Nanni Moretti dà fastidio a molti: è noioso, pedante, simbolo di una certa borghesia intellettuale di sinistra, auto-celebrativo, egocentrico, scadente come regista e ridicolo come attore – per non parlare di quella stucchevole fase politica in cui usava i girotondi come simbolo di protesta pacifica. Suscita in un certo tipo di pubblico quella sensazione di prurito che oggi si esprime a gran voce contro radical-chic, benpensanti, “comunisti col Rolex”, gente di cultura che non ha mai messo piede nella realtà né tantomeno ha idea di cosa questa sia fatta a parte libri polverosi e film in bianco e nero. A correre in soccorso alla fazione anti-morettiana, di solito, è la frase ipse dixit di Dino Risi che agli inizi del 2000 lanciò una terribile frecciatina al regista dicendo che i suoi film li avrebbe pure visti, se solo Nanni si fosse spostato da davanti alla telecamera per lasciarglieli guardare. “Levati di mezzo e facci vedere un po’ il film” è il commento del maestro della commedia all’italiana a La stanza del figlio, e chi come Risi condivide questa insostenibile antipatia nei confronti del regista di Monteverde Vecchio si sfrega le mani compiaciuto ogni volta che può giocarsela per legittimare il suo disprezzo – del resto, se lo dice il maestro, come dargli torto?
Capisco bene da dove viene questa insofferenza: Moretti è uno sbruffone, uno che a ventiquattro anni sghignazzava svogliato in faccia a Mario Monicelli, ospite da Alberto Arbasino, mentre bivaccava scomposto su una poltrona a cui avrebbe dovuto lucidare le maniglie. È uno che tirava in ballo Alberto Sordi per fare una metafora sul qualunquismo da bar, cosa che per un italiano equivale come grado di insolenza forse solo a un insulto alla propria madre. È uno che prende a schiaffi i giornalisti perché non usano le parole giuste, uno che si mette a fare la ramanzina ai comizi dell’Ulivo – “Con questi dirigenti non vinceremo mai” urlava spregiudicato dall’alto del suo loden. È, fondamentalmente, un personaggio che non fa nulla per non starti sulle palle, con tutte quelle citazioni da avventori del cineclub – “Continuiamo così, facciamoci del male” – e quell’aria di supponenza snob di chi al cinema ci va senza mangiare pop-corn e guai a chi si alza prima di aver letto ogni singola parola dei titoli di coda. Eppure, quelle citazioni le conosciamo, le ripetiamo fino alla nausea e certe volte ci dimentichiamo persino che le abbia scritte e recitate lui.
Nel trailer di Santiago, Italia – il suo ultimo documentario sui rifugiati cileni del periodo successivo al golpe contro Salvador Allende che uscirà il 6 dicembre 2018 – si vede lo stralcio di un dialogo in cui un vecchio signore intervistato dice: “Mi avevano detto che questa intervista sarebbe stata imparziale”, e Moretti risponde “Io non sono imparziale”. Il motivo per cui questo scambio è stato scelto per l’anteprima è chiaro: quello che ci incuriosisce di questo regista, che ci piaccia o meno, che sia per criticarlo o per acclamarlo, che ci stia antipatico o che ci sembri un genio della cinematografia, è la sua opinione. A Dino Risi che chiede gentilmente al regista di spostarsi dall’inquadratura e ai detrattori del personaggio vanitoso e accentratore, in effetti, non si può dare torto. Nanni Moretti è sempre al centro dei suoi film, anche quando non è il protagonista. Lo è quando sono protagoniste le sue inquietudini, le sue nevrosi, la sua ironia, le sue passioni e le sue ossessioni: il suo cinema è un cinema personale, è una concrezione cinematografica della sua soggettività. Quello che ci attrae del suo modo di fare arte è proprio questa totalità espressiva che si manifesta non solo attraverso il Moretti attore e regista ma anche in quell’uomo che è così palesemente messo a nudo, che si arrabbia come un pazzo e si ingozza di dolci. Ed è esposto a quello stesso genere di critiche che tartassano autori come Emmanuel Carrère, accusati di accomodarsi fin troppo nella narrazione di se stessi che sprofonda nella definizione ambigua di “autofiction”.
La sua filmografia, infatti, si può leggere come una biografia divisa in quattro fasi diverse, ognuna delle quali modellata a seconda del periodo esistenziale che il regista stava vivendo. C’è un Moretti embrionale, quello dei cortometraggi difficilmente reperibili in Super8 alla Come parli frate? che lo portano fino al primo inaspettatamente acclamato lungometraggio, Io sono un autarchico. Il primo blocco di film del regista è quello che si può definire in un certo senso generazionale: vanno in scena gli amici del regista, che occupano i loro fine settimana per impegnarsi in un progetto che non si sa ancora dove potrebbe andare a parare, c’è tutta la spocchia della gioventù annoiata ma anche impaurita e atterrita dal futuro. Sono i ragazzi e le ragazze nati negli anni Cinquanta, quelli che si sono fatti più che il Sessantotto le sue prime conseguenze e che sono diventati grandi negli anni di piombo, che si parlavano nei gruppi di autocoscienza, che leggevano Marx e non ci capivano niente però dovevano comunque leggerlo perché la politica era personale e il personale diventava sempre più politico. Dalla materia grezza ma densa di Io sono un autarchico, dove Moretti involontariamente regala ai posteri un documentario sui ventenni di Roma – anzi, sarebbe meglio di Prati, o addirittura proprio di Piazza Mazzini – che erano in fondo simili a tutti gli altri ventenni d’Italia, si passa al successo vero e proprio che è quello di Ecce Bombo, uscito nel 1978. Qua l’autoritratto si affina, così come le nevrosi che si moltiplicano: Michele Apicella diventa il prestanome ufficiale del regista, e con questo trucchetto di scena forse si legittima un po’ di più il fatto di mettersi in scena in modo così spudoratamente senza filtri.
Sogni d’oro, l’ultimo dei tre film della prima fase, è il risultato della maturazione di una consapevolezza chiara: come se Moretti avesse provato a entrare nel cinema in punta di piedi, dicendo tra sé e sé che magari mettendo se stesso così al centro della sua arte poteva andargli bene come poteva essere un fallimento totale. E invece se lo sono filato in molti, quindi perché non cominciare a osare? Fuori dal set di casa dei genitori, via con un vero teatro di posa, comparse, tratti onirici che si fondono a un racconto in cui Moretti riprende un tema che era già presente all’inizio del suo esordio ma che ora diventa forse la cosa più centrale del suo cinema, ovvero la rappresentazione del cinema stesso. Si parla di Michele Apicella, quindi di Nanni Moretti, ma si parla anche di cosa c’è attorno alla vita e dentro la vita di un regista, le aspettative, l’ansia da prestazione, l’angoscia del vuoto, del non avere idee, una formula narrativa di meta-cinema che ricalca quella del famoso La nuit americaine di Trouffaut. In Sogni d’oro Michele si arrovella attorno a un rapporto malato tra madre e figlio, con la scusa di un film dentro al film, quello su Freud che vive ancora con la madre, ed esplode in una delle scene più violente e catartiche del suo cinema. Quando Michele picchia la madre a tavola davanti ai due assistenti volontari, quando urla che il complesso di Edipo lui non lo vuole risolvere, sembra quasi che stia anticipando il tema di un suo film che uscirà più di trent’anni dopo, Mia madre, dove la morte interviene per tagliare definitivamente quel lungo cordone ombelicale.
Dopo questi primi tre film dove Moretti-Apicella combaciano chiaramente e senza troppi artifici per dissimulare la cosa, la seconda fase prende una piega più distaccata. Da Bianca in poi, infatti, sembra quasi che attraverso l’uso di trame più lineari e di soggetti meno autobiografici per il regista sia ancora più semplice dare una forma alla rappresentazione di sé. Qui vediamo Moretti che si traveste da maniaco ossessivo, incapace di amare se non attraverso il controllo opprimente delle vite degli altri. Il film è disseminato di indizi che riconducono alla personalità del regista, dalla passione a tratti patologica per i dolci – già più volte rappresentata – del famoso “Lei non faccia il tunnel”, all’attenzione malata per le scarpe. Michele Apicella abbandona per poco la scena e diventa Don Giulio de La messa è finita, ma il carattere rimane praticamente sempre quello, dalla rigidità di giudizio alla smania di controllare gli altri, fino all’incomunicabilità familiare: se in Ecce Bombo Michele rimproverava la madre di parlare ancora in milanese nonostante fosse a Roma, qui invece la sgrida perché non gli ha comunicato il dolore che l’animava al punto da portarla al suicidio. Don Giulio sembra un prete che non sa ascoltare, evidentemente a disagio con tutta la comunità che dovrebbe aiutare, mentre attorno a lui i personaggi comunicano fin troppo, caricati da un un aspetto e da un modo di parlare esagerato, come nella scena del vecchio parroco che lo invita a pranzo con la moglie.
Il blocco si conclude con il film che meglio trasmette la passione di Moretti per Fellini, Palombella rossa, che aggiunge ancora un altro elemento personale al suo cinema: la pallanuoto. Attraverso lo sport che lui stesso ha praticato per anni, si articola la storia di una disfatta politica, il senso della dissoluzione del Pci, la profezia del muro di Berlino. Michele Apicella è un politico che ha perso la memoria e attorno a cui si concentrato personaggi allegorici che gli fanno un sacco di domande, che lo obbligano a interrogarsi sul senso della sua missione politica. Con questi tre film Nanni Moretti esce dalla sua cameretta ma noi rimaniamo dentro la sua vita attraverso gli oggetti, le idee, i luoghi e le fissazioni che la strutturano. Non c’è niente di estraneo, ci sono solo dei giochi di specchi che fanno sì che questi elementi possano essere rappresentati all’interno di una storia che è sempre la stessa: “Io farò di nuovo sempre lo stesso film,” diceva in un’intervista del 1984 all’interno di Riso in bianco, Nanni Moretti atleta di se stesso.
Con gli anni Novanta ha inizio la terza fase, che è quella dove Michele Apicella muore e Moretti non ha più bisogno di un alias per parlare di sé. Caro diario è un racconto in prima persona del regista, un giro in Vespa attraverso una Roma personale, non quella della cinematografia classica ma la versione molto più intima dei luoghi eletti senza necessità di adeguarsi al cliché. Un percorso nel quale ci facciamo guidare senza indugi, con la dose consueta di ironia – quella dei figli unici a Salina, per esempio, o della recensione a Harry a pioggia di sangue – nella parte più inquietante che riguarda la sua malattia, con i filmati e le occhiaie vere della chemio. Aprile celebra ancora di più questa dimensione privata, come un vlogger ante litteram che ci guida nell’evento cruciale della nascita di un figlio, oltre che nell’auto-citazione di quel famoso pasticcere trotskista. E poi, ovviamente, c’è la politica, ci sono le canne davanti alla tv e al trionfo di Berlusconi, c’è D’Alema e la sua “cosa di sinistra” che non viene proprio fuori. Il film non è solo un diario della propria vita, ma è anche un monito alla fase storica in cui è ambientato, la fine di un secolo e l’inizio di una lunga notte.
E poi, con gli anni Duemila, con l’ultimo blocco di film Moretti torna a parlare di altro per parlare di sé, ma questa volta in modo più rarefatto, meno percettibile, forse più maturo, con meno impulso alla verbosità arrabbiata del “Io non parlo di cose che non conosco”. La stanza del figlio esorcizza una paura ancestrale, quella di un padre che perde un figlio, mentre Il caimano si impone come necessità in periodo di berlusconismo spietato e selvaggio. Ma la vera svolta avviene con Habemus Papam, in cui Moretti riesce ad accontentare Dino Risi e a eclissarsi per quasi tutto il film, fungendo solo da ruolo strumentale per una trama che ha tutta l’intensità di una riflessione adulta e tragica. La profezia delle dimissioni del Papa passa in secondo piano, per quanto sorprendente – così come quella di Palombella rossa o de Il caimano – se ci concentriamo sulla delicatezza di un film che riesce a dare forma alla nevrosi matura di un uomo che si domanda la cosa più banale, ma anche quella più imperscrutabile: a cosa serviamo noi? E poi, alla fine, arriva Mia Madre, dove non c’è spazio per il ragazzo acido e rissoso né per Michele Apicella e neppure per i giri in Vespa, ma solo quella che forse è la forma più pura in assoluto in cui Nanni Moretti ha deciso di rappresentarsi, perché anche nella scelta di affidare a una donna la parte di se stesso si rivela una parte di lui.
Nanni Moretti ha sempre parlato di sé in quarant’anni di cinema: lo ha fatto attraverso le cose che lo riguardano, dalla pallanuoto alla torta Sacher; tramite i luoghi che gli appartengono, tutti quegli angoli di Roma che si è scelto; con le idee e le fissazioni, dall’ossessione per la lingua alla scontrosità, fino alla politica, alle insicurezze, alle debolezze e alla morte. Michele Apicella canta stonato a squarciagola vecchie canzoni italiane, Bruno Lauzi, Caterina Caselli, Mina, Franco Battiato, perché Nanni Moretti vuole cantare stonato e a squarciagola. Si arrabbia con sua figlia, con sua madre, con i suoi amici, con il pubblico, con la donna di cui forse è innamorato, così come Nanni Moretti se la prende con la dirigenza dell’Ulivo. Il cinema di Moretti se levi Moretti non è niente, ma perché mai dovremmo farlo spostare da davanti quella telecamera se a guardarlo è uno spettacolo? Non esiste solo un tipo di film, come non esiste solo un tipo di regista: la sua scelta, o più che altro l’unica via che poteva prendere era quella di mettersi in scena, con il rischio di non risultare interessante a nessuno, di essere criticato da tutti, con l’imprevedibilità che c’è nello schierarsi apertamente e dire che qualcosa non ci piace. Evidentemente di guardare anche dentro la vita di qualcuno ne abbiamo bisogno, e il cinema personale risponde proprio a questa necessità, anche se sei un “Bracciante lucano, un pastore abruzzese o una casalinga di Treviso”.