“Orlando, My Political Biography” è un invito a cambiare e a lasciarsi trasformare dal tempo - THE VISION

Fu all’età di quindici o sedici anni che lessi per la prima volta Orlando, di Virginia Woolf. Nonostante la mia ossessione per le copertine belle, del romanzo trovai una vecchia copia mangiata ai margini, l’illustrazione tanto consunta da risultare poco chiara. Per contrappasso, negli anni ne ho comprate altre cinque o sei edizioni, questa volta scegliendole solo per l’impaginato diverso, per la bellezza di una foto o un disegno, senza curarmi che fossero in lingue in cui a malapena sarei riuscito a decifrare anche il titolo. Mi sembra anzi significativo che Orlando viva, per me, proprio in questo contrasto: a un nobile inglese, prediletto della regina Elisabetta I, amante della solitudine e della poesia, che attraversa i secoli senza mai invecchiare, svegliandosi di colpo, dopo un sonno lungo sette notti, nel corpo di una donna, non si addicono che parole nuove o sconosciute, traduzioni personali, mutanti e inventate. Anche Paul B. Preciado, filosofo e scrittore spagnolo, racconta di aver letto il romanzo alla mia stessa età, tra i quattordici e i quindici anni, trovandolo nella lista dei testi suggeriti dalle suore nella scuola che frequentava. Fu una folgorazione, tanto da rendere il libro quasi un talismano. Il titolo completo che Woolf diede all’opera è Orlando, una biografia – non un romanzo. “Se questa è la biografia di una vita, allora la mia vita è possibile”, ricorda di aver pensato Preciado, raccontando di come, pur non avendone consapevolezza, all’epoca fosse già un bambino trans e non binario. Non è un caso che il suo primo film da regista sia quindi non solo una lettera cinematografica a “quella stronza di Virginia Woolf”, come dichiarano i primi secondi del documentario, ma una biografia politica: Orlando, ma biographie politique, disponibile in esclusiva su Mubi Italia.

Prodotto da Arte Tv France, selezionato dalla Berlinale nel 2023 e vincitore di un Teddy Award, Orlando, ma biographie politique mescola stralci del romanzo ai racconti in prima persona di circa venticinque Orlando, persone trans e non binarie che intrecciano le parole di Woolf alle proprie testimonianze. Sono adolescenti, bambini e adulti, sono tutto e il suo contrario e ognuno indossa al collo una gorgiera, il colletto bianco pieghettato simbolo dell’abbigliamento aristocratico tra Cinquecento e Seicento. “Guarda i tuoi Orlando, non sono vissuti come aristocratici e poeti”, dice Preciado. “Sono stati ridotti a pazienti psichiatrici”. Eppure, pur raccontando e riconoscendo le varie difficoltà – burocratiche, mediche, sociali – che oggi ostacolano la vita delle persone trans, nessuna si sente, si presenta o è mai raccontata come vittima. Sono pienamente coscienti di sé, del proprio potere, della necessità di raccontare la propria storia per sopravvivere alla violenza. Così, mentre portano avanti la storia del libro, leggendola e mettendone in scena alcuni momenti, ciascuna si fa avanti, dice il proprio nome, e poi aggiunge “e sono Orlando, di Virginia Woolf”. 

Sono un gruppo di persone diverse, di generazioni differenti e con modi completamente disuguali di essere Orlando. Alcune non sono binarie, altre prendono ormoni, altre ancora cambiano il proprio nome. È una biografia collettiva, capace di parlare a tutti e a tutte, non solo alle persone trans, ma a chiunque viva in mutamento. E probabilmente, nella nostra società, sono in pochi a non farlo – che lo si voglia direttamente o meno. Guardando il documentario attraverso la lente del suo titolo, infatti, scopriamo che la necessità di essere riconosciuti come soggetti politici ci riguarda tutti. Come spiega Preciado in un’intervista: “La dimensione politica delle nostre biografie cambia costantemente. Ciò significa che, per esempio, pensi di avere il pieno riconoscimento politico, ma poi un giorno ti ammali e questo cambia, non ce l’hai più. Oppure vieni licenziato, o sei costretto a emigrare, o cambia il governo – come è successo in Italia –”, continua, “e improvvisamente perdi ciò che davi per scontato. La biografia non è stabile e l’identità non è solida come immaginiamo: sono sempre minacciate da condizioni politiche che cambiano di continuo”.

Lungo tutto il film, oltre ai richiami woolfiani, c’è un elemento particolarmente interessante che lega la storia dei e delle varie Orlando: i passi necessari per la metamorfosi della soggettività. Non è solo una questione fisica e afferente al sé, ma comunitaria, relativa al modo di concepire e trasformare il mondo. Il primo passo è la “poesia”, in questo caso intesa come la possibilità di cambiare nome a tutte le cose, anche a se stessi. Molto spesso, infatti, oltre le parole “maschio” e “femmina” non esiste un vocabolario per descrivere il genere della persona che si vorrebbe essere. Vivere in un luogo dove mancano le parole per parlare di sé e dell’Altro, del presente e del futuro, significa essere poeti nostro malgrado. Il secondo è l’amore, non a caso Orlando è prima di tutto una lettera d’amore scritta da Woolf alla sua amante, Vita Sackville-West. Il terzo – con l’esilio della cultura – la creolizzazione, ovvero il processo di ibridazione e semplificazione subìto da una lingua quando è usata da parlanti di lingua madre diversa, tipico dei processi coloniali o di globalizzazione, ma che qui mi sembra venga recuperato con lo stesso spirito con cui fu coniato dallo scrittore e poeta francese Édouard Glissant, quando scriveva in Poetica del diverso che per non rendere bastardo e ingiusto l’incrocio fra culture e gruppi etnici diversi serve che gli elementi di entrambi che mettiamo a confronto non si sminuiscano a vicenda ma accolgano l’Altro. Cambio dallo scambio.

Guardando Orlando, ma biographie politique, mi è stato impossibile non pensare a quanto circonda la storia della scrittura del romanzo. Come per Preciado, seppur in modo diverso – mi verrebbe da dire, forse, per una questione meno di sopravvivenza – anche la mia ossessione per Virginia Woolf ha finito per intrecciarsi involontariamente alla scoperta della mia identità. Fu all’inizio dell’ottobre 1927 che, quasi per gioco, Woolf annunciò a Sackville-West, di cui si era innamorata, di aver deciso di scrivere un libro su di lei, intitolato appunto Orlando. “Supponi che Orlando si riveli essere Vita; e che sia tutto su di te e sulla sensualità della tua carne e sulle lusinghe della tua mente (cuore non ne hai, tu che corteggi la Campbell per i vialetti)… Ti darebbe fastidio? Dì sì o no”. Sackville-West ne fu elettrizzata e così il romanzo divenne per Woolf un modo di indagare il passato della donna e trascorrere più tempo insieme. L’estate successiva Orlando fu terminato e venne pubblicato l’11 ottobre del 1928, ottenendo il plauso unanime dei critici e facendo subito riconoscere in Vita il modello su cui era stato ideato il protagonista. “Ho vissuto in te per tutti questi mesi – ora che ne esco, tu chi sei in realtà? Esisti? Ti ho inventata io?”, scrive Woolf in una lettera. Il romanzo fu rivoluzionario per la storia che raccontava, pensando agli anni in cui vide la luce, e secondo diversi studiosi sarebbe il primo vero romanzo inglese trans. Orlando, svegliandosi, si scopriva donna con facilità, senza drammi, perdendo sì i privilegi con cui aveva vissuto come principe fino ad allora, ma abbracciando la possibilità di scoprire il mondo attraverso occhi diversi.

Più che sull’identità, però, il documentario di Preciado si pone come una riflessione sulla de-identificazione, la liberazione da qualunque normatività o necessità di definirsi, che non coinvolge solo le persone LGBTQ+. È il valore politico dell’utopia, la possibilità di desiderare, immaginare, strutturare un orizzonte altro che superi il presente in cui ci ritroviamo invischiati, da cui inevitabilmente, per la sua organizzazione – economica, sociale, culturale – ci troviamo schiacciati. È il rifiuto del qui e ora quando questo non ci sembra abbastanza. Qualcosa ci manca, possiamo cambiarla. È un mondo orlandesco ciò a cui possiamo aspirare, rendendo ogni storia individuale una collettiva. Ripensando alla vita vissuta, è facile accorgersi di come ciò che la renda degna di non abbandonarla non siano le scene descrittive che ritroviamo nei libri e sembrano rendere degna una biografia, né la schiavitù dell’esistenza quotidiana a cui tutti, con pesi diversi, siamo inevitabilmente soggetti. È la capacità di cambiare, di trasformarsi nel tempo e di lasciarsi trasformare da esso, di riconoscere di averlo fatto, e come. Di accorgersi, in ultimo, di non essere diventati solo un’altra persona, ma di essere stati tante cose, a volte da sole, spesso tutte insieme, senza che la metamorfosi di sé, di ciò che siamo, non si cristallizzi in un presente ma non abbia mai fine.  


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