Se quest’anno fosse realmente stato segnato dal ritrovamento di Goncharov, il capolavoro perduto di Martin Scorsese, che invece si è rivelato essere soltanto un’invenzione degli utenti di Tumblr, probabilmente avremmo potuto dedicargli una menzione d’onore nella lista dei migliori film e non soltanto ricordarlo come una delle fake news più fantasiose del 2022. I dodici mesi appena trascorsi, invece, sono stati segnati da altri rimandi nostalgici, ricordi di narrazioni del passato riadattate all’attualità. Alla fine di un anno di cinema che ha saputo tenere assieme le citazioni della Nouvelle Vague francese e il multiverso, ecco quali sono, secondo noi, i migliori film del 2022.
Triangle of Sadness, di Ruben Östlund
Triangle of Sadness – diretto dal regista svedese Ruben Östlund e vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes di quest’anno – è un ritratto dell’invidia sociale, che decostruisce la figura del ricco attraverso la derisione, ma rivela, soprattutto, la crescente ossessione per lo status che caratterizza la nostra società. Il film racconta un viaggio su una crociera di lusso, durante il quale un gruppo di grandi ricchi, tra cui i protagonisti Carl e Yaya – una coppia di modelli che si piacciono molto, ma non sembrano amarsi un granché – vengono accontentati in tutti i loro desideri da un personale di bordo estremamente zelante. A partire da questa situazione, una serie di avvenimenti imprevisti determinano l’innescarsi di una lotta di classe che non è attivamente voluta dai personaggi, ma governata dal caso. Dopo una cena a base di champagne e crudità di pesce – che si conclude, per gli ospiti, in fiumi di vomito e diarrea causati dal malessere per il mare mosso –, infatti, lo yacht naufraga tragicamente costringendo i pochi sopravvissuti a riparare su un’isola e ad affidarsi alle abilità di Abigail, una donna delle pulizie dell’equipaggio che è l’unica a saper cacciare, accendere il fuoco e cucinare.
Anche quando il ribaltamento delle gerarchie sembra avvenuto, o quando i personaggi vivono i momenti più autenticamente umani, quelli in cui sono indifesi, sporchi, disgustati da sé stessi, però, nel film non c’è spazio per l’uguaglianza. Lungo le scene di Triangle of Sadness, Ruben Östlund inscena un processo di osservazione simile, per molti aspetti, a quello portato avanti da David Foster Wallace durante la crociera descritta nel suo libro del 1997 Una cosa divertente che non farò mai più, perché racconta i retroscena della società del privilegio, in cui vivono sia i personaggi, sia il pubblico: una condizione caratterizzata, soprattutto oggi, da una crescente insoddisfazione per la propria vita, dalla continua competizione con gli altri e dalla brama di acquisire sempre più di ciò che si ha.
Licorice Pizza, di Paul Thomas Anderson
Paul Thomas Anderson è uno di quei registi che non si precludono di usare in maniera esplicita una componente autobiografica nei propri film, che nel suo caso riguarda tanto episodi o personaggi, ma un luogo, che è Los Angeles, più precisamente San Fernando Valley. Partendo da questo presupposto si può facilmente notare come la spontaneità dello spettacolo e la sua integrazione con il mondo circostante, che lo accoglie e ne fa bene primario, siano due elementi portanti di Licorice pizza, la sua ultima opera cinematografica. A differenza di altre pellicole di Anderson, questa prende una direzione molto più ironica che tragica e introspettiva. Il mondo del cinema, in questo lungometraggio, è infatti una parodia di sé stesso, una divertente caricatura bozzettistica di situazioni in cui ci si poteva trovare camminando per Los Angeles negli anni Settanta. Oltre alla cornice estetica nostalgica e ironica con cui si presenta il film, un altro aspetto centrale è il cast. La trama è infatti composta da una serie di piccoli capitoli, tutti autoconclusi, inseriti in una storia più grande, quella tra i due protagonisti, Alana e Gary. Ciascuno degli attori, protagonisti grandi o piccoli che siano, è incastonato alla perfezione in questo mosaico umano che forma un clima familiare per il regista, nel senso che si tratta di quasi tutti suoi reali amici.
Dalla colonna sonora ai vestiti che indossa Alana, ogni cosa di Licorice pizza ti fa venire voglia anche solo per un momento di essere lì con loro, in quel passato idealizzato, fiabesco, ma non per questo inesistente o falso. Così come ciascuno di noi porta con sé un dettaglio della propria infanzia, dal sapore di un gelato che non esiste più al suono di un cartone animato in videocassetta, in Licorice pizza questo senso di familiarità è un ricordo antico di Paul Thomas Anderson che diventa collettivo. Non sappiamo se gli anni Settanta in California fossero così belli e divertenti come vengono raccontati nel film o se è tutto un effetto ottico dovuto alla sua bravura, sappiamo solo che se il suo obiettivo era quello di farci provare la mancanza di una cosa che non abbiamo mai vissuto allora ci è riuscito alla perfezione.
C’Mon C’Mon, di Mike Mills
Non è facile mappare le componenti di un legame, la quantità e la qualità delle ragioni per cui due persone decidono di avvicinarsi e stringere insieme le loro vite, soprattutto se queste sono molto diverse tra loro. C’Mon C’Mon, diretto dal regista statunitense Mike Mills, riesce in questa impresa di esplorazione delle relazioni umane raccontando la storia di una genitorialità acquisita, quella di Jhonny – il protagonista interpretato da Joaquin Phoenix –, che a causa di una serie di circostanze si trova a doversi prendere cura di Jesse, suo nipote di otto anni. Abituato a viaggiare molto per seguire gli impegni della sua carriera da giornalista, Jesse ha perso quasi ogni contatto con la sua famiglia, con cui ha mantenuto soltanto dei rapporti di circostanza che vive con grande imbarazzo e senso di colpa, come se il raffreddamento dei loro legami fosse irreversibile. Attraverso il rapporto con Jesse, prima obbligato da una situazione difficile, e poi fortemente voluto, Jhonny riuscirà a riscoprire l’esperienza dell’autentica vicinanza all’Altro.
Il bianco e nero di C’Mon C’Mon accoglie fin dalle prime scene lo spettatore in una dimensione intima, introspettiva, dove la promessa è quella di rivelare anche i segreti più nascosti dei personaggi. Il film di Mills, infatti, gioca costantemente con la sovrapposizione dei piani: quello temporale, che mostra gradualmente i dettagli di un passato che ha segnato entrambi i protagonisti; ma anche quello del linguaggio, che intreccia diverse modalità espressive – le interviste in stile documentaristico che Jhonny sta svolgendo per lavoro, delle citazioni di libri lette ad alta voce dai personaggi, alcune registrazioni che contengono il flusso dei loro pensieri – costruendo una sorta di diario multiforme della relazione che si sta creando fra Jhonny e Jesse, non senza qualche difficoltà. Questo reciproco scoprirsi, che avviene lentamente, prendendosi tutto il tempo necessario, coinvolge lo spettatore in una riflessione sulla possibilità di imparare a conoscersi proprio attraverso l’incontro – e spesso anche lo scontro – con chi, per mille motivi, è diverso da noi.
Everything Everywhere all at once, di Daniel Kwan e Daniel Scheinert
Cercando su Google Everything Everywhere all at once, l’ultimo film dei Daniels – duo di registi composto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert –, la definizione che compare più frequentemente nelle recensioni dei diversi siti è “meraviglioso delirio”. In apparenza, la trama del film non sembra avere nulla di delirante, dal momento che segue con grande linearità la quotidianità della protagonista, Evelyn Wang, proprietaria insieme al marito di una lavanderia a gettoni, che vive una condizione di insoddisfazione cronica tale da schiacciarla in uno stato di insofferenza costante. La donna, infatti, sembra non sopportare la vita che si è costruita, divisa fra i tentativi di ribellione post adolescenziale della figlia e la responsabilità di accudimento che ha nei confronti del padre in preda alla demenza senile. In particolare, Evelyn non riesce a perdonarsi di aver sposato il marito, rimpiangendo le possibili scelte che avrebbe potuto fare se solo avesse agito in un altro modo in passato.
È questa apertura della dimensione del possibile, di ciò che poteva essere ma non si è realizzato, a innescare la creazione di un multiverso narrativo, dove un’enorme quantità di elementi materiali, onirici ed esistenziali vanno a comporre le diverse vite che la protagonista avrebbe potuto vivere, se non avesse scelto la sua. Il film si trasforma così in una galleria di mondi, all’interno della quale i Daniels inseriscono una moltitudine di citazioni che vanno dalla letteratura fantascientifica alla cultura pop, passando per alcune scene indimenticabili della storia del cinema, tenute insieme da un montaggio frenetico e immersivo che allude ai ritmi sempre più opprimenti che le nostre vite stanno assumendo. Evelyn, attraversando fisicamente l’universo delle sue possibilità e confrontandosi con i multipli delle persone che la circondano – ma soprattutto con le varie versioni di sé stessa – riesce a ritrovare uno sguardo lucido sulla propria vita, riappacificandosi con le sue decisioni.
Le nuotatrici, di Sally El Hosaini
Yusra e Sara sono due sorelle che condividono la passione per il nuoto e il sogno di diventare delle atlete olimpiche, allenandosi con tenacia e costanza per raggiungere il loro obiettivo. A creare una frattura nella loro vite è lo scoppio della guerra in Siria, da cui le due ragazze tentano di scappare intraprendendo un viaggio per raggiungere l’Europa che le costringerà ad affrontare momenti drammatici e situazioni che fino a poco tempo prima ritenevano inimmaginabili. The Swimmers – diretto dalla regista Sally El Hosaini e presentato all’ultimo Toronto Film Festival – è tratto dalla storia realmente accaduta delle sorelle Mardini, che nel 2015 lasciarono il loro Paese d’origine per sfuggire al conflitto siriano, riuscendo a mettere in salvo, durante la traversata, diversi profughi che viaggiavano sullo stesso gommone grazie alle loro abilità sportive e al loro coraggio.
Oltre a dare spazio all’esperienza delle due sorelle, mostrando allo spettatore la loro crescita psicologica in relazione agli eventi che hanno dovuto affrontare, il film di El Hosaini restituisce con grande potenza la tragica situazione in cui la Siria si trova attualmente. Affidandosi a contrasti netti, che legano l’avanzamento della trama a una continua alternanza fra le scene di vita quotidiana, caratterizzate dalla spensieratezza delle protagoniste, e immagini che descrivono gli orrori della guerra, The Swimmers racconta una delle tante storie di persone comuni che, a seguito del conflitto, si sono trovate a dover ripensare tutta la loro esistenza, dando così un volto al tema della fuga. Yusra e Sara sono il simbolo di una condizione in cui il destino individuale – legato al loro futuro e ai loro progetti – e quello sociale – condiviso con il resto del popolo siriano e con gli altri rifugiati – si incontrano, perché si trovano a inseguire lo stesso sogno di quando erano piccole anche se attorno a loro tutto è cambiato.
Vortex, di Gaspar Noé
Presentato al Festival di Cannes dell’anno scorso ma sorprendentemente mai distribuito in Italia fino a quando Mubi non lo ha reso disponibile a settembre, Vortex, l’ultimo film di Gaspar Noé, è un’indagine sulla morte, sull’età ma soprattutto sulla fragilità dell’amore. Spinto dalla recente scomparsa di alcuni amici intimi e dalla sua esperienza di pre-morte, nel 2019, a causa di un’emorragia cerebrale, Noé ha infatti realizzato un film in cui il terrore è senza nome o solo appena mormorato e si insinua in un angusto appartamento parigino, come una Parca che ha deciso di conoscere la persona a cui appartiene la linea del destino che sta per recidere.
In Vortex, il regista Dario Argento interpreta un uomo senza nome, afflitto da un problema cardiaco e impegnato a scrivere un libro sul rapporto tra cinema e inconscio che sicuramente non completerà mai. Mentre passa dal divano alla scrivania al gabinetto, il suo percorso incrocia quello della moglie – interpretata da Françoise LeBrun –, una psichiatra in pensione che inizia a mostrare i segni dell’Alzheimer. Non ricorda dove abita, perché è uscita, chi è l’uomo accanto a lei. I due si amano, si prendono cura l’uno dell’altra, ma la vecchiaia li ha resi come due esseri viventi che si trovano per caso a condividere lo stesso spazio, ognuno impegnato nella propria attività. L’uomo e la donna sono insieme ma soli, ciascuno confinato nella propria cornice, anche letteralmente. Il film è infatti realizzato dividendo lo schermo in due parti, ciascuna delle quali segue in contemporanea uno dei personaggi. Anche quando sono seduti vicini al tavolo della cucina, l’immagine si spezza, divisa dai riquadri.
Come regista, da Irreversible a Climax, Noé è sempre stato attratto dagli estremi: dal sensazionale e dal depravato, dal sordido e dal malvagio. È come se la sua ricerca mirasse a illuminare l’oscurità fino a che non ci ritroviamo qualcosa di noi stessi. In Vortex le domande sono quanto mai attuali, soprattutto per un Paese come il nostro che invecchia sempre più: quanto siamo disposti a perdere della nostra autonomia? Quanto sa resistere l’amore davanti ai cambiamenti? E ancora: siamo in grado di prenderci cura l’una dell’altro come figli, mariti, madri, nipoti? Pur presentando momenti di grazia e tenerezza, il film esclude qualunque gesto consolatorio, perché se è vero, come scriveva Philip Roth, che invecchiare è un massacro, anche amare, spesso, non è la cosa migliore del mondo.
The Fabelmans, di Steven Spielberg
Ogni grande regista a un certo punto della propria carriera finisce per svolgere quello che forse è il compito più arduo per ogni persona: confrontarsi con la propria infanzia. Dopo Kenneth Branagh con Belfast e Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, per Steven Spielberg – che di capolavori ne ha firmati tanti – quel momento è arrivato con The Fabelmans, lungometraggio distribuito nelle sale proprio in questi giorni. Scritto insieme a uno dei suoi collaboratori abituali, Tony Kushner, The Fabelmans comincia là dove ogni fantasia prende vita: al cinema. Sammy Fabelman – figlio adorato, ragazzino visionario – si trova in una notte del 1952 a guardare il suo primo film insieme ai genitori. Si tratta de Il più grande spettacolo del mondo, pellicola uscita proprio quell’anno, da cui resterà colpito soprattutto dal climax dell’incidente ferroviario. Determinato a ricreare l’evento, dopo che ha popolato le sue notti di incubi, per poter controllare e comprendere la sua paura, Sammy trasforma il cinema in una passione sempre più grande, mentre attorno a lui la famiglia cade a pezzi.
È proprio nel rapporto di Sammy con i suoi famigliari che emerge il potere di The Fabelmans di raccontare l’essenza più vera del cinema di Spielberg, ricordandoci come fare film non sia solo un modo per inseguire i propri sogni, ma anche – se non soprattutto – per manipolare la realtà. Nella sua produzione, Spielberg è sempre stato in grado di trasformare un aneddoto quotidiano in un mito, superando o schivando il peso della realtà, trasformandola creando mondi diversi. Pieno di tenerezza, meraviglia e stupore, il film è una lunga lettera dedicata alla sua passione, densa ma mai pesante, che il regista scrive alla sua famiglia. The Fabelmans è, in qualche modo, riprendendo il titolo, una favola sia nelle grandi che nelle piccole cose – di cui il regista ammorbidisce i bordi più taglienti. Per dirla come il New York Times, è il film in cui Spielberg, finalmente, “telefono casa”.
Eo, di Jerzi Skolimowski
In Au hasard Balthazar, del 1966, il regista francese Robert Bresson ha raccontato la crudeltà dell’uomo attraverso gli occhi di un asino, dando vita a un’opera estremamente intensa, riconosciuta come una delle massime espressioni del cinema internazionale. Eo, l’ultimo film del regista polacco Jerzi Skolimowski e vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes di quest’anno, è un omaggio alla visione cinematografica di Bresson, che cita esplicitamente l’eredità del regista francese, da sempre una delle fonti di ispirazione di Skolimowski per la sua capacità di raccontare le figure respinte dal mondo o quelle che decidono di evitarlo per non essere corrotte dall’ingiustizia. L’asino di Eo appartiene pienamente a questo secondo gruppo ed è proprio la sua totale estraneità alle logiche umane a renderlo l’occhio migliore per osservare la decadenza del tempo che stiamo vivendo. Com’era accaduto nel film di Bresson, infatti, l’animale è costretto a lasciare il circo dove vive, iniziando un viaggio per l’Europa lungo il quale avrà modo di incontrare diversi personaggi, ognuno dei quali gli mostrerà una diversa caratteristica del mondo degli esseri umani, con tutte le sue bizzarrie.
Allontanandosi da qualsiasi stereotipizzazione, Skolimowski trasforma lo sguardo dell’asino in una lente di ingrandimento sulle contraddizioni della contemporaneità, che l’animale osserva con consapevolezza, dimostrando di saper ricordare, rielaborando il contenuto della sua memoria ed emozionandosi, e di poter formulare insieme allo spettatore una riflessione su ciò che sta accadendo in scena. Da immersi nel punto di vista dell’asino – nell’invidia che prova guardando una mandria di cavalli libera di galoppare, o nella curiosità con cui studia gli esseri umani – si ha dunque la possibilità di guardare la propria storia, quella di cui ci si è sempre ritenuti i protagonisti, da una nuova angolazione che decentra l’esperienza umana, rivelando così la posizione di antagonismo che spesso occupiamo.
Jane by Charlotte, di Charlotte Gainsbourg
“Perché impariamo a vivere senza le nostre madri? Sembra quasi uno scopo che ci diamo… emanciparci a ogni costo. Io non voglio emanciparmi”, dice Charlotte Gainsbourg nel suo debutto alla regia Jane by Charlotte, in cui si espone nel tentativo di superare il pudore che fin da piccola la caratterizza, esplorando il suo rapporto con la madre, Jane Birkin.
Il documentario diretto da Gainsbourg è profondamente intimo, commovente e accogliente, sia nelle scene girate tra le mura domestiche di Jane, nel suo vecchio giardino (dove appare anche la piccola nipote, Alice, che pianta dei semi insieme alla nonna), ma anche in sala di registrazione, su un palcoscenico, o su un tetto di New York. Con grazia e dolcezza le due icone del cinema e della musica rock si confrontano con semplicità e poche pesate parole su temi enormi, che anche quando sembrano molto distanti tra loro sono in realtà molto prossimi e intrecciati. Il rapporto con la propria immagine e la sua percezione, con la posa e il farsi ritrarre, la disponibilità nel lasciarsi toccare, raggiungere, la maternità, il pudore, il corpo, la famiglia, gli uomini, il pubblico, i viaggi, gli oggetti, il giardinaggio, le case, la relazione coi figli, la capacità di affrontare il suicidio della sorella di Charlotte, la fotografa Kate Barry, l’ansia di controllo, la gelosia, il non sentirsi adeguate: tutto nel documentario, quando viene avvicinato da Charlotte e Jane, assume le sfumature di un segreto svelato a mezza voce, tra due donne molto diverse e molto simili allo stesso tempo. Charlotte ci mette le immagini, il ritmo, il montaggio, lo sguardo, la musica; Jane la sua maturità, la sua esperienza, il suo essere contemporaneamente un simbolo e una persona.
Charlotte Gainsbourg si inserisce con questa sua opera nel solco intimista documentaristico di tanti grandi autori del cinema francese, da Agnès Varda a Chris Marker, dando vita a un dialogo filmico a due voci, tra presente, passato e futuro, realtà e ricordo. Una sorta di lettera intima cinematografica immersa in un’atmosfera fiabesca, sospesa, evocativa, in cui una madre e una figlia dopo tanti anni ritrovano un modo per accarezzarsi e dirsi che si sono sempre amate.
Sergio Leone – L’italiano che inventò l’America, di Francesco Zippel
Ci sono registi che hanno reso i loro film imprese geografiche, oltre che cinematografiche, perché hanno saputo costruire mondi nuovi, tanto suggestivi e credibili da diventare punti di riferimento nell’immaginario del pubblico. Tra essi, uno dei più grandi è stato Sergio Leone: “l’italiano che inventò l’America”. Questo appellativo, che descrive perfettamente l’intenzione cinematografica e l’opera del regista romano, fa da titolo all’ultimo documentario di Francesco Zippel – autore già cimentatosi in un biopic nel 2018 con Friedkin Uncut – Un diavolo di regista – presentato alla Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno. Il film ripercorre l’universo a cui il cinema di Leone ha dato vita, attraverso le testimonianze di coloro che hanno potuto abitarlo, contribuendo a tracciare i confini del western all’italiana. Tra gli intervistati compaiono grandi personaggi come Clint Eastwood, Jennifer Connelly, Robert De Niro, Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Steven Spielberg, Giuliano Montaldo e, immancabilmente, Ennio Morricone.
Il documentario si fa strada fra i ricordi dei colleghi, degli amici e della famiglia di Leone, che sottolineano quanto intensamente il regista volesse portare più vicino a sé l’America del Far West, un mondo distante che aveva riempito le sue fantasie da bambino e che lo ha guidato alla scoperta degli archetipi del genere western classico, per poi cambiarne la composizione e trasformarlo in qualcosa di significativamente diverso, unendo l’estetica statunitense alla profondità del cinema italiano. Quello di Zippel, dunque, è un documentario che celebra la vena outsider e l’istinto creativo di Sergio Leone, con la sua naturale capacità di produrre nuovi linguaggi; ma è ancor di più un film sull’eredità che ha lasciato alle successive generazioni di autori, sull’insieme di suggestioni, intuizioni e sperimentazioni che ancora oggi vivono nel cinema contemporaneo grazie a tutti i registi che hanno deciso di fare cinema dopo aver visto C’era una volta in America.