La scuola cattolica, libro con cui Edoardo Albinati ha vinto il Premio Strega nel 2016 e da cui è tratto l’omonimo film nelle sale in questi giorni, non è una storia qualunque. A metà fra memoir e romanzo di formazione, l’opera mastodontica di Albinati parte dal massacro del Circeo, per poi intraprendere un percorso a ritroso nell’infanzia e nell’adolescenza dell’autore, che ha frequentato la stessa scuola – cattolica e prestigiosa – dei tre colpevoli del delitto.
Albinati ci ha messo più di dieci anni a scrivere questo romanzo. Si tratta di pagine molto dense, rivelatorie, sincere. L’autore mette a nudo se stesso e l’intero sistema di valori in cui è cresciuto, condannando quindi non solo gli esecutori materiali di quel delitto, ma l’intera società e la cultura italiana dell’epoca. La sua accusa è rivolta, in particolare, alla borghesia mediocre e decadente, all’educazione – cattolica, appunto, e oscurantista – impartita dalla sua scuola, il San Leone Magno, nel quartiere Trieste della capitale e alla maschilità tossica che permeava ogni angolo della società romana e italiana.
La giovinezza dello scrittore e dei suoi compagni di scuola è stata scandita da rituali camerateschi, abusi, violenze e continue prove di virilità. Ed è proprio nel machismo esasperato e in quella che oggi viene definita “cultura dello stupro” che Albinati rintraccia le cause profonde e pià faticose da scorgere delle violenze inflitte a Rosaria Lopez e a Donatella Colasanti nel 1975. “Quello che era successo riguardava tutti noi”, spiega Albinati nel libro, “la nostra educazione, il nostro quartiere, la nostra scuola. Bisognava provare continuamente di essere veri uomini, per poi ricominciare da capo e dimostrarlo una volta ancora”. La scelta dell’autore di utilizzare la prima persona plurale, includendo quindi anche se stesso fra i protagonisti del racconto, rende ancora più significativo il lavoro di autocoscienza e di critica che lo scrittore fa nei suoi confronti e in generale a tutti i maschi bianchi italiani, fautori e allo stesso tempo vittime di una società di stampo patriarcale, machista e nostalgicamente fascista.
Il punto di vista allargato, quasi sociologico, adottato da Albinati sulla vicenda, ci permette di capire perché l’autore decida di rimandare il racconto vero e proprio del massacro a pagina 473, quasi a metà del tomo: la lunga premessa sull’educazione e le forti contraddizioni dell’ambiente scolastico, familiare e socio-culturale in cui è cresciuto insieme ai suoi ex compagni di scuola, serve a spiegare da dove sono usciti i tre “mostri” del Circeo e il peso che riveste una mentalità patriarcale e sessista, che vede la donna come un oggetto da usare e poi da buttare via, nelle violenze e nell’uccisione delle donne, ieri come oggi.
Sotto questo punto di vista, la storia di Donatella, che a differenza dell’altra ragazza riuscì a salvarsi, è emblematica. Il processo agli autori del massacro del Circeo fu infatti un terribile esempio di victiming blaming. “Se le ragazze fossero rimaste accanto al focolare, dove era il loro posto, se non fossero uscite di notte, se non avessero accettato di andare a casa di quei ragazzi, non sarebbe accaduto nulla” arrivò a dire Angelo Palmieri, l’avvocato difensore di uno degli assassini durante un’udienza, in un’arringa con cui sembrò si volesse spostare la colpa dal carnefice alla vittima. “I tre giovani non volevano uccidere la Colasanti. L’hanno colpita in testa ma non è uscito neanche un po’ di cervello”, aggiunse. I giornali e la tv fecero il resto: dipinsero Donatella e Rosaria come due ingenue ragazze di periferia, un po’ sprovvedute e attratte dalla carriera di fotomodelle e dagli agi. Insomma, la loro “colpa” sarebbe stata quella di essere giovani e spensierate, e di sperare in qualcosa di meglio della vita di borgata. Un desiderio che hanno pagato con la morte e con la violenza.
Donatella riuscì però ad avvalersi della difesa di Tina Lagostena Bassi, stimata avvocata e coraggiosa femminista. Fu proprio da quel processo che il movimento femminista italiano prese ulteriore forza e consapevolezza. Tutte le udienze furono infatti presidiate da attiviste per i diritti delle donne e, nonostante i pregiudizi manifestati dagli avvocati degli assassini e dai media, alla fine la giuria condannò all’ergastolo i tre aguzzini. Eppure, Angelo Izzo, nel 2004, godendo di una misura premiale, commise un duplice delitto a Ferrazzano, in provincia di Campobasso, uccidendo una madre e la figlia quattordicenne e raccontando poi tutti i dettagli, con una lucidità e una freddezza agghiacciante, durante il processo che ne seguì.
L’uccisione efferata di Rosaria Lopez, l’amica di Donatella, oggi rientrerebbe sotto la definizione di “femminicidio”. Un fenomeno drammatico che purtroppo non accenna a diminuire in Italia e che proprio come allora è figlio di problemi di natura socio-culturale come la maschilità tossica, il bigottismo, la misoginia latente e la cultura dello stupro. Il libro di Albinati è quindi tuttora estremamente attuale. La pellicola molto attesa, uscita nelle sale giovedì 7 ottobre per la regia di Stefano Mordini, era già stata presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. In quel caso il film era stato vietato ai minori di 14 anni, per via della violenza di alcune scene e per la complessità tematica dell’opera. A due giorni dall’uscita in sala, però, la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche ha operato un’ulteriore stretta: la pellicola è stata vietata a chi ha meno di 18 anni. Una decisione drastica e definita dal regista “insensata”. Secondo la Commissione “il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice” e per questo, a maggioranza, ritiene “che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto”.
Nel film viene indagato a fondo il tema della sopraffazione e di come, a quei tempi, la società italiana si fondasse su tre pilastri educativi: la persuasione, la minaccia e la punizione. Rispetto a questo modello, le alternative per i maschi erano due: sopraffare o essere sopraffatti. Le vie di mezzo non erano contemplate e se il maschio falliva nel dimostrarsi forte e invincibile, ne restava segnato per sempre. “Nascere maschio è una malattia incurabile”, scrive Albinati nel suo libro. Una frase che ritorna anche nel film e che si può comprendere soltanto se inserita all’interno della critica che l’autore e poi il regista muovono verso una società di stampo patriarcale e maschilista, dove l’uomo è allo stesso tempo vittima e carnefice.
Un esempio di questo paradosso è esplicitato nella pellicola nella scena in cui Golgota, un professore di teologia, mostra alla classe un dipinto in cui Gesù viene picchiato da sei uomini. Attorno a questa scena si apre una riflessione religiosa e filosofica sul concetto di colpa e di bene. Il professore invita i suoi alunni a riflettere su come chi commette del male allo stesso tempo subisce quel male. Gli aguzzini, sotto questo punto di vista, si trasformano in vittime di loro stessi. Questa scena, a quanto pare, sarebbe una dei motivi che avrebbe spinto la Commissione a censurare il film.
Nonostante alcuni difetti (alcuni attori ancora acerbi, ritmo non sempre sostenuto e mancanza di un’analisi approfondita sugli ambienti e i valori neofascisti sposati dai tre carnefici), la pellicola ha il pregio di offrire lo spaccato di una generazione incapace di gestire la nuova liberazione sessuale dei costumi, in contrasto con i valori cattolici tradizionali, e di una società caratterizzata da una doppia morale: quella pubblica, severa e irreprensibile, e quella privata, ambigua e violenta.
La scena più riuscita è sicuramente quella in cui Donatella (interpretata da Benedetta Porcaroli) e Rosaria Lopez (Federica Torchetti) cantano spensierate e felici le parole della canzone La collina dei ciliegi di Lucio Battisti, a bordo della stessa FIAT 127 bianca in cui pochi giorni dopo la loro gioventù e innocenza sarebbero state brutalmente stroncate.
“Non riesco a trovare delle ragioni valide per questa censura e se mi sforzo di trovarle, mi inquietano”, ha commentato incredulo il regista Mordini. “Nella motivazione della commissione censura si lamenta il fatto che le vittime e i carnefici siano equiparati, con particolare riferimento a una lezione di un professore di religione, ma questo è esattamente il contrario di quello che racconta il film, e cioè che, provenendo dalla stessa cultura, è sempre possibile compiere una scelta e non deviare verso il male”. Anche i parenti delle due vittime hanno accolto con sorpresa la decisione della Commissione, soprattutto per la funzione educativa e di ammonimento che questa pellicola poteva avere.
Soltanto il 5 aprile scorso, il ministro della Cultura Dario Franceschini aveva firmato il decreto che, a suo dire, aveva abolito la censura in Italia. “Da oggi è definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti”, spiegava il ministro, introducendo l’istituzione della Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche presso la Direzione Generale Cinema del Ministero della Cultura. Ma a quanto pare, nella pratica, le cose stanno diversamente, ed è un peccato, perché La scuola cattolica poteva rappresentare un’occasione in più per i maschi italiani della generazione passata di intraprendere un percorso di autocoscienza che non è mai iniziato, e per quelli della nuova un monito a non commettere gli stessi errori di quella precedente. Ancora una volta si è persa l’occasione per fare i conti con il nostro scomodo e ingombrante passato.