“La pianista” ci costringe a confrontarci con gli abissi umani che nascono dalla solitudine - THE VISION

La pianista. Nome di genere comune che non ti si toglie più dalla testa una volta che ne hai vissuto la storia, destinata a occupare gli spalti della tua cognizione insieme al “Soccombente” di Thomas Bernhard. La pianista, però, è un romanzo del 1983 della scrittrice Elfriede Jelinek, Premio Nobel per la Letteratura. Entrambi austriaci, entrambi ossessionati dal pianoforte. La ripetizione, la disciplina rigorosa, l’ubbidienza sono alcune delle qualità fondamentali che portarono molti esecutori e compositori alla pazzia. Basti pensare allo stesso Robert Schumann, che cercò di porre fine ai suoi tumulti interiori gettandosi nel Reno, o al pianista David Helfgott, che ispirò un grande film del 1996, Shine. Più di qualsiasi altro strumento il pianoforte è un marchingegno meccanico, una sorta di trappola fredda e razionale, una linea obbligata su cui si muovono le mani, e in cui – mi sbilancio nel dire – più di qualsiasi altro strumento si crea una distanza tra strumento e corpo. Il pianoforte più di altri strumenti ci dà la profonda illusione di poter controllare la musica, e in un certo senso di renderla asettica, disinnescare paradossalmente il potenziale trasformativo.

Nessuno “sano di mente” – se con sano di mente intendiamo volto al proprio benessere psico-fisico – leggerebbe un libro come La pianista a 14 anni, forse nessuno sano di mente farebbe il conservatorio, né in Italia né in Austria – e la stessa Jelinek lo frequentò, e ne parla con estrema cognizione di causa. In questa storia, infatti, questo ambiente, tangibile e figurato gioca un ruolo fondamentale, ancor più se calato nel territorio che gli si estende intorno dell’Austria. Un paese difficile, provinciale, che ha dato vita a una cultura estremamente raffinata – a tratti leziosa – e al tempo stesso ha sviluppato norme ed etichette asfissianti, meccanismi mentali deleteri, tossici, un paese la cui forza e condanna è la stessa cosa: la provincia, i confini mentali, affettivi, comportamentali, che hanno “denunciato” nelle loro opere tutte le sue grandi menti. Da Bernhard e Jelinek, appunto, ma prima ancora dall’architetto Adolf Loos, con le sue Parole nel vuoto, e ancor di più da Karl Kraus, scrittore, giornalista, aforista satirico e molte altre cose, con i suoi Detti e contraddetti, fino ad arrivare al regista Ulrich Seidl, che sembra aver ereditato il portato di questo filone narrativo nei suoi film, in particolare Die Keller, documentario cringe e surreale girato nelle cantine dei suoi connazionali.

E le aule di conservatorio non sono poi così dissimili da quelle cantine. Forse il conservatorio è un’istituzione immutabile, il mondo si evolve, ma ciò che accade in quelle aule non cambia mai. Accade qualcosa di molto intimo e violento. Sadico ed umiliante. È nelle emozioni distorte che vengono nutrite tra queste mura, uguali in ogni parte d’Europa, sospetto, che Michael Haneke ha intravisto qualcosa che lo interessava, e ne ha girato un omonimo film nel 2001, che ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e che è valso ai suoi due interpreti – Isabelle Huppert e Benoît Magimel – i premi di miglior attore e miglior attrice protagonista.

Isabelle Huppert incarna magistralmente il ruolo di Erika Kohut, la pianista, appunto, una donna algida e severa, la cui rigidità esteriore nasconde un tumulto interiore fatto di desideri repressi e impulsi autodistruttivi. Erika è Maestra di pianoforte al conservatorio di Vienna e vive con la madre castrante e manipolatoria, interpretata da Annie Girardot, in una relazione claustrofobica e incestuosa che mostra una delle tante forme di violenza psicologica presenti nella storia. Pur essendo a livello sociale una musicista di talento molto rispettata, Erika vive una vita di alienazione, cosa che purtroppo spesso accade agli enfants prodige, e non solo in ambito musicale. La sua identità, schiacciata completamente dalla madre, viene tenuta insieme da un complesso gioco di pulsioni che vanno dal voyeurismo, al masochismo e all’autolesionismo. Comportamenti che il regista mette in scena con un distacco scientifico, quasi documentaristico, capace di rarefare tutto ciò che c’è attorno, dilatando il tempo e costringendo lo spettatore a confrontarsi in prima persona con quegli abissi, con l’incepparsi del meccanismo umano potremmo dire.

Il rapporto col mondo di Erika è inevitabilmente compromesso. È un essere disperato. Ridotto a una sola funzione, quella di suonare. Ci si chiede con quale anima, con quale capacità di empatia e metamorfosi. Al pari di tanti famosi solisti, non a caso, la sua interpretazione è tecnicamente impeccabile, eppure lei è morta, priva di qualsiasi emozione interna ed esterna. Tradisce così la sua incapacità di vivere “autenticamente”, di mescolarsi al fluire delle cose. La musica diventa quindi un elemento centrale del film, esprimendo l’enorme tensione interna di Erika. Le scene in cui insegna sono estremamente asettiche. La musica classica, con la sua apparente perfezione formale, nasconde un abisso di dolore e frustrazione. Come se certi muri di note potessero arginare la piena delle emozioni. Se la musica è ciò che sta tra le note, Erika non è assolutamente in grado di raggiungerla. Nonostante la sua padronanza tecnica, le sue possibilità di esecutrice di quei segni neri che occupano e infestano lo spartito, Erika è incapace di andare oltre, di usare la musica come mezzo di espressione, vera, presente, reale.

Ogni gesto, ogni espressione di Huppert rivela una diversa sfaccettatura di Erika, affascinante e inquietante allo stesso tempo. Come per molte persone ossessivo-compulsive, la vita di Erika è un tentativo costante di mantenere il controllo, di imporre un ordine su un mondo che le sembra caotico e minaccioso, che cova sotto la superficie apparentemente ordinata della sua vita e che minaccia costantemente di esplodere, con brutalità inaudita. Questo contrasto viene reso da Haneke attraverso l’uso della scenografia e della fotografia. Le stanze in cui vive e lavora Erika sono spazi ordinati e asettici, in netta opposizione con i momenti di intensa emozione e violenza che si verificano al loro interno, che danno forma a un’atmosfera di tensione e profonda inquietudine. I muri delle stanze del conservatorio perimetrano mondi, fragili, attutiti, in cui il silenzio è fondamentale per accogliere la musica, in cui il movimento di un singolo dito può provocare tsunami. Tutto il resto sta fuori, ma i corpi si fanno portatori di pensieri, di tensioni, di storie.

Il rapporto tra Erika e il giovane studente di pianoforte Walter Klemmer, interpretato da Benoît Magimel, diventa il fulcro della trama. Walter è profondamente affascinato dalla sua insegnante, e tenta di sedurla, ma ciò che inizia come una relazione apparentemente “normale” si trasforma in fretta in un gioco di potere, dominio e sottomissione. In primis fisica, corporea. Ogni inquadratura prevista da Haneke, maestro nel raccontare questi drammi soffocati, è calcolata per massimizzare l’impatto emotivo, ma senza mai cadere nel melò. Le inquadrature sono fisse, si attardano sulle scene, costringono lo spettatore a confrontarsi con la brutalità del contesto senza lasciargli una via di fuga davanti alla violenza, sia carnale che psicologica, rappresentata in modo assolutamente realistico.

Walter, per Erika, potrebbe rappresentare una possibilità, una sfida, una possibile chiave per sfuggire alla sua esistenza repressa e soffocante, un punto di discontinuità nella sua vita ipercontrollata, il grimaldello per liberarsi dalla prigione materna. La sua unica e ultima possibilità. La spirale che innesca però il loro desiderio invece di salvarli li trascina verso l’abisso, mescolando fino a sovrapporli attrazione e sofferenza, amore e odio. Erika è una figura tragica, disperata, intrappolata in una vita di isolamento, in cui la relazione con l’Altro è per forza di cose irrimediabilmente deviata. La sua incapacità di stabilire relazioni autentiche è il risultato di anni di abusi e repressioni che le ha inferto la madre, una figura enorme, potente, che la manipola fin nel profondo – cosa che purtroppo accade a molti bambini.

Erika è prigioniera del suo stesso mondo, dimostrazione di quanto le dinamiche familiari possano plasmarci e deformarci, a volte irrimediabilmente. È un essere umano che non è mai potuto maturare, e che non può far altro che ripetere reiteratamente ciò che ha subito. Il suo meccanismo di piacere e soddisfazione è del tutto deformato. Emerge così un ritratto commovente e spietato di una donna che, nonostante la sua intelligenza e il suo talento ben sopra la media, risulta incapace di trovare una via d’uscita dalla morsa del suo dolore più intimo. L’unico modo che Erika ha di desiderare e di godere, è il distacco. Oggettifica gli altri, per poterli controllare nella sua fantasia, come pupazzi, marionette, personaggi, appunto, come le note che tocca, senza sentimento, ingranaggi. E l’unico modo che ha per dar forma al suo dolore, che non riesce a esprimere in alcun modo, pena il disgregarsi della sua identità, è tagliarsi, proprio come un altro personaggio enorme, della letteratura contemporanea, Willem, di Una vita come tante, il grande romanzo di Hanya Yanagihara.

Haneke non giudica né giustifica i suoi personaggi, ma li presenta con un approccio clinico, portandoci, al pari del libro, a immergerci nella complessità e nella contraddittorietà della nostra stessa natura. La pianista è un viaggio obbligato nell’abisso della psicologia umana e femminile, che esplora i lati più oscuri e drammatici della solitudine e della violenza, sfidando lo spettatore – e prima il lettore – a vedere oltre le apparenze, sporgendosi sul baratro. Le parole di Kraus, dunque, risultano profetiche e amare, quando dice: “Ben venga il caos, perché l’ordine non ha funzionato”.


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