Il sacrificio di Giordano Bruno ci ricorda di anteporre la ragione alle convinzioni infondate - THE VISION

A Roma, James Joyce visse non lontano da dove, il 17 febbraio del 1600, Giordano Bruno venne arso vivo per ordine del tribunale della Santa Inquisizione e disseminò l’Ulisse di riferimenti su questo personaggio rivoluzionario. In uno dei momenti più onirici del libro, Leopold Bloom rischia la sua stessa fine perché ha promesso in modo simile: “Mondi nuovi per rimpiazzare i vecchi. L’unione di tutti, ebrei, musulmani e gentili… Un’amnistia generale… libero amore e una chiesa libera e laica in uno stato libero e laico”.

Il poeta Trilussa, che della capitale era figlio e in qualche modo portavoce, secoli dopo riassunse la storia e l’importanza del filosofo in pochi versi di un componimento a lui dedicato: “Fece la fine de l’abbacchio ar forno perché credeva ar libbero pensiero, perché se un prete je diceva: – È vero – lui rispondeva: – Nun è vero un corno”. La libertà di poter avere un’opinione controcorrente e di contraddire il punto di vista dei potenti fu quella per cui Giordano Bruno si batté e morì perché per lui valeva “più di tutte le altre”.

Era inevitabile che questa voglia di esprimere il proprio pensiero senza dover rispettare poteri e fare attenzione a obblighi formali e certezze considerate inscalfibili lo portasse a diventare nemico della Chiesa di allora. Come emerge dalla prefazione agli Articuli adversus mathematicos, per Bruno non avevano senso “i dogmi, le cerimonie o le sottigliezze teologiche”: dal suo punto di vista, per far funzionare tutto in armonia sarebbe stato bastato non fare agli altri ciò che non volessimo fosse fatto a noi, evitando sempre di porsi in una posizione di superiorità. Il mondo in cui auspicava di vivere Giordano Bruno era un universo infinito e senza confini in cui si realizzava la coincidentia oppositorum – teorizzata da Niccolò Cusano, un altro grande pensatore, teologo, astronomo e matematico – e in cui nessuna differenza (neanche di pensiero) veniva censurata o stigmatizzata. Nel De gli eroici furori, Bruno chiariva come tale armonia si realizzasse non “dove un essere vuol assorbire tutto l’essere, ma dove c’è ordine e analogia di cose diverse, dove ogni cosa serve la sua natura”.

Secondo Bruno per vivere in armonia è necessario incoraggiare le diversità e sospettare di chi vuole imporre un solo punto di vista sulle cose: il pensiero unico e la tendenza a omologarsi erano di fatto i grandi nemici della sua idea di libertà e giustizia.  “È stoltissimo credere per abitudine, è assurdo prendere per buona una tesi perché un gran numero di persone la giudica vera”, ricorda denunciando i pericoli di un mondo che, al pari di quello di oggi, restava per comodità arroccato sulle stesse posizioni comuni. In questo senso, va ricordato che il  cristianesimo di cui aveva paura Giordano Bruno era quello che, attraverso i dogmi, il suo potere secolare e l’influenza che aveva sulla scienza, assoggettava l’uomo e gli imponeva cieca obbedienza e sottomissione. Un tipo di religione simile impone all’umanità di trasformarsi in un gregge inerte, che non si cura delle cose del mondo o, peggio, ha timore di quello stesso mondo e per questo non fa nulla di concreto per cambiarlo, nella speranza di guadagnarsi attraverso la propria immobilità un paradiso che gli viene promesso dal sistema: l’unico destino possibile per le persone d’allora era d’altronde quello di perdersi nell’estasi della contemplazione di Dio, e di non dare fastidio con scoperte che avrebbero rivoluzionato la concezione della natura, dell’universo e di Dio.

Giordano Bruno

Se sfruttata come strumento per uniformare le masse allo stesso modo di pensare e scoraggiarle al cambiamento e all’azione diretta, la religione finisce per alimentare la spinta a conformarsi e porta a gravi danni tra cui l’abitudine comune a considerarsi come soggetti passivi e impossibilitati ad agire sulla realtà. In realtà, ci dice il filosofo, anche le grandi trasformazioni politiche e sociali non vanno attese come se fossero da attribuire sempre e solo a cause indipendenti dalla nostra volontà: qualunque evoluzione rimane il frutto di cambiamenti che nascono dal lavoro di uomini in grado di operare insieme guidati da un’idea comune. Chi parla dell’esistenza di una ragione superiore per cui accadrebbero le cose sposa questa convinzione solo per proprio vantaggio, o perché non desidera assumersi le proprie responsabilità. È questa stessa pigrizia d’altronde che spinge molti a “cattivare l’intelletto a colui che gli monta sopra et, a sua bella posta, l’addirizza e guida”, rinunciando così alla propria emancipazione come individui in cambio dell’effimera sicurezza garantita dall’affidarsi a chi gestisce già il potere.  

Una tale rassegnazione va evitata per non rischiare di finire in uno stato di perenne immaturità che ci impedisca di pensare autonomamente, senza bisogno di qualcuno che decida per noi. L’essere umano deve credere nella sua possibilità di autodeterminarsi e non può accontentarsi di essere come coloro “che nel corpo han la catena che le stringe […] ne la mente il letargo che uccide”. Nel De immenso et innumerabilibus, Bruno scrive che l’uomo non deve avere paura di emanciparsi perché “le ali della sua libertà” non sono fatte di cera come quelle di Icaro ma, al contrario, sono costruite da ragione e da intelligenza. La libertà di agire dell’uomo può modificare il corso degli eventi. Per questo, prenderne coscienza è il primo passo per uscire dalla sudditanza nei confronti di chi mantiene il potere con la paura.

Nello Spaccio della bestia trionfante, Bruno avanza l’ipotesi modernissima che l’affermazione della dignità di ognuno passi per forza attraverso il riconoscimento dei  suoi diritti sociali e l’annientamento di un sistema che garantisce la gestione del potere nelle mani di pochi. Per il filosofo, è fondamentale vengano garantite a chiunque le stesse possibilità di realizzazione personale: “Non è possibile che tutti abbiano una sorte; ma è possibile ch’a tutti sia ugualmente offerta”. Se ciò non accade la colpa è dei padroni, contro cui Giordano Bruno si scaglia rivolgendocisi direttamente: “Non fate tutti equali e avete gli occhi delle comparazioni, distinzioni, imparitadi ed ordini, con gli quali apprendete e fate differenze. Da voi, da voi, dico, proviene ogni inegualità, ogni iniquitade”.

Per cambiare le cose è fondamentale che il filosofo, inteso come chi cerca di comprendere e fare un passo avanti, non abbia paura di scardinare questo sistema ingiusto impegnandosi a rivestire in prima persona un ruolo nella sfera politica e sociale. Ciò non significa che il filosofo debba governare ma che faccia almeno il possibile affinché chi venga scelto in propria rappresentanza non sia un approfittatore o un furfante. Il fine ultimo di ogni legge e iniziativa politica deve essere in fondo sempre lo stesso: il raggiungimento della convivenza civile, che chiama “l’ottimo fine”. In questo senso quindi “Nessuna legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano, deve essere accettata. Non deve esser approvata, né accettata quella istituzione o legge che non apporta la utilità e commodità, che ne amena ad ottimo fine”.

Il filosofo che cerca di conoscere e comprendere per poter crescere, anche attraverso l’impegno politico, non va confuso con quegli intellettuali che si trasformano in “servili pedanti” e che assecondano per comodità il pensiero unico dei padroni. A questi, Bruno dà esplicitamente la responsabilità della decadenza della cultura: “La sapienza e la giustizia iniziarono a lasciare la terra dal momento che i dotti, organizzati in consorterie, cominciarono ad usare il loro sapere a scopo di guadagno. Da questo ne derivò che… gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi… e ai popoli”. Gli uomini di cultura che si accontentano di stare nel sistema, pur sapendo che esso è sbagliato e andrebbe combattuto sono “la follia del mondo, la vanesia negazione del buon senso e della razionalità, con la loro riproposizione asinina dell’accumulo del già definito (magari eterno e rivelato), tanto funzionale al potere dominante a cui si vendono”. È facile trovare menti disposte ad abiurare per convenienza alle proprie convinzioni, “vanno a buon mercato come le sardelle”, scrive Bruno. Ma alla loro pigrizia e apatia, tanto intellettuale quanto morale, il Nolano contrappone il coraggio di pensare, di verificare e di discutere il frutto delle proprie riflessioni.

Giordano Bruno invita a non conformarsi né ad arrendersi alle storture del tempo in cui si vive: bisogna continuare a sentirsi “fastidito” da ciò che ci circonda, come lui dice di essere ne Il Candelaio . Solo questa voglia di lottare porterà al sovvertimento delle strutture di potere e all’annientamento di qualsiasi dogma. Nell’ultimo dialogo con Sagredo, il filosofo si dice però ottimista sul fatto che prima o poi questo accadrà: “Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare arti e scienze, porre i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa, improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di avere vinto”.

Come fa notare la saggista e giornalista Maria Mantello, Giordano Bruno venne mandato al rogo soprattutto “perché non voleva conformarsi e sottomettersi a Verità presupposte e assolute”. E non voleva farlo soprattutto perché sentiva di aver ragione e di essere nel giusto ma, come ricordava Voltaire facendo indirettamente riferimento anche a lui: “È pericoloso avere ragione in questioni su cui le autorità costituite hanno torto”.

Secoli dopo dobbiamo ricordare la figura di Giordano Bruno soprattutto per aver rivendicato la propria libertas philosophandi, intesa come il diritto a pensare liberamente, anche in un mondo dove questo veniva impedito in tutti i modi da un apparato di dogmi che sembravano indiscutibili, ma che in realtà servivano solo a pochi padroni per mantenere il proprio potere sul popolo, come ancora oggi accade.

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