Del nuovo Joker di Todd Phillips si è detto di tutto. Da capolavoro da otto minuti di standing ovation e Leone d’Oro alla 76esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia a profonda delusione: il film è stato sviscerato in ogni suo dettaglio non solo dalla critica ma probabilmente anche dal più cinematograficamente digiuno dei vostri contatti.
Tra selfie sulle scalinate del Bronx e costumi di Halloween improvvisati, una delle discussioni più importanti rispetto alla pellicola al di là della messa in scena e delle scelte narrative riguardava però il suo significato politico, ovvero come un certo assetto sociale caratterizzato dall’austerity, ma non solo, possa riverberare molto negativamente sul singolo, con sviluppi sociali ingestibili. Il protagonista, il clown Arthur Fleck (interpretato da Joaquin Phoenix) – profondamente depresso, incastrato in un lavoro degradante e affetto da un raro disturbo che gli provoca incontrollabili scoppi di risa – si ritrova fin dal primo secondo nel cuore di una Gotham decadente e colma di immondizia dove la classe politica sembra aver abbandonato completamente i cittadini. Consapevole di aver bisogno di aiuto, visita regolarmente un’assistente sociale che gli prescrive psicofarmaci – finché, all’improvviso, dei tagli nel budget pubblico interrompono anche questo servizio. Da qui Arthur precipita in una spirale di disperazione e violenza che lo porterà a diventare Joker accompagna un deterioramento speculare della società. La critica al sistema è evidente, tanto da risultare per alcuni un po’ troppo grossolana: come scrive sul Guardian Micah Uetricht, caporedattore della rivista anticapitalista Jacobin e fervente socialista, “la sottigliezza politica non è esattamente nel repertorio di questo film”. Nonostante sia chiaro che l’austerity ad oltranza a cui è soggetta Gotham stia alla base della rabbia e della frustrazione che culminano nelle sanguinose proteste alla fine del film, il messaggio effettivamente rischia di perdersi in un caos di auto date alle fiamme, maschere da clown e musiche opprimenti, finendo per lasciare un certo retrogusto populista.
Con qualche mese di ritardo rispetto ad altri Paesi, arriva però in Italia a Novembre una critica al sistema capitalista ben più arguta, elegante e puntuale. È Parasite di Bong Joon-ho che, dopo aver stregato la giuria al Festival di Cannes portando a casa la prima Palma d’Oro per un direttore sudcoreano, è ora in corsa per gli Oscar 2020.
Tra i cineasti sudcoreani più conosciuti internazionalmente, Joon-ho ha una reputazione da mantenere quando si parla di anticonformismo. Nato in una famiglia divisa in due dalla guerra di Corea, i suoi anni di formazione universitaria coincisero con un periodo di forti contestazioni sociali per l’estensione dei diritti democratici, il miglioramento delle condizioni lavorative e la riunificazione del Paese. “Ogni giorno era uguale: protestavamo di giorno e la sera bevevamo”, ha raccontato quest’anno in un’intervista a Vulture. Ogni tanto, nei sogni, dice di sentire ancora l’odore del gas lacrimogeno respirato in quel periodo della sua vita.
Fin dai tempi di The Host, il film del 2006 che l’ha consacrato come cineasta nel suo Paese d’origine, le sue opere sono state collegate tra loro da un filo rosso tematico: le conseguenze sanguinose e terrificanti di società capitaliste in cui ingiustizie e ineguaglianze si riproducono costantemente. Se in The Host una mostruosa creatura nata dagli scarti di laboratorio di una multinazionale americana gettati nel fiume Han miete vittima dopo vittima, la critica al sistema assume toni apocalittici nel 2013 con Snowpiercer, in cui un tormentato Chris Evans guida una rivolta proletaria all’interno di un treno in cui vive tutto ciò che resta dell’umanità in seguito a una nuova era glaciale, e in cui i più poveri vivono in condizioni pietose mentre i più ricchi godono di ogni comfort. C’è poi Okja, uscito su Netflix nel 2017 – un altro film di fantascienza in cui una ragazzina coreana sfida la crudeltà di una multinazionale che ha messo in piedi una truffa sulla produzione di carne.
Così si arriva a Parasite. Una dark comedy che sfocia in un thriller inquietante, il film apre con una scena quasi ridicola: una famiglia di quattro persone (un padre dalla lunga scia di fallimenti lavorativi alle spalle, una madre ex campionessa sportiva, e due figli, Ki-woo e Ki-jeong) vive di sussidi di disoccupazione in una cantina, cercando di rubare qualche tacca di Wi-Fi ai vicini arrampicandosi sui mobili e racimolando qualche soldo con lavoretti precari. Le cose, però, cominciando a cambiare quando un amico del figlio maggiore, Ki-woo, bussa alla porta e fa sapere di star per partire per un periodo di studio all’estero, lasciando il proprio posto come tutor d’inglese presso la ricchissima famiglia Park. Ki-woo, che aveva abbandonato l’università, falsifica un diploma e riesce a farsi assumere al posto dell’amico presso i Park, mettendo in moto una serie di eventi di cui perderà presto il controllo. La sorella viene assunta come art therapist per il figlio minore dei Park, un ragazzino sveglio ma bizzarro, mentre i genitori diventano rispettivamente l’autista privato della famiglia e la domestica dopo, essere riusciti a far licenziare i precedenti impiegati della ricca famiglia. I Park vivono sulla sommità di una collina, dall’alto della quale tutto sembra semplice e dorato. Mentre i loro dipendenti stanno letteralmente sotto terra, al punto da trovarsi senza casa per via di un’alluvione, perdendo anche quel poco che avevano.
Se le premesse sembrano quelle di un’innocua commedia in cui due mondi opposti – quello misero e insicuro della famiglia di Ki-woo (di cui non conosciamo nemmeno il cognome) e quello opulento e spensierato dei Park – si incontrano e scontrano, Bong Joon-ho porta invece lo spettatore nelle viscere di una lotta di classe latente e pronta a scoppiare alla minima tensione.
Il diavolo sta nei dettagli, come nella scena in cui, senza sapere che i loro dipendenti possono sentirli, i Park discutono dell’odore che hanno le persone povere. “Come una vecchia radice”, dice il signor Park con aria disgustata. “O come un tappeto che è stato fatto bollire”. Da parte propria, la famiglia di Ki-woo capisce alla perfezione il privilegio che ammanta i loro datori di lavoro e che permette loro di sembrare sempre tanto gentili e posati: “I soldi sono come un ferro da stiro”, spiega la moglie al figlio. “Spiana ogni piega. I Park non sono ‘ricchi, ma gentili’; sono gentili perché sono ricchi”.
Così, in un crescendo di tensione, l’equilibrio che sembra essersi instaurato tra le due famiglie si incrina fino a raggiungere un livello di violenza, un grado di follia collettiva che farebbe impallidire la Gotham in cui si muove Joaquin Phoenix. La morale della favola è una: che un tale grado di ricchezza fatta di aerei privati e catering da migliaia di dollari per la festa di compleanno di un bambino può esistere soltanto a scapito di una moltitudine di persone che vivono in una povertà abietta. E che se anche i poveri sognano di diventare ricchi, qualcun altro dovrà essere povero al posto loro. E in questo non c’è nessuna pietà.
Nelle parole del regista stesso, “Ci sono ranghi e classi nella nostra società che sono invisibili a occhio nudo. Li teniamo nascosti, lontani dagli occhi, ma la realtà è che ci sono delle linee di classe impossibili da oltrepassare. Penso che questo film mostri le crepe inevitabili che compaiono quando due classi sociali si scontrano nella nostra società sempre più polarizzata”. In questo contesto, Parasite dà voce alla stessa rabbia latente insita in Arthur Fleck, ma con una raffinatezza che sembra mancare al vincitore del Leone d’Oro.
La crescita delle disuguaglianze non è certo un tema attuale soltanto in Corea del Sud o negli Stati Uniti da cui arriva il Todd Phillips di Joker, però. Lungi dallo scomparire con l’avanzare degli anni, rapporti su rapporti mostrano come l’ascensore sociale si sia inceppato – in Italia come quasi ovunque nel mondo. Nell’Unione Europea, una ricerca pubblicata nell’aprile 2019 dal World Inequality Database mostra che l’economia è più diseguale di quanto non lo fosse 40 anni fa: così, l’1% più ricco della popolazione ha visto il suo reddito crescere 2 volte più velocemente del restante 50% più povero. Nel 2017, il 10% più ricco della popolazione guadagnava il 34% del reddito europeo totale. Nel 1980, era il 30%. Secondo lo stesso studio, l’Italia risulta meno diseguale di altri Paesi europei come Francia, Spagna e Germania, ma la disuguaglianza dei redditi non sembra lo stesso accennare a ridursi.
Se i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, non ci si può aspettare che chi – in modo arbitrario – si trova a essere l’ultima ruota del carro accetti di buon grado la propria condizione di vita. La percezione che la situazione attuale di vaste masse di persone sia insostenibile si estende ben oltre il grande schermo e prende forma allora nelle grandi proteste di piazza che hanno una radice comune nell’intollerabilità dell’ineguaglianza. Era così per i gilet gialli in Francia prima, è così ora per le manifestazioni popolari dal Cile al Libano, dall’Iraq ad Haiti.
“Il vero orrore e la paura che si trovano in Parasite non sono legate soltanto al fatto che la situazione attuale è pessima, ma che non farà altro che peggiorare”, ha affermato Boon-ho in un’intervista. “È una paura che covo anch’io nella mia vita. Ora ho 50 anni, quindi morirò tra circa 30 anni. Mio figlio ha 23 anni. Quando sarà un uomo di mezz’età, dopo la mia morte, la situazione sarà migliore? Non lo so. E non nutro grandi speranze”. Questo forte senso di ingiustizia, che prevale anche in The Host, Snowpiercer e Okja, raggiunge nella pellicola più recente un culmine perfetto: “Prima di essere un enorme termine sociologico, il capitalismo è semplicemente la nostra vita”.