“L’Ombra di Caravaggio” racconta la genialità inquieta di chi ha rivoluzionato l'arte pittorica - THE VISION
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È il 21 aprile 1951 quando nelle sale di Palazzo Reale, a Milano, inaugura la celebre mostra Caravaggio e i caravaggeschi, che in tre mesi, secondo le cronache, raccoglierà oltre 400mila visitatori. Composta da 193 opere, l’esposizione è la prima grande monografica mai realizzata al mondo su Caravaggio e si propone di travalicare i confini della vita del pittore cercando di tracciare un percorso che includa anche i suoi predecessori e l’eredità lasciata alle successive generazioni di artisti. A selezionarne le opere, insieme a una commissione di grandi studiosi, è stato Roberto Longhi, uno dei più grandi critici e storici dell’arte del Novecento, nominato per l’occasione “commissario esecutivo”. Tra originali, attribuzioni, copie, scuole, anonimi e seguaci, con i suoi scritti Longhi ha sempre cercato di rivoluzionare la concezione di allora su Caravaggio.

Utilizzando una metafora particolarmente calzante, lo definiva “non il portiere di notte, l’ultimo pittore del Rinascimento, ma il primo pittore dell’età moderna”. L’esposizione, infatti, rappresentò il culmine della rivalutazione di Caravaggio, fino ad allora relegato nell’oblio della storia dell’arte. Nicolas Poussin, tra i principali riferimenti per gli artisti classicisti fino alla fine del Settecento, lo aveva liquidato come uno “venuto a distruggere l’arte”; Giovan Pietro Bellori, il più importante storiografo d’Italia nel Seicento, nello scriverne la biografia aveva invece sentenziato che “non erano in lui né invenzione né decoro né disegno né scienza alcuna della pittura mentre, tolto dagli occhi suoi il modello, restavano vacui la mano e l’ingegno”; lo stesso Goethe, nel resoconto del suo viaggio in Italia tra il 1786 e il 1788, non lo citò nemmeno una volta. Dopo la sua riscoperta, a concorrere alla fama di Caravaggio sono state anche diverse opere culturali, come lo sceneggiato Rai con Gian Maria Volonté o il fumetto La tavolozza e la spada di Milo Manara. Oggi, il pittore torna al cinema con L’Ombra di Caravaggio, il quattordicesimo film da regista di Michele Placido (che vi compare anche come sceneggiatore e attore), nelle sale dal 3 novembre, dove Michelangelo Merisi, questo il vero nome dell’artista, è interpretato da Riccardo Scamarcio e affiancato da un cast internazionale, in cui appaiono Isabelle Huppert, Alessandro Haber, Lolita Chammah, Louis Garrel e Micaela Ramazzotti.

A decretare la rimozione dell’opera di Caravaggio poco dopo la sua scomparsa fu il carattere di rottura dei suoi dipinti: sfidando i dogmi della Chiesa, si lasciava ispirare da mendicanti, prostitute, ladri, dalle classi meno abbienti, per dare un volto a santi e madonne, rappresentandoli in maniera scomposta, fin troppo umana e realistica per i canoni dell’epoca, privi quindi degli attributi mistici da cui sarebbero dovuti essere accompagnati secondo il canone. Ne La vocazione di San Matteo, per esempio, Caravaggio rompe totalmente con il passato, dipingendo un episodio sacro nel presente: i cinque uomini sulla sinistra, seduti attorno al tavolo, indossano abiti contemporanei e l’ambientazione è quella di un’osteria dell’epoca, perché la redenzione, soprattutto per Caravaggio, non poteva che essere un fatto attuale. In una sorta di proto-neorealismo, Caravaggio si fece portatore di una nuova visione religiosa, rivoluzionaria, dove il racconto delle storie bibliche passava per la raffigurazione degli ultimi e la luce e il chiaroscuro definivano la realistica drammaticità dei soggetti rappresentati. Non gli interessava selezionare dalla visione della natura solo le forme ottimali, l’ordine e l’armonia, ma riprodurre la realtà così com’era, con difetti e brutture comprese. Osservare una sua tela significa accettare un mondo che comprenda la malattia, la violenza, il disfacimento, la morte.

Oltre a rigettare i canoni estetici imposti dalle committenze dell’epoca e prendere le distanze dagli stessi maestri da cui attinse per la propria formazione, Caravaggio visse una vita tormentata e inquieta, che alimentò il mito del pittore maledetto e del genio solitario. Venne spesso arrestato per rissa, offese alle guardie cittadine e possesso di armi, poi accusato di aver tirato addosso a un garzone d’osteria un piatto di carciofi, ricercato per aver ferito gravemente un notaio – rivale in amore – e querelato per non aver pagato l’affitto. Il fatto più grave avvenne però nel 1606, quando colpì mortalmente Ranuccio Tommasoni da Terni, con cui già in precedenza aveva avuto delle discussioni e si trovò quindi costretto a fuggire a Malta e poi a Napoli. Un evento che influenzò anche il suo stile: i colori si fecero più cupi, le ombre più intense, le composizioni più affollate e i soggetti più drammatici. In un certo senso, nella combinazione di mito, sregolatezza e rivoluzione che lo avvolge, Caravaggio, al pari di Mozart per la musica, è stato una sorta di rockstar ante litteram. Almeno così è come ci appare ne L’Ombra di Caravaggio, dove accanto al racconto della sua vita e in particolare del suo peregrinare da un luogo all’altro, Placido inserisce un grande elemento di finzione, l’Ombra, un fidato uomo dei servizi segreti della Santa Sede, chiamato da Papa Paolo V a indagare sull’artista per stabilire se concedergli o meno la grazia che richiede da tempo per l’omicidio commesso.

 

La prima idea del film venne a Placido nel 1968, quando arrivato a Roma all’età di ventidue anni fu profondamente suggestionato dalla città e dalla sua storia che, unitamente alla vicenda di Giordano Bruno, contemporaneo di Caravaggio, spesso si inserivano nelle discussioni con i colleghi dell’Accademia d’Arte Drammatica, alimentando idee di progetti che avevano come sfondo l’epoca in cui i due emblematici personaggi erano vissuti, e mettevano in scena storie mosse dalla repressione del dissenso e di qualsiasi progresso di allora. A cavallo tra Cinque e Seicento, infatti, Roma era diventata il centro del mondo ma ben incarnava il dramma della Storia: se le famiglie migliori della città facevano a gara per collezionare le opere di Caravaggio, il quale era ben voluto anche da alcuni cardinali, contro il suo talento si stagliava il clima culturale della Controriforma e del Santo Uffizio dell’Inquisizione, che con sistematicità e rigore reprimeva violentemente le eresie e controllava l’ortodossia. D’altronde, l’Ombra del film non è solo un personaggio, ma un’essenza che dai rami più rigidi della Chiesa si muove per reprimere la rivoluzione scientifica e ogni visione che non coincide strettamente con quella che veniva considerata appartenere a Dio. Un velo che che agguantava, ricopriva le cose e la gente, e contro cui gli artisti – almeno coloro che riuscivano a sfuggirne – sentivano di avere un dovere. “Un pittore deve essere libero per poter dipingere, perché i pittori hanno una responsabilità verso il popolo”, dirà Caravaggio in una scena del film, mentre si trova a difendere le proprie tele considerate sacrileghe. 

Il fascino della storia di Merisi non deriva soltanto dall’uomo che era, dai suoi rapporti con gli ultimi (“Amava dipingere il vero, il dolore dell’umanità, i poveri cristi che popolano la notte”, racconta la marchesa Costanza Colonna, sua protettrice), ma anche dal suo peregrinare incessante da un luogo all’altro. Nato a Milano, fu più romano di molti romani prima di fuggire a Napoli. Proprio questa chiave narrativa è centrale nel film di Placido, non tanto – o almeno non solo – nel suo determinare il procedere degli eventi, ma perché gli ambienti, ne L’Ombra di Caravaggio, non sono mai solo uno sfondo, ma un potente elemento espressivo, capace di delineare con chiarezza i diversi strati e le varie classi sociali a cui il pittore era solito unirsi: luoghi sporchi e ben lontani dalla tentazione di una rappresentazione iconografica o patinata. Una ricerca che si riflette anche negli oggetti di scena e nei costumi: Caravaggio, per esempio, è sempre sporco, di vernice o sporcizia, sugli abiti, sotto le unghie, tra i capelli, cosa che appare in netto contrasto con la pulizia e il rigore che invece caratterizzano i personaggi del clero e della nobiltà. Ambientazione, abiti e oggetti contribuiscono così a restituire appieno la dimensione terrena, umana, dolorosa e carnale del pittore e del suo tempo.

Il mondo dell’epoca, come quello di oggi, era d’altronde un universo variegato, in cui ai ceti più alti si contrapponeva la vita degli umili – prostitute, ragazzi di strada, popolani – a cui non era concesso essere ritratti, ritrovarsi nei quadri, se non fino a quando Caravaggio ne sovvertì i canoni. Placido porta in scena due momenti molto significativi per raccontare ciò che per Merisi significava la pittura, il suo rapporto con il vero: in uno, Lena, una cortigiana con cui ebbe una relazione e il cui volto venne utilizzato per realizzare alcune Madonne, si difende dall’Ombra che la accusa di essere solo una donna di facili costumi ricordando il modo in cui il pittore la fece sentire vista, “Sono una puttana, è vero, ma con il talento di Caravaggio sono stata anche la Madre di Dio”; in un altro, il regista ricostruisce la realizzazione de La morte della Vergine, per cui Merisi prese a modello una cortigiana annegata nel Tevere, che aveva conosciuto, per dipingere i tratti di Maria. Dopo averla portata in studio, le si stende accanto, la lascia pulire dalle amiche, la veste di rosso, simbolo della passione, e poi la mette in posa: le caviglie scoperte, l’incarnato verdognolo, il ventre gonfio, segno palese di una gravidanza. Un’iconografia che non rispettava il modello tradizionale e che per questo porterà la tela a essere allontanata dalla Chiesa, ma che è capace di raccontare la veste terrena della Madonna.

A emergere prepotentemente come protagonista assoluta da L’Ombra di Caravaggio, forse in un gioco voluto di richiami semantici, è la luce, con cui la fotografia, curata da Michele D’Attanasio, gioca per disegnare e creare, come se ogni scena, ogni immagine che si sussegue davanti agli occhi dello spettatore, potesse ambire a simulare una tela del Merisi, certo privata della sua visione religiosa, ma non per questo meno potente, capace di mantenerne la forza del chiaroscuro e della tensione che luci e ombre sanno costruire, producendo una sintesi perfetta tra l’estetica cinematografica e l’opera del Caravaggio. Non poteva essere diversamente per il film su un pittore che, secondo molti, arrivò ad anticipare, con i suoi dipinti, la fotografia, usando la luce a mo’ di scalpello. Una luce – soprattutto quella della verità e della libertà degli artisti – che Merisi non smise mai di cercare e inseguire, anche con la sua stessa morte.

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