Penso che ormai sia superfluo discutere sul fatto che i cartoni animati siano un genere televisivo e cinematografico con la stessa dignità di tutti gli altri. Così come il lungo ed estenuante dibattito sulla dignità del fumetto – per il quale il contributo di un intellettuale e accademico come Umberto Eco fu fondamentale – ha ormai trovato pace, almeno per chi ha l’intelligenza e l’apertura mentale di accettare il fatto che le forme narrative variano e non c’è poi tutta questa distinzione tra alto e basso, allo stesso modo anche i cartoni animati meritano lo stesso trattamento. Al di là di animazioni pensate per un pubblico che ha superato da tempo gli anni dell’asilo, infatti, esistono tanti esempi di lungometraggi che riescono a essere allo stesso tempo compatibili con le esigenze di intrattenimento dei bambini ma anche con quelle degli adulti, che a volte non sono tanto diverse.
Tutto ciò che abbia a che fare con l’infanzia riguarda anche chi le elementari le ha già finite da un pezzo, dato che i bambini di oggi saranno gli avvocati e i ministri di domani, e oltre a tutte le cure del caso, è giusto garantire loro anche un buon nutrimento culturale. A coronare lo status consolidato e ormai unanimemente riconosciuto dei cartoni animati nel mondo del cinema “vero” è arrivata la notizia dell’arrivo su Netflix della filmografia di uno dei più grandi registi e animatori di questo filone e dello studio da lui fondato negli anni Ottanta: si tratta delle opere di Miyazaki e dello studio Ghibli. E l’entusiasmo che ha risvegliato conferma la l’importanza di questo genere.
Nel corso degli anni anche in Occidente sono stati fatti passi avanti, ma sicuramente il Giappone è stato il Paese che ha sviluppato più di tutti gli altri e fin dall’inizio una cultura trasversale dell’animazione. Ad esempio, nel 2019, in Italia è uscito La famosa invasione degli orsi in Sicilia, di Lorenzo Mattotti, tratto da un racconto di Dino Buzzati, che si colloca proprio in questa area tra l’intrattenimento per i più piccoli e un bel film anche per adulti. Non è la prima pellicola italiana del genere, visto che negli anni passati ci sono stati per esempio cartoni come Momo alla conquista del tempo di Enzo D’Alò, ma si tratta comunque di un’eccezione. La particolarità di Miyazaki, e il motivo per cui il suo arrivo su una piattaforma di streaming come Netflix generi così tanto entusiasmo, infatti, è proprio questa sua grande capacità di far coesistere nei suoi film sia le tecniche e le potenzialità estetiche del disegno, sia la profondità e la cura del contenuto. Le sue opere infatti non sono belle “anche se” sono prodotti per bambini: sono belle e basta.
Il regista giapponese nei suoi svariati decenni di attività ha fatto in modo che si abbattessero ben due stereotipi: quello sugli anime tutti occhioni enormi e scettri della Luna, che tutti noi nati con una televisione in salotto abbiamo trangugiato senza stancarci mai grazie alla programmazione delle reti Mediaset o su MTV; e quello sui cartoni animati stessi, portandoli a un livello qualitativo decisamente superiore. Un’operazione lenta – i suoi film da noi non sono diventati infatti dei cult istantanei come invece è successo nel suo Paese di origine – ma che oggi, per chi come me non è un esperto del settore animazione giapponese, si traduce nella possibilità di approcciarsi a mondi e a linguaggi cinematografici diversi da quelli a cui è abituato, senza sentire né un distacco culturale che li renda indecifrabili né un senso di inadeguatezza dovuto all’età. Per dirla con un parallelismo neanche troppo articolato, è come se Miyazaki – e con lui lo studio Ghibli – avesse creato un ponte tra Oriente e Occidente accessibile a tutti, persino ai bambini.
Prima ancora di conoscere i suoi film, ci sono alcune cose che riguardano il carattere di questo regista e disegnatore che lo rendono molto affascinante, forse partendo proprio dal fatto che non se ne sanno poi così tante. Hayao Miyazaki infatti, nato a Tokyo nel 1941, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, durante la sua lunga carriera nel mondo dell’animazione – una carriera che avrebbe dovuto interrompersi nel 2014, come lui stesso aveva annunciato, e che invece promette un nuovo film tra il 2020 e il 2021 – non ha concesso molte interviste e non si è mai fatto particolarmente avanti per quanto riguarda la promozione delle sue opere. Capita, in un mondo di sovraesposizione come quello dell’intrattenimento contemporaneo, che la riservatezza premi, creando un alone non tanto di mistero, visto che non è un personaggio totalmente relegato all’anonimato, ma semmai di prestigio, di gradevole sobrietà.
Alcuni tratti della sua personalità, nonostante questo, emergono chiaramente nel modo in cui lavora: sia nel metodo che utilizza, sia nei messaggi che trasmettono i suoi film, trattati in modo metaforico o esplicito che sia. Per quanto riguarda la meticolosità con cui si è sempre approcciato al suo lavoro, per esempio, è noto che Miyazaki dedicasse al disegno e alla scrittura anche turni di lavoro che iniziavano alle 9 del mattino e finivano alle 4 di notte. Un metodo di lavoro estremo, ma anche fondamentale per portare avanti un progetto tanto ambizioso come quello dello studio Ghibli, fondato nel 1985 insieme a Isao Takahata, e luogo in cui prenderanno forma tutti i suoi film di grande successo, che lo hanno consacrato a simbolo stesso di questo genere e gli sono valsi due Oscar: uno nel 2003 per il Miglior film di animazione (con La città incantata) e uno alla carriera nel 2014. Una dedizione al dettaglio e al particolare ai limiti dell’ossessione, ma anche essenziale per dare vita all’aspetto estremamente curato e alle tante immagini iconiche dei suoi film, immediatamente riconoscibili anche da chi non è un esperto del settore.
Ma la follia – lucida o meno che sia – di un artista che dedica la sua intera esistenza a un progetto così grande non è l’unico tratto interessante della sua biografia. Il fatto di essere nato nel pieno della seconda guerra mondiale e di aver vissuto un Giappone immerso nella devastazione post-bellica, ha fatto sì che Miyazaki sublimasse l’esigenza di una realtà strutturata e coerente nel suo modo di creare mondi inventati, con una dose di fantasia mai fine a se stessa, ma sempre funzionale alla resa realistica, per quanto fantastica, delle sue storie. Un equilibrio tra immaginazione e finzione, questo, che ha contribuito a rendere i suoi film ben poco inquadrabili in un semplice genere per l’infanzia. Appare evidente a chiunque abbia visto un suo film infatti che per creare storie e immagini di quel tipo serva una dose massiccia di immaginazione, e forse è proprio quando attorno a te tutto è distrutto, incolore e da ricostruire che si ricorre con più insistenza a una forma di realtà parallela in cui si aggiunge tutto ciò che manca in quella in cui ci si trova. Ma non si tratta solo di un’immaginazione onirica, piena di personaggi e luoghi inventati: il motivo per cui sembra davvero di trovare un ponte tra due universi di immagini completamente diversi e distanti come quello Orientale e quello Occidentale è che in effetti, è anche dal nostro immaginario collettivo che Miyazaki attinge. Molte delle storie sono tratte infatti da racconti, romanzi o addirittura ambientazioni europee, come per esempio Il castello errante di Howl, che prende spunto da un’opera di Diana Wynne Jones, o Laputa – Castello nel cielo, che rimanda a I Viaggi di Gulliver, o Porco Rosso, che parla addirittura di un aviatore italiano durante il fascismo e anche nella versione originale mantiene il nome nella nostra lingua.
Estetica ben definita, storie stratificate piene di riferimenti, immagini e creature simboliche, integrazione tra culture distanti e cura del dettaglio non sono però le uniche caratteristiche alla base della produzione artistica di Miyazaki e dello studio Ghibli, che già dal nome – lo stesso con cui viene chiamato il vento caldo di Scirocco in Libia – comunica chiaramente l’intento di pervasività e rivoluzione. Nei film del regista giapponese, infatti, sono presenti temi disparati, trattati tutti con una forte carica di sensibilità e delicatezza ma al contempo anche forte desiderio di comunicazione, come se l’idea di utilizzare i disegni fosse un mezzo per rendere più efficace la trasmissione di un determinato messaggio.
Non tutti gli artisti riescono a rendere semplici temi complessi senza ridurli alla banalità: da questo punto di vista Miyazaki è quasi insuperabile. Sebbene i bambini, ma soprattutto le bambine e le ragazze, siano spesso protagonisti dei suoi film – Il mio vicino Totoro, Ponyo e la scogliera, La città incantata – la trama non si risolve mai con manicheismi tra il bene e il male. Nei film di Miyazaki, infatti, entrambe le parti coesistono, come nella vita reale, senza creare una dicotomia semplicistica, come avviene per esempio in Princess Mononoke o in Laputa – Castello nel cielo. Questo perché, come appare chiaro dalle sue stesse parole, si tratta di stereotipi troppo rigidi e inadatti alla rappresentazione del mondo nel Ventunesimo secolo: una ulteriore prova del fatto che l’animazione per bambini può tranquillamente approfondire anche tematiche così ampie e universali che non si limitano a descrivere il mondo con semplicismo o sentimentalismo.
Questa varietà di racconto, intrecciata con argomenti che spaziano dall’ecologia alla politica e accompagnata da una cornice estetica ben delineata e curata, rendono il cinema di Miyazaki e dello studio Ghibli ciò che è: un modo di raccontare storie che non si limiti alla bellezza delle immagini ma che non le appesantisca nemmeno con una dose forzata di serietà. Film come Ponyo e la scogliera, Pom Poko o Princess Mononoke, per esempio, trattano il tema dell’ecologia e dei danni dell’essere umano sul pianeta non in modo didascalico con effetto brutta pubblicità progresso. Film come Il castello errante di Howl o Laputa – Castello nel cielo parlano di pacifismo e di guerra, rappresentando la stupidità della violenza in un modo chiaro ma non forzato né disturbante. La possibilità di avere questo catalogo a disposizione per chi già conosce il cinema di questo regista è un’ottima occasione per riscoprirne i dettagli, mentre per chi non lo conoscesse, e magari conservasse dentro di sé quel ricordo un po’ distorto di cartone animato come genere buono solo per chi non ha ancora imparato la tabellina del 9, è proprio il momento giusto di ricredersi.