il fratello di un personaggio transessuale morto. Anche l’omosessualità, che il regista spagnolo mette in scena in modi diversi, a volte perturbanti quando la collega all’infanzia e alle prime esperienze collegate con ambienti religiosi – la fede è un tema che nella cultura spagnola ha una presenza predominante, vista la forte interferenza cattolica nella storia – diventa negli intrecci delle sue storie spontanea e ben amalgamata, affatto forzata né eccessivamente sottolineata come se fosse un elemento narrativo a sé. I personaggi di Almodóvar non fanno coming out, non danno spiegazioni relative alla loro sessualità ma sono semplicemente così come li vediamo, e raccontano a chi non è omosessuale un pezzo di realtà attraverso la finzione che risulta naturale da comprendere, così come il punto di vista femminile.
Dolor y Gloria, l’ultimo film di Almodóvar, rappresenta in tutta la carriera del regista spagnolo una sorta di punto di arrivo, un concentrato della sua biografia che viene raccontata in un mix di elementi a cavallo tra verità e invenzione. Come una sorta di testamento artistico, Almodóvar ha scelto dopo quasi quarant’anni di attività di raccontare se stesso attraverso Antonio Banderas, che finalmente vediamo allontanato da galline parlanti e mulini a vento, e che impersona la fase di stallo della sua vita artistica, ma anche di dolore fisico: il corpo che cede all’età, la creatività che non trova più appigli, la casa trasformata in un museo che mummifica il protagonista, il rapporto con le donne (con la madre soprattutto) e con l’infanzia povera del dopoguerra, ma anche il primo desiderio erotico di un bambino che si trova faccia a faccia con sensazioni inedite e spaventose.
C’è un pezzo di ogni film di Almodóvar in Dolor y Gloria, dagli elementi autobiografici alla rappresentazione dell’omosessualità, che si intreccia con la trama anche in questo caso nel più spontaneo dei modi, ma c’è anche una sorta di catarsi nella volontà di mettersi in scena e di diventare lui stesso parte di questo universo estetico e narrativo che ha creato negli anni, con i colori e le atmosfere così intensi e riconoscibili. Anche in questo caso dunque, Almodóvar ha di nuovo saputo mettere in scena questo gioco di identità, ma anche di meta-cinema, nell’ambiguità del racconto che mescola ciò che vediamo tra scene del film girato dal protagonista e scene del film stesso. Proprio questa scioltezza e agilità con cui i piani si mescolano, sia quelli delle identità sessuali sia quelli tra realtà e finzione, sono forse l’elemento più interessante e peculiare del cinema del regista, che grazie alla libertà nel racconto ha abbattuto diversi confini rappresentativi e ha messo in scena le minoranze e le diversità facendole diventare protagoniste, con apparente facilità, mentre in realtà è forse una delle cose più difficili da fare.