Esiste un termine coniato da un politologo americano negli anni Novanta per descrivere la sensazione che abbiamo noi nati in un Occidente post-bellico quando ci rendiamo conto della quantità di cultura americana che abbiamo ingurgitato sin da piccolissimi. Si chiama soft power ed è il modo in cui gli Stati Uniti hanno esercitato il loro potere “morbido” sul mondo globalizzato, ossia la ragione per cui i millennial – e tutte le altre generazioni, anche se ognuna in modo diverso – sono cresciuti prima guardando ore e ore di VHS Disney e film iconici come Jurassic Park o Mamma ho perso l’aereo, poi Dawson’s Creek e The O.C. e adesso, negli ultimi dieci anni, quintali di serie televisive targate Netflix, HBO e così via. Ognuno ha i suoi interessi e certamente non siamo stati tutti fan sfegatati dei Backstreet Boys, né siamo stati obbligati a guardare solo cinema americano, leggere autori americani, vestirci con la moda americana; tuttavia, e questo possiamo constatarlo facilmente facendo una breve rassegna mentale, gli Stati Uniti sono entrati nella nostra vita tramite una narrazione di sé fatta a regola d’arte tramite i prodotti culturali che ci hanno formato come individui, nel bene e nel male, e per quanto possiamo esserne coscienti e critici – o entusiasti – farà comunque parte della nostra Weltanschauung di periferia. Motivo per cui trovo particolarmente interessante tutti i modi di rappresentazione americani che si discostano dalla mitopoiesi classica di una nazione in stile Capitan America e che diventano invece raffigurazione di tutto ciò che sta al di sotto di un’immagine perfetta – e che proprio in tempi recenti vacilla sempre di più. La serie televisiva Ozark, per esempio, è una di quelle rappresentazioni dell’essenza americana che non lasciano spazio a facili eroismi spettacolarizzati, e questo è solo uno dei tanti motivi per cui vale la pena recuperarla.
Non è un trend nuovo né recente, e non mancano di certo molti altri esempi di film, serie tv o romanzi che raccontano gli aspetti più malati e ipocriti della società statunitense, basti pensare a capolavori come Apocalypse Now o Taxi Driver o, parlando di teatro, opere come Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. L’America molto spesso dà il meglio di sé proprio quando esce fuori dal selciato confortevole del racconto pregno di soft power propagandistico e auto-celebrativo, e di recente, in piena quarantena, avevamo assistito a uno dei tanti esempi in cui è proprio questa astrazione dalla mitologia a rendere un prodotto così affascinante: Tiger King, il documentario sul folle allevatore redneck di felini selvatici, è un chiaro sintomo di quanto sia ormai inutile e ingenuo stupirsi del perché gli Stati Uniti abbiano eletto Donald Trump. Tra i filoni narrativi che includono questa rappresentazione del sommerso made in USA, non c’è dubbio che negli ultimi anni tra le serie televisive, che sono diventate la forma audiovisiva più popolare, abbia avuto un grande ruolo quello della storia criminale americana, espressa attraverso la vita di personaggi apparentemente estranei o che appaiono in contesti di normalità. I Soprano, serie imprescindibile e fondamentale per la consacrazione definitiva della formula seriale ma anche Breaking Bad, che è stata forse quella capace di far fare il salto definitivo al genere. In particolare, Breaking Bad – primo vero e proprio fenomeno cult delle serie tv, probabilmente spinto molto anche dalla presenza dei social che ne accrescevano l’appeal – è stata paragonata a Ozark sotto tanti punti di vista, uno su tutti il topos dell’uomo normale con una doppia vita.
La storia di Ozark si basa su un principio abbastanza semplice, la doppia morale di un uomo che in apparenza svolge un lavoro normale nell’ambito della consulenza finanziaria, con due figli di quindici e quattordici anni e una moglie – che scopriamo inizialmente fedifraga, ma nonostante questo molto legata a lui – che ha rinunciato alla sua carriera in politica per la famiglia. Un assetto classico di America bianca alto-borghese, progressista e ben inserita nella società di Chicago, che nasconde però il segreto di un grosso giro di riciclaggio di denaro che proviene da un cartello messicano. Marty Byrde è l’uomo che serve alla criminalità organizzata per pulire gli enormi guadagni provenienti dallo spaccio di droga proprio per questa sua normalità incasellata, che si manifesta nella sua apparente appartenenza a un sistema pulito e onesto in qualità di semplice ingranaggio. Ma è soltanto apparenza, Marty ha deciso di vivere una doppia vita, e le conseguenze di questa scelta sono chiaramente il fulcro dello sviluppo della trama. Un investimento di riciclaggio sbagliato, che fa massacrare i colleghi e per poco non costa la vita a Marty, porta l’intera e ignara famiglia a doversi trasferire nel Missouri, a Ozark appunto, un’area lacustre e boschiva in cui apparentemente non succede nulla, ma regnano tossicodipendenza, criminalità, emarginazione sociale e rednecks. L’obiettivo è quello di riciclare in tre mesi otto milioni di dollari del cartello messicano, ma è solo l’inizio di una lenta e graduale valanga di eventi che colpiscono la famiglia Byrde, gli abitanti del luogo, le altre criminalità locali – sia piccole che al pari del cartello – e che si susseguono in modo tanto lento da sembrare omeopatico, niente del classico parossismo ad alta tensione e proprio per questo motivo molto più inquietante e coinvolgente.
Ozark, più che un terremoto o un vulcano che esplode, è un fiume che lentamente scorre, arriva alla diga e si infiltra tra le sue crepe fino a farla crollare: ogni istante è un momento in cui la normalità di una famiglia, i problemi di una coppia, la crescita di due adolescenti e qualsiasi altro elemento quotidiano si intrecciano con una rete fitta e complicata di causa ed effetto. Che altro non è se non anche la spiegazione più logica alla banalità del male che coinvolge i suoi protagonisti, dal momento che ti viene sempre da chiedere il perché di una scelta simile, il perché di un rischio talmente grande da intraprendere che non varrebbe mai la pena, specialmente se sei una persona come Marty Byrde, razionale, intelligente, calmo e dotato di grandi capacità di calcolo e previsione. E invece la vita non funziona così, il bene e il male non sono due concetti così chiari e distinti come invece la morale americana vuole spesso far credere, specialmente nei suoi film con i chiari ruoli di buoni e cattivi, ed è ciò che spiega Wendy in un momento particolarmente toccante della seconda stagione, quando si trova di fronte a una persona innocente che per colpa sua e di suo marito ha perso tutto: se Adamo ed Eva hanno mangiato quella mela forse è perché non avevano altra scelta. Oppure, come si vede in modo più chiaro nella terza stagione, quando le cose sembrano finalmente aver raggiunto uno stato di calma, il male si mescola con le ambizioni personali, come succede quando Wendy vuole a tutti i costi forzare una situazione che invece sembrava potesse risolversi con una tanto attesa fuga dei Byrde. Nonostante ci sia l’occasione per uscire dal giro criminale che mette a rischio tutta la famiglia, Wendy riattiva un circolo che si era quasi spezzato, forse proprio per sublimare la frustrazione di una donna intelligente e ambiziosa che ha rinunciato a tutto per i figli. Figli che, per tutte e tre le stagioni si alternano tra il ruolo di aiutante e quello di ostacolo per Marty e Wendy, e che inevitabilmente cominciano ad assumere autonomia.
I Byrde, per scelta, per caso, per obbligo, per minaccia, si trovano sempre più a fondo nei rapporti con il cartello, con la criminalità locale dei produttori di oppio redneck, fedeli alle loro leggi primordiali e violente, ma anche con la piccola e quasi ridicola criminalità di una famiglia di disgraziati, poveri ladruncoli zotici, dal quale viene fuori un altro personaggio femminile molto ben fatto, ossia quello di Ruth Langmore – ruolo con cui l’attrice, Julia Garner, ha tra l’altro vinto un Emmy. Ogni passo in avanti verso l’abisso del loro coinvolgimento con i piani sempre più alti della criminalità organizzata è un indizio dei titoli di testa che includono per ogni episodio quattro elementi che saranno la chiave per lo sviluppo della trama che si articola in questo modo con una direzione sia verticale che orizzontale: mentre la storia principale va avanti, si aggiungono sempre più pezzi dall’esterno che creano questo effetto valanga irrefrenabile ma soprattutto irreversibile. E ci sono tutti i temi della società americana: c’è la polizia con i suoi agenti federali, c’è la mafia locale e la mafia straniera, c’è il veterano di guerra, il pastore, la tossicodipendenza, l’ignoranza, la violenza, i soldi e il loro valore astratto riconducibile al potere ma anche molto materiale, la politica e il suo coinvolgimento nella corruzione ma soprattutto l’ipocrisia della famiglia intesa come nucleo centrale ma che in questa serie diventa piuttosto l’origine del male.
Sebbene ci siano tanti punti in comune e sebbene Breaking Bad sia a tutti gli effetti una pietra miliare delle serie tv, piaccia o meno, Ozark riesce a fare un passo più in là rispetto alla serie di Walter White e Jesse Pinkman per alcune ragioni, una su tutte la presenza di personaggi femminili molto più interessanti. In Breaking Bad infatti, è celebre il ruolo fastidiosamente insopportabile che ricopre Skyler, la moglie di Walter che si oppone in modo molto poco empatico ai piani folli del marito. Già dall’inizio della serie però, se Skyler in teoria dovrebbe rappresentare “la legge”, il bene che si oppone al male, questo personaggio viene caratterizzato da una serie di atteggiamenti oltremodo antipatici, come il fatto che nonostante la malattia del marito continui a pretendere da lui una perfetta salute mentale. In Ozark, in cui abbiamo un assetto familiare simile, una famiglia bianca americana standard che a differenza dei White però è molto più ricca e borghese, la moglie del protagonista, Wendy, non è solo una spalla o un ostacolo per i piani criminali del marito ma un soggetto pensante, autonomo, con dei tratti che ricordano semmai un altro personaggio femminile molto famoso di un’altra serie tv anche questa importantissima, ossia House of Cards. Wendy, infatti, per indole da stratega, assetata anche di comando e potere ma molto sicura e consapevole della sua enorme intelligenza specialmente in ambito politico, ricorda Claire Underwood, la moglie di Frank Underwood che surclassa il marito e da first lady diventa presidente. Tutto ciò in Ozark è reso possibile da una miscela di criminalità organizzata e racconto delle sue realtà capillari nella società americana, periferia estrema e politica: Marty e Wendy Byrde sono infatti una delle tante coppie statunitensi che abbiamo visto al cinema o in una serie tv. Non sono né sregolati e contraddittori come i White, né potenti e affascinanti come gli Underwood, ed è proprio per questa normalità silenziosa che diventano due protagonisti così interessanti.
Ozark è una serie da guardare per tanti motivi: perché è recitata davvero bene – i due protagonisti, Jason Bateman e Laura Linney, insieme a tutti gli altri attori sono molto, molto bravi – e perché ha una colonna sonora bellissima, ma anche una regia e una fotografia degne di nota. Si tratta di tre stagioni che creano con costanza e gradualità un universo paradossale ma non inverosimile in cui ogni azione ha una reazione, sia nell’intimità della vita di una famiglia sia nel loro modo di inserirsi nella società. Perché la società è a tutti gli effetti un insieme di tante famiglie, e le decisioni di una possono influire non solo sulla vita degli altri ma sul benessere o il malessere di un’intera comunità. Ozark racconta proprio questo equilibrio delicatissimo tra personale e pubblico, tra individuo e collettività che nel caso dell’America, e del modo in cui si racconta, spesso si struttura su una doppia morale che, proprio grazie a questo tipo di narrazione così cruda e cinica, riesce a venire allo scoperto, senza il filtro ipocrita della rappresentazione patinata a stelle e strisce.