Nei suoi film Paul Schrader ha mostrato le contraddizioni, tensioni e fragilità della mente maschile - THE VISION

Quando si sente il nome di Paul Schrader è impossibile non associarlo immediatamente allo sguardo spiritato di un Robert de Niro nell’indimenticabile scena di Taxi Driver in cui si esercita a sfoderare la pistola prima di un’esecuzione: “You talkin’ to me?”. Forse è perché quel film che ha segnato la storia del cinema e che è ancora in grado di infestare il nostro immaginario, girato da Martin Scorsese nel 1976, è nato davvero dal suo corpo e dalla sua mente. All’epoca in cui lo scrisse infatti Schrader stava attraversando una durissima depressione, segnato dalla solitudine e dalla dipendenza dall’alcol. Come mastica ossessivamente il reduce dal Vietnam Travis Bickle: “Here is a man who would not take it anymore. A man who stood up against the scum, the cunts, the dogs, the filth, the shit. Here is a man who stood up! Here is…”. L’unico modo per salvarsi è farsi salvatore, sembra dirci Schrader con De Niro.

Taxi Driver, 1976

Dopo il successo di Taxi Driver, Schrader nel 1978 ha l’occasione di girare il suo primo film, Tuta blu, scritto insieme al fratello Leonard, con cui nel 1974 aveva già scritto Yakuza, diretto da Sydney Pollack, con Robert Mitchum e Ken Takakura. Zeke (Richard Pryor), Jerry (Harvey Keitel) e Smokey (Yaphet Kotto) fanno gli operai in uno stabilimento automobilistico di Detroit. Stanchi di tirare avanti con i pochi soldi del loro stipendio e delle condizioni di lavoro che devono sopportare, organizzano un piano per rapinare l’ufficio sindacale. Ma una volta scassinata la cassaforte ci trovano solo poche centinaia di dollari, e documenti che dimostrano dei legami tra il sindacato e la criminalità organizzata. Nella disperazione, sperando di ottenere qualcosa cercano allora di ricattare il sindacato, ma è inutile dire che i tre amici non hanno gli strumenti per resistere alle contaminazioni di un modo corrotto e del tutto spietato. Come se non bastasse gli attori si odiavano ed erano ben poco disponibili alle richieste di Schrader, che a giudicare da quanto si legge in giro, o non sapeva scegliersi gli attori con cui lavorare, o a cui sicuramente mancava il talento diplomatico per averci a che fare. In ogni caso in qualche modo riuscì a portarsi a casa la pellicola.

Tuta Blu, 1978

Nel 1979 dirige poi Hardcore, un thriller ambientato nell’ambiente dei film a luci rosse. Per poi realizzare l’anno dopo il film che ne sancì il successo definitivo, American Gigolò, ancora un thriller, estremamente sofisticato e sovversivo, interpretato da Richard Gere, che fu consacrato a sex symbol anche perché fu il primo film mainstream a includere scene di nudo maschile frontale. A questo segue poi una fitta carriera, a partire dal remake del film di Jacques Tourneur, Il bacio della pantera (1982) con Nastassja Kinski, e nel 1992 Lo spacciatore, con Willem Dafoe, con cui collaborerà anche nel 2002 in Auto Focus, entrambi in programmazione a Milano all’interno della più ampia soggettiva su Paul Schrader organizzata al Cinema Godard di Fondazione Prada nel mese di settembre, così come First Reformed, Il collezionista di carte e Il maestro giardiniere.

Lo Spacciatore, 1992
Auto Focus, 2022

Tornando ad American Gigolò, probabilmente la pellicola più nota di Schrader in veste di regista, il film è ancora un’epopea sordida del tentativo di ottenere giustizia dei più svantaggiati, contro una società in cui detta le regole il privilegio, coi suoi tanti abusi di potere. Schrader fu ispirato da Diario di un ladro, film del 1958 di Robert Bresson, che a sua volta si era ispirato al grande romanzo di Dostoevskij, Delitto e castigo. È interessante vedere come i sentimenti e le riflessioni alla base della New Hollywood, che ha segnato la fortuna e la storia del cinema americano converga con quelli di uno dei più grandi artisti russi del secolo precedente, perché in fondo basato sulla disamina dei meccanismi psico-sociali della povera gente, appunto, per citare la prima opera di Dostoevskij, e di quanto all’interno di un ambiente tanto sfavorevole il libero arbitrio sia ben poca cosa, o meglio, che forme disperate – e disparate – assuma, a volte solo l’autolesionismo, a volte la violenza, e altre come invece possa farsi motore di un’azione di coraggio, per quanto disperata. Dove c’è povertà le dinamiche, sia intime che collettive, seguono altre direttrici, così come le emozioni, la paura, l’odio, la lealtà, l’amore. Come se avessero densità e significati diversi da quelli a cui oggi, noi privilegiati spettatori, siamo abituati a dare loro.

American Gigolò, 1980

In questo modo di trattare il materiale narrativo, prima ancora che visivo, compositivo, ritmico e teatrale, emerge come Paul Schrader nasca in primis come critico. E questa inclinazione per certi aspetti può rivelarsi insidiosa, come ha dichiarato lui stesso: “Un critico, sotto vari punti di vista, è come un medico legale. Apre un cadavere e vuole vedere come e perché ha vissuto”, mentre uno scrittore, o un regista, secondo lui “è molto simile a una donna incinta. Cerchi solo di mantenere vivo questo ‘qualcosa’, nutrirlo e sperare che esca vivo. E quindi bisogna stare molto attenti a non far entrare il medico legale in sala parto. Perché se no ucciderà quel bambino. Lo smembrerà e dirà: ‘Oh, che bambino interessante! Riposa in pace’”. Queste attitudini verso la creazione di un prodotto artistico sono molto difficili da conciliare e portano a una sorta di scissione schizoide. Anche per questo è molto raro che i critici creino, e che gli artisti “analizzino”. Schrader però in qualche modo è riuscito a sopravvivere ai limiti di visione di entrambe le figure, e anche per questo è tra le figure di spicco della New Hollywood ed è stato capace di rendere universali le sue esperienze personali. Le sue storie sono spesso enormemente tormentate, sono storie di solitudini, di violenze più o meno subdole, sopraffazioni, e offrono un crudo spaccato del contraltare dell’American Dream.

Il bacio della pantera, 1982
Mishima, 1985

I suoi protagonisti sono come meteore, autolesionisti, autodistruttivi. Pare quasi che Schrader usi le sue storie per mettere nero su bianco ciò che sente, ciò che vive, e tenti di fare chiarezza. Pochi infatti come lui sono riusciti a mettere in scena i labirinti e le contraddizioni, nonché le tensioni e le fragilità della mente maschile, mostrandosi quasi come un desiderio ricorsivo e maniacale di autoanalisi, un tentativo per capire il proprio ruolo in un’epoca, quella degli anni Settanta e Ottanta, segnata da enormi contraddizioni interne alla società, e così potenti da annidarsi nel cervello dei singoli.

Cortesie per gli ospiti, 1990

Pare che Schrader, dando voce a un’intera generazione di uomini, cerchi disperatamente una salvezza, una tregua all’enorme dolore interno che prova, ma l’unico meccanismo a cui si affida è quello del sacrificio, della catarsi violenta, che pure porta in sé un profondo seme di trascendenza. E nella sua opera in particolare, ma non solo, emerge con estrema chiarezza il sottobosco culturale e morale in cui tutta la società americana, anche quella più apparentemente spigliata e sovversiva, affonda le proprie radici: quello nutrito dalla Bibbia.

First Reformed, 2017

Non a caso egli stesso porta con sé i nomi dei due personaggi biblici preferiti dalla madre, Paul e Joseph. Ma per capire meglio il riverbero di questa influenza bisogna affondare nel senso di colpa. Schrader infatti crebbe in una rigida comunità calvinista olandese, e a lui e a suo fratello maggiore, Leonard, fu proibito fino a 18 anni qualsiasi intrattenimento mondano, film compresi. È lampante come le proibizioni ottengano ben pochi risultati sui figli, se non proprio l’effetto contrario. Eppure, faccio fatica a credere che i due Schrader, e in particolare Paul, siano usciti indenni da questa cesura, da questa disobbedienza alla famiglia, nonostante la gioia di seguire la propria passione e il successo. La vita assume comunque la forma del tradimento, da qui il dolore che attraversa tutte le sue storie, e da qui il tentativo, il desiderio disperato, di giustificare la sua scelta, innalzandola e ammantandola di un compito che sfiora il trascendente, anche e soprattutto quando si snoda negli ambienti e nelle atmosfere più sordide.

The Card Counter, 2021
Il maestro giardiniere, 2022

Dopo la morte di Kennedy, dopo il sessantotto, dopo il maccartismo, dopo la guerra del Vietnam, dopo la morte di John Lennon, la generazione a cui sembra parlare Schrader, e con cui i giovani d’oggi paradossalmente hanno di nuovo un corredo di sentimenti e incertezze in comune, è una generazione di giovani adulti al cui interno vivono ancora i bambini terrorizzati dal cacciatore di un altro grande film, del 1955, La morte corre sul fiume, e dalla separazione incurabile e dogmatica tra odio e amore, giusto e sbagliato, bene e male, quando tutto nel mondo è inevitabilmente sfumato, a volte così tanto da risultare indistinguibile. Il cinema di Schrader allora ci mostra cosa succede nel cuore e nella mente degli esseri umani quando sono costretti a portare con sé questo macigno, e quali sono le loro possibili, fallibili, commoventi, sghembe strategie di sopravvivenza.

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