C’è una puntata del compianto The Leftovers intitolata International Assassin in cui Kevin, il protagonista della serie interpretato da Justin Theroux, si risveglia in una sorta di sogno, allucinazione e in questa realtà altra deve compiere un omicidio, deve uccidere il Presidente degli Stati Uniti. Gli attori che interpretano i personaggi di questa distopia sono gli stessi della normale realtà in cui Kevin vive, solo che in questo sogno vestono ruoli diversi, adattati al mondo distorto in cui si trovano. Kevin non è chiaramente un assassino, ma capisce che deve stare al gioco se vuole arrivare alla verità che questa visione veicola. Nell’episodio precedente era stato spinto a togliersi la vita con la promessa – poi mantenuta – di ritrovarsi in un mondo altro, un mondo dove avrebbe finalmente potuto affrontare i suoi demoni interiori, entrando in contatto con il suo vero “io”.
Non è un caso che fra i produttori di The Leftovers ci sia Patrick Sommerville, il creatore di Maniac, la nuova limited series in 10 episodi di Netflix, remake di una omonima serie norvegese. Non è un caso perché il trucco narrativo alla base di International Assassin è quello alla base dell’intero costrutto di Maniac. Un trucco che, in The Leftovers, lasciava a bocca aperta e che in Maniac, invece, lascia con una bocca mezza socchiusa, che non si capisce se è uno sbadiglio o un “wow” interrotto a metà. Ho fatto passare qualche giorno prima di scrivere su Maniac perché, appena finita la serie – ci ho messo quasi una settimana, non è una serie con cui fare binge watching – non sapevo bene che posizione prendere. Era come se tutto in quella serie mi invitasse a postare esclamazioni di gaudio sui social, a condividere musiche gridando al capolavoro, a copia-incollare citazioni sagaci e metafisiche riportate in sceneggiatura. Ma io niente.
Tutto in Maniac è costruito alla perfezione per stupire, agganciare, irretire uno spettatore consapevole del 2018, una precisa categoria merceologica di utente di serie tv. Il gusto retrò portato all’esasperazione, un insieme di attori generazionali, il citazionismo infinito, il futuro fighetto dalle tinte pastello sembrano comporre una check list, una lista della spesa di trend topic da social degli ultimi anni dal titolo: “Elementi da inserire per avere una serie di successo”. Aggiungici il tema centrale sulle malattie mentali e la viralità è assicurata. E infatti in molti hanno gridato al capolavoro, riflettendo sulle valenze psicoanalitiche del racconto e citando Black Mirror, Gondry, Jonze e, ovviamente, Kaufman. Un abbaglio in cui era più che facile cadere. Perché il problema, con Maniac, credo che sia proprio questo: la forma vince sul contenuto. Il cuore dell’operazione fatica ad arrivare, e il modo in cui arriva spesso non è chiaro.
Annie e Owen sono due anime perse in una New York di un futuro che assomiglia a quello che avremmo potuto immaginare negli anni Ottanta. Robottini deliziosi girovagano pulendo la cacca di cane, koala robotici color magenta giocano arroganti a scacchi nei parchi e, al posto della Statua della Libertà c’è la Statua della Maxi Libertà. In questa New York digitalizzata da un Commodore 64 troviamo Emma Stone, Annie, e Jonah Hill in versione magra, Owen. Annie è una tossicodipendente alla ricerca di pillole “A” che, apparentemente, hanno come unico effetto quello di farla dormire per giornate intere. Ci viene presentata come un personaggio subdolo, che non si fa scrupoli nel ricattare e ingannare chi le sta accanto pur di ottenere una nuova dose. Owen, invece, è il quinto figlio di una ricca famiglia di ebrei. Soffre di schizofrenia – vede persone e situazioni che non esistono realmente – ma la sua famiglia fa di tutto per trattarlo normalmente. Non per affetto, ma per evitare l’imbarazzo di ritrovarsi con un figlio malato. Owen e Annie, per motivi diversi – Annie per ottenere nuove pastiglie A, Owen per cercare di curarsi in vista di un processo – finiscono in un test farmaceutico condotto da una dubbia industria di medicinali. Il test garantisce la guarigione dalle proprie malattie mentali attraverso il superamento di tre fasi, corrispondenti all’assunzione di tre pillole A, B e C. A pilotare il test c’è un computer, un A.I. di nome Gertie la cui identità è copiata da quella di Sally Field, mentre il dottore che ha invitato questo metodo è uno splendido Justin Theroux, di The Leftovers memoria, qui nei panni di uno scienziato calvo e paranoide.
Le fasi di superamento della proprie malattia vengono raccontate attraverso l’immersione completa nelle fantasie dei pazienti. Quindi, proprio come per International Assassin, anche in Maniac ci ritroviamo catapultati in mondi lontanissimi da quelli in cui abbiamo visto fino a poco prima i nostri protagonisti. Siamo in un dramedy alla fratelli Coen su una coppia di bifolchi che cerca di recuperare un lemure rubato da una non meglio precisata mafia. Siamo in una sorta di Terra di Mezzo con elfi improbabili. Siamo in un film sul furto di un oggetto prezioso con ladri raffinati ed eleganti. E la costante di tutte queste fantasie sono loro due, Owen e Annie, uniti inspiegabilmente nelle loro visioni, persone sole alla disperata ricerca di una connessione (da qui il riferimento a Kaufmann e Gondry: per via del richiamo a Eternal Sunshine of the Spotless Mind).
La regia di tutti e dieci gli episodi di Maniac è di Cary Joji Fukanaga. Fukanaga è bravissimo. È, credo, uno dei migliori talenti registici emersi negli ultimi anni. Tutti lo conoscono come il regista della prima stagione di True Detective, ma non dimentichiamoci di Beasts of no Nations, film Netflix dalla violenza visiva – e non solo – indicibile. Il mondo che Fukanaga costruisce per Maniac è meraviglioso e pieno di invenzioni. Viene la tentazione di mettere in pausa per osservarne i dettagli. La critica potrebbe essere quella di aver messo in scena un futuro un po’ troppo instagrammabile, un po’ troppo legato a una coolness contemporanea, ma rimane comunque un piacere visivo indubbio. Il design di interni è stupefacente così come gli elementi scenografici esterni, vedi i robot e i macchinari elettronici. Anche Sommerville contribuisce con belle invenzioni alla costruzione di questo futuro. Gli Ad Buddy – se non si hanno abbastanza soldi per un acquisto ci si rivolge a questo Ad Buddy che mette i soldi al posto tuo, affiancandoti però per un tempo proporzionale ai soldi spesi una persona che illustra in modo abbastanza pedante possibilità commerciali – o gli amici a pagamento – se non si hanno amici si paga persone che recitano la parte scritta di un’amicizia – sono idee spassose con un certo valore da critica sociale che non disdegniamo. Il mondo all’interno della laboratorio è un altro esempio di collaborazione riuscita tra Cary e Patrick. Il maxi computer GRTA che piange per la perdita del suo amato è una scena ben riuscita. Così come ottima, oltre al design, è tutta la descrizione surreale della vita all’interno della sperimentazione medica. Il team di scienziati, pur nella loro assurdità, è raccontato con pennellate di realismo che ce lo fanno amare.
La direzione degli attori di Fukanaga è ottima, a partire proprio dallo scienziato Theroux che con la sua dolcezza rende credibili tutti i tic più ridicoli del Dott. Mantleray. Emma Stone, con i suoi occhioni perennemente emozionati è credibile nei suoi passaggi da un ruolo all’altro. Sia quando la vediamo nei panni “normali” di Annie, sia quando diventa un Elfo volgare e mercenario, e le crediamo perché Emma è proprio brava. Meno bravo è invece Jonah Hill. La sua espressione contrita e sofferta funziona nei panni di Owen, rampollo trascurato dalla famiglia, ma non regge nei panni di un mafioso, o di un ladro in smoking. Non spicca per le sue capacità di trasformista, si diverte meno della Stone, e si vede. A sua discolpa però va detto che la storia di Annie è meglio costruita in ogni aspetto, e occupa sempre più spazio man a mano che la trama procede. È affascinante il concetto che una persona sia addicted al giorno di maggiore sofferenza e che cerchi di riviverlo continuamente solo per passare qualche istante di più con il ricordo di una persona persa. Così come è sicuramente interessante il modo in cui il tema della perdita – e di come essa vada superata – viene affrontato grazie alla storia di Annie. Più piatto è invece il racconto di Owen. Non riusciamo a fare il tifo fino in fondo per questo ragazzino impacciato che non ce la fa a vivere secondo gli standard dei propri fratelli e che si immagina complotti e persone che non esistono.
Non ho idea di come possa vivere una persona malata di schizofrenia o con altri problemi mentali, quindi non so se il ritratto che ne fa Maniac sia efficace oppure no. Quello che posso valutare è invece l’emozione che le storie di questi personaggi riescono a trasmettere. Ed è rimasta tiepida. Nel desiderio di rendere più umana la storia di un computer che controlla le emozioni di persone “danneggiate” si è voluto buttare nel calderone troppi sentimenti, tanti tópoi – la ricerca di un’anima gemella, la ricerca di una connessione profonda col nostro io e con gli altri, la ferita che ci si porta con sé – senza però riuscire a mettere un vero punto sui vari discorsi intrapresi.
Tutti questi sono discorsi che, presi singolarmente, valgono interi film. Si pensi a quante splendide pellicole sono state girate su persone che devono accettare la perdita di una persona cara, o a quante serie esistono su famiglie disfunzionali (non lo sono tutte?). Qui, questi elementi tematici, sono solo due fra gli ingredienti di una ricetta esagerata.
Credo che Annie e Owen non mi potranno mai mancare come invece mi mancarono Joel e Clementine ai tempi. Peccato, perché l’audacia nella scelta e nella costruzione di questa serie sicuramente c’era, e il talento delle persone in cabina di regia pure.