“Memory” ci mostra quanto le cose che non ricordiamo ci facciano sentire incompleti e inadeguati - THE VISION
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Ci ho messo anni, dopo la fine del liceo, a capire per quale motivo le persone adulte tenessero così tanto alle rimpatriate con i vecchi compagni di scuola. Mi ci è voluto tempo per comprendere il senso profondo di quella ritualità a suo modo irrimediabilmente faticosa: il gruppo whatsapp, la ricerca di una data che metta d’accordo una ventina di persone con vite completamente diverse, l’impresa non sempre facile di trovare argomenti di conversazione comuni, la sensazione di aver perso quasi del tutto la familiarità che invece si condivideva anni prima. Ora che anche io ho finito il liceo da quasi dieci anni, e mi trovo a percepire un legame sempre più debole con tutto ciò che sono stata in quel periodo della mia vita, quasi da arrivare a scordarne dei pezzi, lo scopo di queste occasioni mi è diventato molto chiaro. Allontanandomi sempre più dai ricordi della me adolescente, con il passare degli anni, mi sono resa conto che il desiderio di vivere questi momenti di analessi, di flashback controllato, nasce da un bisogno di conforto di fronte al tempo che scorre, e che ci porta a voler mantenere un contatto con le versioni passate di noi stessi, quando non vogliamo dimenticarle del tutto. Per questo mettersi nel tempo del “riavvolgimento”, ricreando le condizioni di una riunione tra persone che ormai sarebbe molto improbabile incontrare per caso, diventa un modo per tenerci insieme, per rimanere saldi e sentirci “interi”, anche di fronte al flusso dei nostri cambiamenti nel tempo.

Non è dunque un caso che Memory, film del regista messicano Michel Franco disponibile su Paramount+, si apra proprio con una rimpatriata tra vecchi compagni del liceo, che all’interno della trama diventa il perfetto prologo dei temi attorno cui graviterà l’intera narrazione: la memoria, l’oblio, ma soprattutto i tentativi di ricostruzione del passato che ci portano a riflettere sulla nostra identità passata e su quella presente, sui ricordi che vorremmo custodire per sempre e su quelli che, per un motivo o per l’altro, preferiremmo rimuovere. Sylvia, la protagonista del film – interpretata da una straordinaria Jessica Chastain –, dopo essersi costretta a partecipare stancamente all’appuntamento, si comporta esattamente come io ho fatto per anni: parla solo con le amiche con cui ancora è in contatto, ignora le altre conversazioni fatta eccezione per alcune risposte imbarazzate, decide di tornare a casa presto. Proprio sulla strada di casa, però, si rende conto di essere seguita da un uomo in cui riconosce Saul – personaggio affidato a Peter Sarsgaard, premiato con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla Mostra del Cinema di Venezia 2023 –, anche lui ex studente del suo stesso liceo ma di qualche anno più grande.

Ciò che colpisce sin dal primo incontro tra i protagonisti di Memory è che il loro avvicinamento avviene in base a una ricostruzione errata della memoria – usata nel film come metafora della solidità interiore –, a un doppio equivoco, che ribalta la percezione che Sylvia ha di Saul – e allo stesso tempo quella dello spettatore nei suoi confronti. Il motivo per cui Saul segue Sylvia, infatti, non riguarda uno dei pedinamenti o delle persecuzioni ai danni delle donne che oggi rappresentano uno dei più citati argomenti di cronaca con dati decisamente preoccupanti , ma la demenza precoce da cui l’uomo è affetto, e a causa della quale ha dimenticato la strada di casa. Allo stesso tempo Sylvia, convinta in un primo momento di aver riconosciuto in Saul un uomo che durante l’adolescenza aveva abusato di lei, si trova a dover rispolverare quel ricordo traumatico ormai sepolto da anni di vita, rendendosi conto di aver accusato la persona sbagliata, e di non avere chiara l’identità dell’aggressore che riempirebbe quel tassello mancante della sua memoria.

In questo senso, dal momento in cui Sylvia discolpa Saul, al punto da decidere di prendersi cura di lui come infermiera a domicilio, il rafforzamento del loro legame procede a colpi di rimosso, dando a entrambi l’occasione di confrontarsi con il rapporto conflittuale che hanno con la propria memoria, e quindi con il proprio passato. L’intesa affettiva, poi romantica, tra i due protagonisti trova dunque terreno comune in una mancanza condivisa, ovvero quella legata alle rispettive carenze di definizione mnemonica, da cui Franco decide partire per spostare il focus da un più classico ritratto dei sintomi dell’Alzheimer che pure c’è, nel Saul che senza ribellarsi accetta soffusamente di veder svanire ogni ricordo a breve termine, ricordando personaggi come la protagonista di Still Alice interpretata da Julianne Moore, o il personaggio di Anthony Hopkins in The Father a un gioco di specchi tra la memoria assente per malattia, quella rimossa per trauma, e quella ricostruita in base agli elementi che restano, anche se spesso inesatta. Il centro attorno a cui ruota tutto il film non è dunque la malattia di Saul, ma la frammentazione della memoria come fattore che impedisce ai personaggi di avere un contatto con i propri sé passati, lasciandoli in uno stato di sospensione dolorosa che preclude loro una narrazione lineare del proprio io nel tempo, e li rende in qualche modo inadatti, inefficienti, guasti, agli occhi delle persone che li circondano.

Questa inadeguatezza, nel film, viene però lenita nel momento in cui Saul e Sylvia riescono a crearsi una dimensione protetta, propria, riservata esclusivamente alla cura dell’uno nei confronti dell’altra, che diventa così una dimensione di “tempo ritrovato”, per dirla alla Proust, citando l’ultimo capitolo del suo “Alla ricerca del tempo perduto”. In questo luogo privato, infatti, Sylvia e Saul sembrano scoprire il senso qualitativo del tempo, quello legato alle parti più significative del loro vissuto soggettivo, che danno consistenza alla loro esistenza – perché legate agli affetti, al tempo trascorso insieme, ai sentimenti che li uniscono – al di là della collocazione più o meno precisa che esse possono trovare su una linea temporale – e soprattutto al di là di eventuali intrusioni dell’oblio, che nel film non agiscono mai sul rapporto tra i due, dato che Saul non dimentica mai chi sia Sylvia per lui.

Questa forma di protezione reciproca che Sylvia e Saul riescono a costruire rispetto alla loro sofferenza è una novità nella filmografia di Franco, che prima di Memory aveva sempre raccontato soprattutto l’incapacità umana di governare il proprio dolore. Ne è un esempio emblematico il protagonista di Sundown, precedente film del regista, dove il tema della memoria rimossa dal trauma viene affrontato facendo attraversare al personaggio principale un trip di immagini legate al suo vissuto dimenticato, che riemergono senza che le possa bloccare o allontanare in alcun modo, sottoponendo il suo sguardo e quello dello spettatore a scene di violenza estrema, che bucano la diegesi del film e vengono presentate come in qualche modo “inevitabili” ai fini del racconto. Al contrario, nel caso di Memory, la scelta è diametralmente opposta: nel momento in cui lo spettatore scopre che l’uomo responsabile degli abusi su Sylvia è suo padre, ciò che viene mostrato in scena è soltanto il profondo dolore che la protagonista prova una volta messi a fuoco i suoi ricordi. Questa sofferenza, infatti, viene descritta aggirando la rappresentazione diretta della violenza subita, per lasciare spazio alla sua potenziale “cura” con scene che mostrano l’attenzione, il conforto, la consolazione che Saul prova a procurare a Sylvia. Quasi a indicare una nuova direzione del cinema di Franco, che sembra non considerare più del tutto ineluttabile il destino di sofferenza a cui ha sempre consegnato i suoi personaggi, ma tenta di trovare delle possibili vie per attentuarlo, rendendolo qualcosa con cui è possibile convivere.

Il ricordo degli abusi subiti da Sylvia, inoltre, introduce a un tema particolarmente attuale che resta sempre presente sullo sfondo di Memory. La protagonista femmilie, infatti, incarna un sentimento di paura nei confronti del genere maschile comune a molte donne, che agisce profondamente sulla sua vita, portandola a impedire alla figlia adolescente di avere dei fidanzati educandola quindi allo stesso timore –, ma anche a rimandare il più possibile il momento del primo rapporto sessuale con Saul, pur sentendo di desiderarlo. Nonostante siano molti i film che trattano di violenza sulle donne, non è altrettanto frequente che questo tipo di sentimento – che in maniera più o meno conscia credo proviamo in tante – venga rappresentato, rimanendo un “non detto” narrativo, che al contrario diventa sempre più presente e raccontato nella realtà che viviamo, sia perché cresce ogni volta che ne troviamo conferma nella nei fatti, leggendo dell’ennesimo femminicidio avvenuto, sia perché ancora sentiamo il bisogno di insegnarlo di generazione in generazione alle giovani donne, facendo percepire la paura come una difesa dal pericolo costante del maschile – invece di agire sia sul piano legale che su quello culturale per togliere agli uomini i mezzi con cui agiscono questo timore opprimente. In Memory, invece, questa paura viene esposta come un dato di fatto, senza commento o giudizio, mostrando lucidamente lo sbilanciamento nei rapporti di genere come una delle componenti “devianti” della realtà in cui ci muoviamo.

Ciò a cui si assiste lungo la durata di Memory, dunque, è un’operazione di ricostruzione delle anime frammentate – dal trauma, dalla malattia, dalla percezione di inadeguatezza che hanno di sé – di Sylvia e Saul, che riescono a trovare, all’interno del loro legame, una compensazione ai ricordi mancanti che li fanno sentire incompleti. Il racconto di Franco si spinge così in un percorso di definizione identitaria apparentemente anomalo, ma non per questo meno legittimo, che invece di narrare i due protagonisti nel tempo, vedendoli unicamente come prodotti di un tragitto lineare e consequenziale, decide di presentarli nella forma datagli da ciò che di intenso hanno vissuto, soprattutto a partire dal loro primo incontro, scegliendo quindi uno spazio preciso e ristretto della loro vita che li ha però profondamente plasmati. Passando dai temi cari al regista, come il nostro rapporto con il dolore, i tentativi che mettiamo in atto per lenirlo, la capacità di relazionarci con ciò che siamo – ovvero anche con le parti più oscure e nascoste di noi stessi, come possono essere la scia di un’esperienza traumatica o le conseguenze ad ampio spettro della malattia sulla nostra auto-percezione il film tenta così di liberarci dai limiti che ci poniamo quando tentiamo di restituire un ritratto lineare e coerente del nostro percorso identitario, privo di tutti gli inciampi, i cambi di direzione, le incongruenze e i disorientamenti che invece lo riguardano. Nonostante le proprie “incrinature” interiori, infatti, i personaggi di Sylvia e Saul riescono a trovare la propria strategia di sopravvivenza non nella continua pretesa di sentirsi “interi”, ma nel tentativo di trovare, in questo caso in un legame intimo e profondo, la possibilità di accettarsi senza doverle per forza ricomporre.


Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Paramount+, il servizio globale di streaming di Paramount che offre un’ampia selezione di serie originali e film grazie ai suoi brand iconici. Guarda ora “Memory” – il film di Michel Franco con Jessica Chastain e Peter Sarsgaard – e gli altri contenuti esclusivi.

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