“Mysterious Skin” ci ricorda che il passato non muore mai - THE VISION

È uno strano fenomeno la memoria. Ciò che ricordiamo di aver vissuto da bambini influenza profondamente i nostri comportamenti adulti ma spesso quei ricordi ci sono come celati a noi stessi. Li guardiamo attraverso un velo, indistinti, incapaci di tracciarne i contorni, se non di richiamarli alla mente del tutto, sotterrati dagli anni e dalle nostre illusioni. Perché anche se la memoria è ciò che ci forma e informa, mi appare sempre più fatta di un materiale malleabile, deformabile, che forse più involontariamente che con coscienza, per un meccanismo di difesa, finiamo per riformulare, trasformando ciò che di più terribile abbiamo vissuto in qualcosa di accettabile, per lenirne gli effetti. Così, nelle reminiscenze, tutto si mescola, si smussa, acquista un’altra forma, almeno fino a quando non troviamo il coraggio – o anche solo la voglia – di provare a squarciare quel velo, per farle venire a galla dal luogo in cui sono nascoste, risvegliarle e guardarle finalmente per quello che sono. “Tutto questo passato non era morto; era potenzialmente vivo in me e avrebbe potuto ridestarsi in modo cosciente, se un caso – che è meglio di ogni sforzo volontario – non fosse venuto a risvegliarlo”, scriva Marcel Proust ne Il tempo ritrovato, e poco altro, mi sembra, riesce a descrivere così bene il nostro rapporto con la memoria, con i traumi che la segnano e il senso che entrambi acquistano in Misterious Skin, capolavoro del 2004 di Gregg Araki basato sull’omonimo romanzo di Scott Heim, disponibile in streaming su MUBI all’interno della rassegna di film queer Questo non è un coming out.

È l’estate del 1981 a Hutchinson, Kansas. Neil ha otto anni mentre guarda sua madre scopare con Alfred, un “Marlboro Man” dalla zucca vuota e dalla cui bocca escono solo cose stupide e noiose, sulla sua altalena. Non è la prima volta che accade, né che lui si masturba fissandoli. A giugno, quando lo iscrivono a baseball per divertirsi senza averlo tra i piedi, Neil incontra per la prima volta il coach Heider. “Venni sopraffatto dal desiderio. Somigliava ai bagnini, cowboy e pompieri che avevo visto sui playgirl sotto il letto di mia madre”, dirà. “All’epoca non sapevo gestire i miei sentimenti, erano come dei regali che dovevo aprire in pubblico”. L’allenatore lo adesca. Lo porta al cinema da solo, poi a casa. Gli offre caramelle, dolciumi e videogiochi. Gli chiede di registrare la sua voce: prima il suo nome, poi altre parole. Lo fa mettere in posa, gli scatta delle polaroid. Nel raccoglitore avrà una foto di Neil con gli occhi chiusi, le sue dita tra le labbra. Poi va avanti. Anche Brian ha 8 anni, ma per lui iscriversi a baseball per assecondare i desideri paterni è stata una stronzata. Nell’estate del 1981, cinque ore scompaiono dalla sua vita, senza lasciare alcuna traccia. “L’unica cosa che ricordo è che ero in panchina durante la partita, ha iniziato a piovere. Di quello che è successo dopo rimane un buio pesto”. Si risveglia in cantina, il sangue che gli esce dal naso. Poi iniziano gli incubi: una figura aliena lo cerca, lo rapisce. Non si conoscono Neil e Brian, non lo faranno se non anni dopo, da adolescenti, quando sopravvissuti al loro passato affrontano le conseguenze in modi radicalmente diversi. Il primo cerca di elaborare il trauma sublimandolo in una precoce sessualizzazione, inizia a prostituirsi con uomini maturi alla ricerca di un’intimità autodistruttiva, si sente emotivamente svuotato; il secondo ha rimosso tutto dalla propria memoria e si è aggrappato a una teoria del complotto per evitare di affrontare l’insostenibile realtà dell’orrore che ha vissuto, sostenendo di essere stato sequestrato da un UFO.

“Sono stato abusato da bambino e nessuno [degli altri film che trattano gli abusi sessuali su minori] è come Mysterious Skin, perché te lo fa davvero attraversare. Non sei solo un osservatore esterno che pensa: ‘Oh, che orrore. Mi dispiace tanto per questi personaggi’. È più come: ‘Questa cosa sta davvero accadendo, e per come è girato, sta succedendo a me’. Esci dal film letteralmente traumatizzato. Ed è proprio questo, credo, che lo rende così unico”, ha raccontato Araki, che oltre ad aver scritto l’adattamento cinematografico del romanzo di Heim ha anche svolto ricerche statistiche per comprendere appieno il fenomeno. “C’è un numero assurdo di persone che hanno subito abusi. È tipo una su quattro, una quantità folle. L’idea che tu sia seduto a tavola con una dozzina di persone, e tre di loro abbiano subito abusi sessuali. È così comune, così diffuso, ed è una ferita così profonda che in realtà non guarisce mai del tutto”, ha aggiunto. 

Con Misterious Skin, Araki ha realizzato un’opera coraggiosa, disturbante, ma anche profondamente empatica, capace di toccare corde profonde senza mai scivolare nel voyeurismo o nella facile provocazione. La violenza è trattata con grande cura, precisione e delicatezza, e uno dei motivi per cui il film ha trovato una risposta così ampia da parte del pubblico, e un’accoglienza così positiva quando fu presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, potrebbe risiedere proprio nel fatto che c’è nulla di gratuito nel modo in cui un argomento così complesso, sensibile e opprimente è stato affrontato. Araki non cerca mai il melodramma: lascia che siano i personaggi, i silenzi, gli sguardi a raccontare il dolore, anche quando mette a nudo la solitudine dell’adolescenza, il bisogno di essere amati, visti, riconosciuti. Lo fa senza sconti ma con infinita umanità. Inoltre, Misterious Skin segna anche un momento di svolta nel modo in cui il cinema rappresentava i responsabili di abusi sessuali su minori, allontanandosi dalla distorsione hollywoodiana per cui gli abuser erano emarginati disadattati o personaggi inquietanti, mostrandoli invece come ben integrati e stimati all’interno delle loro reti sociali e comunità.

Araki, regista americano di origini giapponesi, si era imposto anni prima nel panorama internazionale diventando uno degli autori più iconici e controversi del New Queer Cinema, un movimento cinematografico nato all’inizio degli anni Novanta che ha avuto il merito di ridefinire radicalmente il modo in cui le identità LGBTQ+ venivano rappresentate sullo schermo. Più che un genere, è stato un gesto politico, una rivolta estetica e narrativa contro l’omologazione, la censura e le rappresentazioni rassicuranti che in precedenza avevano caratterizzato – e spesso caratterizzano ancora – il cinema. Nato in gran parte negli Stati Uniti e nel Regno Unito, il New Queer Cinema non chiedeva il permesso: era radicale, arrabbiato, sperimentale, a volte violento, spesso esplicitamente sessuale, e soprattutto orgogliosamente marginale – almeno agli inizi. A coniare il termine fu la critica B. Ruby Rich in un saggio del 1992, in cui identificava una nuova ondata di registi che rifiutavano le regole narrative classiche e mettevano in scena personaggi queer sfaccettati, scomodi, non redenti né addomesticati per il pubblico eterosessuale. In queste pellicole non c’era spazio per la “buona” rappresentazione: la sessualità fluida, la rabbia post-AIDS, l’identità di genere e la frattura tra individuo e società venivano affrontate senza filtri né compromessi. In questo contesto, il cinema di Araki fu esplosivo: anarchico, punk, ironico, attraversato da una vitalità – spesso autodistruttiva – che racconta un’intera generazione LGBTQ+ cresciuta tra alienazione suburbana, rifiuto familiare e collasso degli orizzonti culturali.

Ha ragione Araki quando dice che Mysterious Skin apre una rara finestra sulle complessità dei traumi, facendoceli attraversare davvero. Grazie a una regia che nei momenti più difficili indugia su primi piani dei singoli personaggi, di volta in volta siamo il coach Heider, Neil, Brian e ne percepiamo tutto il turbamento, lo stupore, amplificati dalla consapevolezza che, prima ancora di loro, solo dei bambini, capiamo immediatamente cosa sta succedendo. C’è una sensazione fisica di disagio, malessere, scomodità che accompagna la visione della pellicola, e che resta anche dopo i titoli di coda. L’impotenza e la vulnerabilità che ne derivano ci lasciano frastornati, come dopo un incubo, come se noi stessi non sapessimo più guardare lucidamente ciò a cui abbiamo assistito. La memoria, i ricordi, le percezioni che avevamo sottratto per un attimo all’opacità tornano sul fondo, quasi li guardassimo al di fuori di un corso d’acqua che, come una lente, riprende a deformarli per la distanza. Eppure, questa volta, i contorni restano più definiti. Il passato non muore mai, ma il presente vive, più cosciente.


“Misterious Skin” è disponibile in streaming su MUBI, all’interno della rassegna “Questo non è un coming out”. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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