Marty Feldman ha reso i suoi difetti un punto di forza interpretando ruoli e personaggi fantastici - THE VISION
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Non si può negare che quello che stiamo vivendo per la comicità è un momento di grandi cambiamenti. Al di là dei modi in cui si propaga e si condivide oggi, c’è un altro discorso centrale che riguarda il dibattito sui temi e sulle parole che si usano per fare ironia. Questa discussione – che negli ultimi tempi è riscoppiata a causa di diversi episodi circoscritti e tutto sommato fugaci, nonostante il frastuono che di volta in volta creano nell’immediato – può farci riflettere su un personaggio scomparso ormai molti anni fa e su un tipo di comicità di cui possiamo considerarlo portavoce e avanguardia, Marty Feldman.

Feldman è stato un grande esempio di ciò che oggi definiremmo “resilienza” e che un tempo si descriveva col modo di dire “Far di necessità virtù”, insomma un personaggio che partendo da uno stato di svantaggio e diversità – ebreo, immigrato, povero, pluri-incidentato e affetto da una sindrome alla tiroide – ha convertito la sua disgrazia in una carriera comica esemplare. La riflessione rispetto all’oggi, senza voler tirare in mezzo sospiri nostalgici sui tempi andati – tempi che peraltro nel caso di Feldman non ho nemmeno vissuto – partendo dal suo esempio ci si potrebbe allora focalizzare sul non confondere il rispetto per una categoria di persone marginalizzata con un’ulteriore marginalizzazione, quella che consiste nel considerare la diversità come se fossero parte di una specie protetta isolata e confinata, in stile riserve naturali di nativi americani. Feldman, che di stranezze ne aveva molte, con un volto così deforme da sembrare un cartone animato disegnato in modo assurdo, è riuscito a trasformare questa sua caratteristica in un punto di forza riconoscibile e unico. Ha così spiattellato in faccia a tutto il mondo la sua unicità – che non ricadeva sotto alcun tipo di etichetta –  in prima serata in tv, al cinema, diventando lui stesso artefice della presa in giro e diventando così il padrone assoluto di qualsiasi forma di discriminazione verbale nei suoi confronti.

Marty Feldman, Beverly Hills, 1977

Questo discorso è chiaramente molto complesso, dal momento che ci sono situazioni, contesti e persone che non hanno nessuna intenzione di depotenziare la discriminazione usando l’ironia ma solo di utilizzare scorciatoie comiche banali e superficiali – c’è una grande differenza tra becero bullismo e un sano scacco matto all’ipocrisia del non detto. Detto ciò, la particolarità della vita artistica di Marty Feldman è stata proprio quella di creare un personaggio, quasi una maschera in carne e ossa che portasse lo spettatore non a compatirlo, né a provare disgusto o stupore, secondo la tradizione del classico genere del freak show, ma di mettere al centro della scena la sua bruttezza, trasformandola in un mezzo di espressione che di fatto è rimasto nella storia.

Marty Feldman con la moglie Lauretta Sullivan

Feldman è infatti il volto di un personaggio che, anche non avendo visto il film, tutti sappiamo riconoscere, ossia il gobbo di Frankenstein Junior, il capolavoro di Mel Brooks del 1974. Non solo la sua faccia così grottesca è diventata il simbolo di un lungometraggio che probabilmente non smetterà mai di far ridere, nemmeno tra cent’anni, ma le sue battute sono diventate espressioni di uso comune per quanto sono iconiche. “Potrebbe esser peggio, potrebbe piovere”, per esempio, la più popolare, ma anche “Lupo ululà e castello ululì” sono solo due delle citazioni del personaggio di Igor, l’aiutante del dottor Frankenstein, che con la sua andatura sbilenca, le sue apparizioni dal nulla e i suoi immancabili occhi deformi è diventato uno degli elementi più memorabili di un capolavoro tale.

Frankenstein Junior (1974)

Marty Feldman, che oltre alla malattia alla tiroide e gli incidenti che aveva avuto da ragazzo è anche morto molto giovane di infarto, ad appena quarantotto anni, non è stato però solo l’Igor di Mel Brooks, regista con cui ha collaborato anche in seguito nel corso degli anni Settanta in film come The Adventures of Sherlock Holmes’ Smarter Brother e Silent Movie. La sua presenza nella televisione americana, per esempio, venne consacrata dal programma del famoso cantante e attore italo-americano Dean Martin nel suo The Dean Martin Show; mentre nel Regno Unito recitava in trasmissioni satiriche che lo resero un volto storico della tv di quel periodo – come The Marty Feldman Comedy Machine –  a fianco di comici del calibro dei Monty Python; e in Italia appariva in alcune commedie sexy dello stesso periodo, genere che in quegli anni spopolava e pescava molto anche tra i volti simbolo della comicità.

The Adventures of Sherlock Holmes’ Smarter Brother (1975)

Il suo genere di intrattenimento, sia per quanto riguarda il cinema che la tv, ruotava tutto attorno a questa auto-parodia brillante, piena di non-sense – una forma di umorismo che trova nella tradizione britannica i suoi antesignani – e di momenti surreali che si possono apprezzare anche nelle sue apparizioni all’estero, come per esempio nella sua ospitata da Corrado alla Rai. Il disagio della sua stranezza – universale nel modo di colpire lo spettatore e ribaltato dalla sua autoironia costruita su anni di sperimentazione sulle proprie potenzialità mimiche – erano la chiave di lettura che il comico aveva dato non solo alla sua esperienza nello spettacolo ma a tutto il mondo attorno a lui. Marty Feldman, infatti, era anche un uomo profondamente anticonvenzionale, diventato vegetariano a soli cinque anni per via della condizione di estrema povertà in cui si trovava con la sua famiglia da immigrato in Inghilterra: dovendo procacciare cibo, e vedendo tutto il processo che portava un animale dalla vita alla morte, l’attore aveva scelto di non toccare più carne, in un momento storico in cui una scelta simile poteva sembrare assurda.

Silent Movie (1976)

Anche da un punto di vista politico Feldman è sempre stato schierato a estrema sinistra, un uomo della working class, un socialista che riteneva il partito laburista fin troppo moderato rispetto alla sua visione, orientata verso un’idea di società in cui la ricchezza è semplicemente ingiusta e necessita di essere distribuita per evitare che altre persone, come lui, vivano in condizioni di estremo disagio, un principio che oggi sembra sfuggire a molti artisti e intellettuali. Ma persino nella sfera dei diritti civili Feldman diede prova della sua anima progressiva e della sua missione aritstica, che non si limitava alla risata ma a una piccola rivoluzione rispetto ai “diversi” e al modo in cui sono sempre stati trattati dalla società, denunciando una campagna anti-omosessuale di Anita Bryant durante la promozione del film The Last Remake of Beau Geste.

The last remake of Beau Geste (1977)

La storia di Marty Feldman e la traccia indelebile che ha lasciato nel cinema e nello spettacolo, dalla tv alla radio, nonostante la sua vita breve, sono un grande esempio di cosa significhi davvero la parola inclusività. L’ironia e il modo di scherzare, in qualsiasi settore dell’intrattenimento, non sono entità rigide, mosse da regole precise e imprescindibili: ciascuno di noi ha qualcosa che lo fa ridere ma che alla persona di fianco può offendere, e viceversa. Questo meccanismo non può essere scomposto in modo induttivo, cercando i singoli esempi e decidendo cosa si può e cosa non si può dire, è un processo che parte da una modifica prima di tutto culturale e strutturale del mondo che cambia. Allo stesso tempo, trincerarsi dietro a concetti come quello della libertà d’espressione per negare qualcosa di ovvio, ossia che alcuni modi di scherzare non sono divertenti ma solo offensivi non è uno sforzo così enorme, è solo una questione di civiltà, progresso e buonsenso. Il punto è che, nel modo giusto, con parole intelligenti e intenzioni rivoluzionarie come quelle di Marty Feldman si può ridere davvero di tutto, persino di un volto deturpato da una malattia. E non perché un uomo con gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite sia qualcosa di ridicolo, ma perché quella stessa persona è stata così brava e libera da trasformare la cosa peggiore che gli è successa nella cosa migliore che ha, rendendoci tutti partecipi di questa intuizione. Questo è un grande modo di fare comicità, perché le disgrazie, le marginalizzazioni, le sfortune non finiscono mai, e depotenziarle è un buon punto di partenza, anche perché come Feldman ci ha detto, nella vita potrebbe sempre andare peggio, “Potrebbe anche piovere”.

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