“Kokomo City” rompe gli stigmi sociali mostrando senza filtri le vite di sex worker trans e nere - THE VISION

Quando pensiamo alla transessualità – soprattutto da uomo a donna, perché più diffusa e raccontata, e tradizionalmente legata alla prostituzione e allo sfruttamento sessuale – l’immaginario collettivo ci spinge in un mondo sordido, proibito, fatto di illegalità, brutalità, violenza. Potremmo dire che la qualità che ha definito a lungo, e tuttora, purtroppo, questa condizione – anche se ci sono sempre più esempi di persone trans che portano la loro esperienza sotto i riflettori, condividendola e facendone motore per il loro attivismo – sia la segretezza. La donna trans cela, per paura di subire la violenza del mondo, per assecondare – non sempre ma spesso – i desideri dell’altro, e della società, la donna trans in molti casi è la prima che fa di tutto per uniformarsi a ciò che la società chiede alle donne, per essere considerate tali, “vere donne” appunto, al pari di “veri uomini”, qualsiasi cosa voglia dire – solitamente qualcosa di brutto, che ci causa molto dolore.

La figura della donna o dell’uomo trans, in particolare, è profondamente disturbante per la società, proprio perché porta alla luce i suoi stessi limiti, di definizione, etichettatura, inclusione, comprensione della diversità. La donna trans spaventa il pensiero comune, molto più della persona omosessuale, perché incarna tutte le sue fragilità, i suoi dubbi, le sue incertezze, il suo rimosso. Per questo le persone trans sono sempre state considerate mostruose, freak. È questo sentimento che vuole disinnescare la cantautrice e produttrice musicale transgender D. Smith, con il suo documentario d’esordio premiato al Sundance Film Festival in gennaio 2023, e ora disponibile su MUBI, Kokomo City.

“Ho creato Kokomo City perché volevo mostrare il lato divertente, umanizzato e naturale delle donne trans nere. Volevo creare immagini che non mostrassero il trauma o le statistiche di omicidi delle persone transgender. Volevo creare qualcosa di fresco e stimolante. L’ho fatto. L’abbiamo fatto!”, ha dichiarato la regista, ed è proprio così. Kokomo City è un’opera libera, intima, illuminante, che dà spazio a una minoranza abituata a vivere nell’ombra, emarginata, giudicata, spesso considerata aberrante da un senso comune violento e miope, incapace di evolversi e di abbandonare il terrore per tutto ciò che appare come non conforme. D. Smith porta al cinema le storie di quattro donne trans nere, che vivono e lavorano come sex workers a New York e ad Atalanta: Daniella Carter, Koko Da Doll, Liyah Mitchell e Dominique Silver.

Queste donne – ritratte con un bianco e nero profondamente accogliente per lo sguardo – parlano della loro vita senza tabù, mostrano una visione estremamente lucida e consapevole del reale, molto di più di quella di cui per svariati pregiudizi e privilegi il pubblico si crede portatore, eppure lo fanno con spontaneità, naturalezza, mostrando i contorni dello spazio realmente sicuro che è riuscita a creare la regista intorno a loro, dello spazio che è riuscita a fare per la loro relazione, il loro racconto, uno spazio accogliente in cui anche lo spettatore è incluso, senza sforzi, con naturalezza. Il film tocca così temi come il corpo e l’immagine, la sessualità, l’amore, l’identità, la famiglia, il razzismo, il denaro, la morale comune, il patriarcato e i suoi metodi predatori, ancor più violenti contro le donne trans. Lo fa con leggerezza, ironia, allegria, dosando sapientemente forza e ferite, umiliazioni ed empowerment.

Un’altra cosa che penso porti potentemente alla luce questo documentario – anche se spesso le donne biologiche faticano ad accettarlo – è quanto l’esperienza delle donne trans sia assolutamente sovrapponibile – purtroppo – a quella delle donne cisgender, anche se magari tre di queste quattro protagoniste in particolare non sarebbero comunque d’accordo, rivendicando la loro unicità di donne trans, anzi, di donne trans nere, dimostrando che non per forza di cose la maggior ambizione della minoranza sia il poter essere ascritta a una maggioranza. A questo poi si interseca l’essere state o l’essere sex workers, altra cosa che la società non perdona, emargina, punisce. Se da un lato c’è quindi il discorso sull’identità di sé, percepita e costruita, dall’altro c’è quello dello sguardo dell’altro, dell’immagine che ti viene attaccata addosso, vischiosa, del valore che ti da il mondo.

In parte mi ha fatto sorridere amaramente sentire con quanta ingenuità alcune di queste donne trans pensano davvero che per le donne biologiche le cose vadano meglio. Magari apparentemente sì, ma le stesse dinamiche di dominio, magari con alcune variazioni, ma con le stesse radici e gli stessi nodi, sono assolutamente identiche. Ed è qui che si innesta il femminismo intersezionale, che appunto pone l’attenzione sulla necessità di una lotta collettiva, dato che la sopraffazione è la stessa. Ma è bello che questo spazio sia effettivamente del tutto dedicato a un’esperienza circoscritta, a cui viene dato tutto lo spazio possibile, tutto il tempo, senza biosgno di aggiungere altro, di chiose, di meta-analisi, è anche in questa postura che risiede la compiutezza e la potenza del film. 

Vero è da dire che in questo racconto la bellezza ha ruolo fondamentale, queste donne trans sono favolose, rispettano tutti i canoni della bellezza contemporanea. Come dice una di loro senza falsi pudori, sono “meglio” delle donne biologiche da questo punto di vista, perché per essere come sono devono impegnarsi molto di più, in tutto, dalla voce alla postura ai gesti. Io stessa quando ho conosciuto donne trans non ho potuto esimermi dal notarlo. Sulla scala della femminilità, le donne trans sono in media molto più “femminili” delle donne biologiche. E questo perché le donne cisgender possono permettersi di non esserlo, sono più libere in questo senso. Daniella, Koko, Liyah e Dominique sono dee, ma dietro la loro immagine c’è una vita di lotta, di sofferenza, che non deve per forza di cose farsi retorica, o ideologia, nemmeno racconto ispirazionale: è lì, è un dato di fatto, un segno.

Eppure, all’impronta di quel dolore queste menti – e questi corpi – si ribellano, brillando – e se non è d’ispirazione questo mi chiedo cosa lo sia. Appare assurdo quanto siano impossibili da sovrapporre la figura della donna trans nell’immaginario comune alla figura di queste donne che si raccontano, la misura del nostro stesso pregiudizio sociale, bianco, binario, eteronormativo. L’esistenza, l’identità, e la vita delle persone trans viene costantemente messa in discussione, e in pericolo, dalla nostra società, ancor più di quella delle donne biologiche. Sappiamo infatti che moltissimi casi di omicidio di donne trans non arriva nemmeno ai mass media, altre volte non vengono nemmeno identificate nei conteggi dei femminicidi. Come si dice nel film, essere una donna trans significa essere una sopravvissuta, o meglio, essere una sopravvivente, perché non c’è posto per te nelle maglie della società, sei un’indesiderata, lo spazio devi prendertelo.

Dopo la premiere del documentario Koko scriveva sul sul profilo Instagram: “I will be the reason there’s more opportunities and doors opening for transgender girls […] What you’ve done here for me is going to save a lot of lives”. Il 18 aprile, tre mesi dopo, veniva uccisa a colpi di arma da fuoco. Il nome del documentario si ispira ovviamente alla famosissima canzone dei Beach Boys del 1988 che parla di un’isola immaginaria, Kokomo appunto, dove gli innamorati possono andare a divertirsi liberamente e a trovare la loro felicità, dimenticando ogni dolore e preoccupazioni, come una specie di Isola che non c’è. Off the Florida Keys / There’s a place called Kokomo / That’s where you wanna go / To get away from it all”. Alla fine della canzone si dice che Kokomo magari non dev’essere per forza un luogo particolare, ma un posto che tutti abbiamo e conosciamo, in cui possiamo stare in pace insieme alle persone che ci vogliono e a cui vogliamo bene. Everybody knows a little place like Kokomo / Now if you wanna go to get away from it all / Go down to Kokomo”. Purtroppo, però, dobbiamo ancora fare una lunga strada nella nostra intimità e a livello sociale per raggiungere questo luogo ed essere finalmente liberi di essere chi vogliamo e di desiderare in pace, senza danneggiare e ferire gli altri.


“Kokomo City” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per avere 30 giorni di prova gratuita. 

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