Se è vero che l’occhio di ogni autore si allena sulla realtà, lo sguardo di Liliana Cavani fin dai suoi esordi in tv ha anticipato di anni il dibattito politico italiano su temi importanti come il ruolo della donna nella società, la burocrazia, la speculazione edilizia e il condizionamento culturale della Chiesa. Pur essendo una delle registe della storia del nostro cinema più originali di sempre, però, Cavani è ancora oggi troppo poco celebrata.
Liliana Cavani, classe 1933, quando nel 1960 giunge a Roma dalla provincia di Modena per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia si è appena laureata in Lettere antiche, formazione che lei stessa sottolinea sempre nelle sue interviste. In quell’anno lei fu l’unica donna a frequentare il corso di regia, in una classe formata da molti studenti provenienti da tutto il mondo per seguire i corsi della prestigiosa scuola. Per il suo primo cortometraggio, La battaglia, riceve il Ciak d’ Oro di fine Accademia. Il titolo ha in sé il senso del suo vissuto familiare e, in nuce, il filo sottile del tema di fondo che attraverserà buona parte delle sue opere successive. Cresciuta a Carpi in una famiglia di sindacalisti, da piccola non furono poche le conversazioni tra il nonno e i partigiani che ebbe modo di ascoltare in casa. Probabilmente è tra quelle parole che maturerà il senso di ribellione che porterà dentro film come I cannibali, La pelle e Galileo.
Nel 1961 la Rai lanciava il suo secondo canale di Stato, Rai 2, e in tempi di lottizzazione non sospetta, quando la tv nazionale svolgeva un compito pedagogico nei confronti dei suoi telespettatori, tra le prime fila di una pionieristica formazione dei quadri aziendali c’era anche una giovanissima Liliana Cavani. La regista vinse il concorso, ma poi rifiutò il posto per non rischiare di passare la vita “a fare solo riprese”. Cavani però influenzò profondamente il secondo canale entrandoci come collaboratrice esterna e iniziando a realizzare una serie di documentari inediti attraverso i quali lascerà il suo segno, diventando una delle autrici più stimate da storici dirigenti d’azienda come ad esempio Ettore Bernabei, colui che portò in Rai il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli e Gli atti degli apostoli di Roberto Rossellini, uno dei più convinti sostenitori della tv come servizio pubblico, una delle figure più potenti e positive della Democrazia Cristiana.
Il documentario diventa la sua prima forma di espressione e L’uomo della burocrazia, la prima prova d’autore firmata Rai. Qui, Cavani, con una buona dose d’ironia, spiegava “l’invenzione del subordinato”, della casta e della gerarchia. La burocrazia era già un complesso problema della pubblica amministrazione, la proliferazione di enti inutili che diventavano uffici di collocamento in esubero, andava spiegata al pubblico usando un linguaggio semplice e altamente fruibile. Così nacque la collaborazione giornalistica con Livio Zanetti e quella con l’illustratore Pino Zac, il primo fumettista a entrare con le sue strisce in tv.
Durante i suoi anni in tv regalò numerosi successi di audience alla Rai, portando sul piccolo schermo una serie di episodi sui totalitarismi del Novecento come La storia del terzo Reich. Un documentario sulla Grande Guerra e gli orrori del Nazismo che non era mai stato trasmesso sui canali di Stato. Dopo un lunghissimo lavoro di editing passato all’Istituto Luce, a visionare centinaia di ore di filmati originali della seconda guerra mondiale, la guerra in assoluto più filmata fino ad allora, Cavani realizza il primo reportage sugli orrori del Nazismo. L’ingombrante eredità della seconda guerra mondiale costituirà lo sfondo narrativo di capolavori come Interno Berlinese e Il portiere di notte, ma il cinema sarebbe arrivato dopo.
Nei tre episodi che costituivano il documentario si spiegavano le origini della propaganda antisemita che passava attraverso i sussidiari di scuola, i rituali di esaltazione sacrale dell’impero, il revanscismo dei tedeschi, l’apologia del nazismo e la scoperta dei campi di concentramento. Tutte immagini di repertorio inedite che raggiunsero il 70% di share. Un successo clamoroso che la Rai avrebbe voluto cavalcare trasmettendo gli episodi anche sul primo canale, ma l’ambasciata tedesca fece sapere di non gradire e la replica non venne così mandata in onda.
I documentari storici sui totalitarismi europei proseguirono con L’Età di Stalin, ma fu con La donna nella Resistenza che Cavani fece scoprire agli italiani l’importanza strategica delle donne in quel periodo. La guerra era passata sul grande schermo con i film di Roberto Rossellini come Roma città aperta, Il generale Della Rovere e poi La grande guerra di Mario Monicelli, ma in tv nessuno aveva mai parlato dei ruoli femminili. Così, nel 1965, Liliana Cavani, in memoria di tutte le partigiane che aveva conosciuto da piccola, realizza un prezioso documentario nel quale intervista numerose donne che raccontavano di aver fatto la guerra combattendo in battaglia, o rischiando la vita come staffette. La paura di torture e violenze non le aveva fermate. E tutto questo in un periodo storico nel quale le donne non avevano nemmeno il diritto di voto.
Nel 1966 la regista punta a realizzare il suo primo lungometraggio: Francesco d’Assisi, il primo film sulla vita del santo a cui Cavani dedicherà tre opere nel corso della sua carriera. La prima stesura era stata scritta da Tullio Pinelli, uno degli sceneggiatori di Fellini, come drammaturgia per il teatro. Liliana Cavani accetta di girarlo solo a patto di riscriverlo, e dalla sua penna verrà fuori il profilo del primo santo anticonformista nella storia della Chiesa. Un ruolo assegnato, non a caso, a un attore quasi sconosciuto, ma con la faccia da ribelle come Lou Castel, che aveva appena girato I pugni in tasca di Marco Bellocchio. La fascinazione verso il lato umano dei personaggi rivoluzionari della Storia, fu la chiave di lettura che ispirò molte sue opere. Galileo, che uscì in pieno 1968, fu il film nel quale contestava il terrorismo culturale contro ogni forma di progresso e di scienza. La Chiesa era ancora fortemente condizionante e ostruzionista verso le manifestazioni di pensiero non ortodosso e Cavani lo denunciava.
La ribellione al sistema e ai dogmi è quindi la corda vibrante di ogni sua ricerca. Dopo Galileo, film censurato perché troppo anticlericale, e Francesco D’Assisi, nel 1970 porta al cinema I cannibali ispirato all’Antigone di Sofocle. Il film viene girato interamente a Milano, la città del progresso. Dalla prima all’ultima scena la città è cosparsa di giovani cadaveri lasciati in vista sulle strade, a dimostrazione che chi si ribella subisce la punizione. Fu un film sul dissenso, sull’idea della censura sociale contro ogni forma di contestazione, una rivisitazione del mito greco. I cannibali venne ospitato a La Quinzaine del festival di Cannes, dove Susan Sontag lo vide e lo volle fortemente per il Festival di New York.
Uno dei suoi film che fece più discutere fu però La pelle, che uscì nel 1981, liberamente tratto dall’omonimo libro autobiografico di Curzio Malaparte, pellicola che racconta l’arrivo della 5ª armata americana a Napoli nel 1943. Quando gli americani sbarcano a Capri la trovarono completamente libera, ma se ne attribuirono ufficialmente la liberazione. In seguito, assistiti dal capitano dell’esercito italiano Curzio Malaparte (interpretato da Marcello Mastroianni), si avventurano nell’occupazione di Napoli. Nella città del Vesuvio li aspetta un girone dantesco. Tra la prostituzione nei quartieri popolari, la mafia che mercanteggia i tedeschi catturati durante le ultime battaglie e madri che vendono i figli ai mercenari marocchini: la città è un inferno di degrado e depravazione. Napoli è il ritratto della sopravvivenza alla miseria che diventa teatro e circo. Qui la regia di Cavani e il “cinismo compassionevole” di Curzio Malaparte, sceneggiatore insieme a Robert Katz, trasforma il film in un dramma antologico che mette in scena tutte le contraddizioni di Napoli. La città vesuviana è per gli americani un palcoscenico sul mondo nel quale recitano la parte dei liberatori, ma di fatto sguazzano tra corruzione e malaffare. La pelle è intesa come merce di scambio, e Cavani riesce a evidenziare tutto ciò che di grottesco e di paradossale accade mentre il Vesuvio erutta, minacciando di travolgere tutto.
Il film fu girato con un cast di star come Burt Lancaster, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Carlo Giuffrè e un giovane Beppe Barra, la scenografia fu curata da Dante Ferretti e i costumi da Piero Tosi. Fu un’opera complessa dove il tentativo della regista di mettere insieme tutta la potenza immaginifica del libro di Malaparte portò il “teatro” a sconfinare nel cinema, come nella scena della tamurriata per “la figliata dei femminielli”. Un rito che affonda le sue origini nel culto della Madonna di Montevergine e che ha in sé elementi di misticismo e magia. Rito che dopo il film di Cavani, il cinema ritrova nella scena di apertura del più recente Napoli velata di Ferzen Ozpetek.
La cultura classica della sua formazione universitaria, mescolata al suo spirito anticonvenzionale e femminista, emerge sempre. Nei suoi film si scoprono antiche connessioni tra storia, costumi e tempo presente. In Interno berlinese Cavani esplora allora il torbido intreccio di eros e potere, che aveva già affrontato con Il portiere di notte nel 1974, confezionando un’opera di grande eleganza estetica e intrigo narrativo. Sullo sfondo della Germania nazista, tra due donne, Louise von Hollendorf la moglie di un funzionario del Furher, e Mitsuko, la figlia dell’ambasciatore giapponese, nasce una passione travolgente che diventerà progressivamente perversa e vischiosa fino a sfociare in un tormentato mènage à trois. Tratto dal romanzo di Junichiro Tanizaki La croce buddista, nel 1985 Interno berlinese fu accolto dalla critica tiepidamente, quasi fosse un esercizio di stile, sottovalutando i contenuti dell’opera, soprattutto per i temi trattati all’interno di un’ambientazione storica, quella del 1938, dove si denunciava soprattutto l’incoerenza morale dei personaggi rispetto ai loro ruoli sociali. Fu una delle prime pellicole d’autore nella quale attraverso la superba bellezza delle due protagoniste, Gudrun Landgrebe e Mio Tataki, con i costumi curati da Jasaburo Tsujimura, si narrava la storia di un amore omosessuale, tema fino ad allora cinematograficamente ben poco esplorato.
Un lungo filo invisibile lega tutte le sue opere, è lo sguardo laico ma profondamente spirituale verso i suoi personaggi, siano essi santi o martiri, vittime o carnefici. Nella visione d’avanguardia sia della giovane Liliana Cavani che in quella della cineasta già affermata, il senso della ribellione è al servizio della libertà d’essere, sia essa intesa come libera manifestazione di pensiero per Galileo, come il sentimento di fede in Francesco d’Assisi, o come il desiderio e l’eros di Interno Berlinese e Il portiere di notte.