Chi mi conosce lo sa. Io alle dieci e mezza di sera dormo. Vorrei tanto venire alle vostre feste, ma a me, intorno alle dieci, viene un sonno dolce, irresistibile. Come quello dei bambini.
Quindi, quando quella sera di dicembre 2011 Christian mi ha chiamato alle dieci e mi ha detto “Oh, figa (Christian è di Varese), devi assolutamente vedere questa serie!”, io sono rimasto un po’ così. Ero indeciso se rispondergli in malo modo, considerato l’orario, ma lui ha insistito: “Sono solo tre episodi. Parti dall’ultimo che è il più figo, tanto non c’entrano nulla uno con l’altro”. E va bene. Ero già a letto, ma ho comunque iniziato.
Quello che stavo per vedere era “The Entire History of You”, il terzo episodio della prima stagione di Black Mirror. Quella sera mi sono addormentato alle due di notte. Avevo visto tutti e tre gli episodi e, alla fine, mi ero messo a studiare, inquadratura dopo inquadratura, quel terzo episodio. Non c’era niente di lontanamente simile in televisione in quel periodo. Niente che potesse ricordare la sensazione di straniamento e disagio che quella mini serie trasmetteva nei suoi soli tre episodi. E dire che quello era l’anno di uscita di Game of Thrones, per capirci, o della quarta meravigliosa stagione di Breaking Bad. Non avevo idea di chi fosse Charlie Brooker e non avevo letto nulla su Black Mirror, potete quindi immaginarvi la sorpresa.
La mattina dopo mi sono alzato presto – perché sì, andando a letto alle dieci e mezza, alle sette sono già sveglio – e mi sono messo a studiare. Ho così scoperto che Charlie Brooker, il creatore della serie era un nerd di prima categoria. Negli anni novanta recensiva videogiochi sulle colonne di un magazine inglese, Pc-Zone. Lo stile di Charlie è acido, surreale e profano fin già in quelle prime recensioni, e quando approda al Guardian per una colonna di commento televisivo, devono addirittura sospenderlo per una battuta decisamente inappropriata nei confronti dell’allora presidente americano, Bush: “John Wikes Booth, Lee Harvey Oswald, John Hinckley, Jr. – where are you now that we need you?”.
Il primo passo verso il mondo di Black Mirror Charlie lo ha fatto aprendo un sito chiamato TvGoHome dove pubblicava una sorta di guida TV di programmi inventati, delle mini recensioni, surreali spunti per programmi televisivi fittizi dal carattere violento. Un esempio?
3:30 — Strapped to Your Dad
Troublesome teenagers strapped arm, leg and hip to their fathers in order to feel his erection rousing against them as he is shown wild pornography over their shoulder. (Degli adolescenti problematici si sono legati con delle corde ai propri padri così da sentire le loro erezioni contro la propria pelle mentre questi guardavano porno da dietro le loro spalle.)
L’idea era quella di prendere il mondo reality-factual che all’epoca stava esplodendo nella televisione inglese e ribaltarlo, violentarlo, renderlo un compendio delle nostre ossessioni e vanità. Questo stesso identico procedimento Brooker lo utilizza per quella che, secondo me, è la sua serie di documentari più riuscita. How Tv Ruined Your Life raccoglie sei mockumentary mono-tematici trasmessi da BBC Two e presentati dallo stesso Brooker. Seduto in un tipico salotto inglese, il nostro introduce il tema di puntata (paura, vita, aspirazioni, amore, progresso, conoscenza) e passa la mezz’ora successiva a dimostrarci, attraverso clip esemplificative, come la televisione abbia distorto la nostra concezione di quel tema, cambiandone per sempre il valore e il significato nella vita di tutti i giorni. Il corto circuito sta nel fatto che, insieme a veri programmi TV e film, Brooker inserisce spezzoni di programmi televisivi inventati, mai esistiti. Nonostante la finzione, la tesi portata avanti in ogni singolo episodio è assolutamente condivisibile: esacerbare il flusso televisivo serve semplicemente a rendere più evidente quello che la televisione fa dal momento in cui è stata creata, ovvero cambiare la nostra percezione della realtà.
Dopo il successo di TvGoHome, Brooker va da Channel 4 e propone l’idea di Black Mirror. Ma a Channel 4 hanno paura (!) che Brooker stia esagerando. Mi immagino il pitch del primo episodio: “Immaginatevi degli estremisti che rapiscono una figura della famiglia reale e costringono il primo ministro inglese a scoparsi in diretta tv un maiale. Cosa ne pensate? Eh?”. Immaginate lo stesso pitch fatto a Rai Tre. Per tenersi buono Brooker gli affidano la scrittura di un’altra miniserie, Dead Set, ambientata nella casa del Grande Fratello durante un’invasione zombie. Charlie fa il suo mestiere per bene e la serie riscuote un discreto successo. Si aprono così le porte alla prima stagione di Black Mirror.
La formula può apparire semplice, ma non lo è per niente. In ogni episodio viene preso un elemento che caratterizza la nostra contemporaneità tecnologica socio-culturale e portato alle sue estreme conseguenze. Nel primo episodio, “National Anthem”, quello del già citato sesso con maiale, l’elemento è la nostra irrefrenabile propensione al guardare, al dominio dell’occhio, inteso sia come mania di controllo di orwelliana memoria, sia come malsana curiosità. Non so se ce l’abbiamo solo in Italia, ma l’avviso “coda per curiosi” in autostrada davanti a un incidente è quanto meno emblematico. Gli studenti vedono video delle decapitazioni dell’Isis sui banchi di scuola: appena c’è una notizia parte la ricerca frenetica del video e, questo video, si trova sempre, perché ogni angolo della nostra vita è monitorato, quindi controllabile. Il secondo episodio, “Fifteen Milion Merits”, è una riflessione distopica sul mondo dei talent e su come gli elementi da format di un talent – la giuria, le prove, la selezione – possano, in un futuro non troppo lontano, irrompere nella nostra vita quotidiana trasformando le nostre scelte in un lungo e tremendo live di X Factor. Molti dicono che questo sia un episodio poco riuscito. Sicuramente dei tre della prima stagione è quello meno emozionante, ma rimane comunque un’ora di televisione superba. E poi c’è il capolavoro: “The Entire History of You”. Il dramma della gelosia nell’epoca del visivo, del social, del rec continuo. Ogni singolo giorno, quando Facebook mi manda una notifica con il fatidico “Accade Oggi”, mi ricordo di Black Mirror e di quando avevamo la possibilità di dimenticare. Non voglio ricordare cosa accadde esattamente oggi sette anni fa, lasciate che le nostre memorie siano tali, lasciate che Toby Kebbel non possa scoprire il tradimento di Jodie Whittaker, perché quello vive nel passato, dove le possibilità del futuro si esauriscono nelle scelte che faremo. E invece no, Charlie Brooker ci mette in testa un chip, chiamato grain e ci permette di accedere all’intera storia di noi stessi, condannandoci all’assenza di oblio, alla continua messa in discussione delle nostre vite.
Ho aspettato la seconda stagione di Black Mirror come aspettavo i regali di Santa Lucia da bambino. E io, che raramente posto qualcosa sul mio Facebook, ho tempestato i miei “amici” di trailer e frasi eccitate per l’uscita, nel 2013, di altri tre episodi. Quando ho avuto finalmente tra le mani la prima puntata mi sono seduto e sbam: “Be Right Back”. Una coppia viaggia verso una nuova casa, l’inizio di una vita insieme. Poi lui si rimette in macchina, ha un incidente e muore. Succede, è tremendo, ma succede. In Black Mirror però, viene offerta alla compagna la possibilità di ritrovarlo, di ricostruirne prima la voce, poi il corpo, attraverso l’assembramento di un’identità tramite i dati lasciati dal defunto nel cloud dei social. Quante tracce di noi abbiamo postato in internet da quando abbiamo avuto accesso alla rete? Quanti nostri messaggi vocali, immagini, video abbiamo seminato in questi anni? Non potrebbero essere abbastanza per ricostruire un’immagine di noi stessi?
Credo che il sogno di chiunque abbia perso una persona a cui tiene sia quello di poter aver la possibilità di un ultimo contatto, di un’ultima parola. Dire quella frase, quel ti voglio bene, mi manchi, che non si ha avuto la chance di proferire. Brooker lo rende possibile e in più si chiede: e cosa succede se la persona artificiale che hai ricreato, vuole rimanere nella tua vita? Cosa succede se, ovviamente, non è come la persona che amavi? La risposta è amara, feroce e inaspettata. Gli altri due episodi della seconda stagione non sono al livello di questo, ma vale comunque la pena guardarseli bene, non fosse altro che la tesi di “The Waldo Moment”, in Italia, si è realizzata davvero, portando un comico a dominare la scena politica.
Senza preavviso è poi arrivato lo speciale di Natale, “White Christmas” che, molto probabilmente, è il miglior episodio in assoluto di Black Mirror. Ci sono almeno tre livelli di storia in “White Christmas”, ognuno dei quali è meglio del precedente. In questo speciale, che dura più di un’ora, Brooker gioca con le vite di due uomini sostanzialmente soli e un po’ miseri. Alle due storie applica le possibilità di un mondo in cui i gesti tipici dei social, come bloccare le persone, sono esportati nella realtà tramite occhi cibernetici. Ma nonostante questa nuova tecnologia i due uomini miseri rimangono tali. Hanno solo più possibilità di ferire chi gli sta attorno.
È invece dell’anno scorso la notizia che Netflix ha acquistato i diritti di Black Mirror e ha commissionato a Brooker la scrittura di altri sei episodi. Quando ho avuto questa notizia credo di aver stappato una bottiglia di quelle importanti. Non potevo sapere che, delle tre stagioni, quella di Netflix sarebbe stata meno riuscita, quella su cui avrei avuto più da ridire. Di sei episodi me ne è piaciuto veramente solo uno, “Shut Up and Dance”. Tutti gli altri sì, carini, ma niente di più. I due episodi più discussi sono stati “Nosedive” e “San Junipero”. “Nosedive” è una farsa moralistica sull’uso dei social come sistema di apprezzamento. In un mondo colorato con gli stessi pastelli usati da Spike Jonze in Her, Bryce Dallas Howard cerca di ottenere un invito al matrimonio della sua apprezzatissima amica. Neanche per un secondo riusciamo ad affezionarci a questo personaggio e la morale è veramente facile, anzi, facilona. Non c’è nessuna vera riflessione su cui valga la pena riflettere se non il classico “i social ci stanno rovinando la vita” e il finale è un guazzabuglio tragicomico di cui non frega niente a nessuno. “San Junipero” ha degli splendidi momenti, e alcune emozioni saltano fuori nel finale, ma arrivano troppo tardi e sono sommerse da un’ora di nostalgia del look, delle musiche, delle capigliature dagli anni Ottanta ai primi anni zero. È un’ora divertente certo, quella di “San Junipero”, ma vogliamo veramente paragonarla a “Be Right Back”? Perché il tema, la vita dopo la morte, non è molto diverso.
Credo che i problemi della terza stagione di Black Mirror siano sostanzialmente due.
Il primo è che la produzione americana ha fatto sentire troppo il suo peso, indirizzando il prodotto verso qualcosa di più “safe”, per un pubblico meno di nicchia di Channel 4. Non solo nella scelta degli attori, ma anche nell’approccio al genere. Un episodio è dichiaratamente un Horror Americano diretto da un regista di Horror Americani. Un altro è un film di guerra, un altro è un spy thriller più vicino a Ludlum che a Brooker. Il secondo problema è che gran parte del tempo lo si passa a cercare il cambio di prospettiva, lo switch alla Black Mirror. Il punto di vista di Brooker sulla tecnologia viene usato come snodo narrativo e non come premessa alla storia. Non è quello a cui eravamo abituati. Inoltre, questo concentrarsi sulla trama ha allontanato l’attenzione dai personaggi e dalle loro vite, che erano poi il vero punto di forza delle precedenti stagioni. Non ci si affeziona praticamente a nessuno in questi sei episodi. Spesso la sensazione è quella di un “famolo strano” applicato a storie un po’ già viste.
Si è conclusa oggi la Black Mirror week su Netflix, in cui praticamente ogni giorno sono uscite immagini e trailer della prossima quarta stagione, che sarà sempre di sei episodi e sarà sempre su Netflix. Guardandoli mi viene da dire: Boh, sono eccitato? Sì. Me le vedrò tutte in un giorno? Sì. Mi terranno sveglio fino alle due? Credo proprio di no.