Non so se tutti ricordano il momento in cui hanno cominciato a perdere i denti da latte. Nella mia memoria, più che la caduta in sé, la sensazione che ritorna in mente è quella provata quando il dente rimane a metà. Come appeso a un filo, dondola avanti e indietro, lasciando in bocca un sapore di ferro che si mescola alla consistenza della gengiva scoperta su cui la lingua, puntualmente, tocca. È un ricordo ambiguo, a metà tra il senso di repulsione che provoca scoprire una parte del proprio corpo fino a quel momento rimasta inedita e la curiosità di sapere cosa c’è in fondo. Per alcune persone, la vista del sangue è una tortura, per altre invece è un’attrazione. Questo senso doppio che passa tra la familiarità e l’estraneità che sentiamo verso ciò di cui siamo fatti, denti, ossa, ferite aperte, tessuti, è un confine sottile su cui non solo camminiamo, ma con cui spesso giochiamo. Come la lingua che spinge un dente sul punto di cadere, fermandosi in tempo per lasciarlo lì o andando avanti fino a vedere cosa succede, anche un racconto può essere nauseante e attraente allo stesso tempo. Nel caso dei film di Yorgos Lanthimos, questo limite è sottile.
Che Poor Things! e La Favorita siano l’eccezione nella filmografia di Lanthimos è da capire, dal momento che è ancora presto per darla per completa, ed è auspicabile che il regista abbia molto da aggiungere. Di certo però Kinds of Kindness, il suo nono lungometraggio, presentato di recente a Cannes, giusto pochi mesi dopo l’uscita pluri acclamata di Poor Things!, segna un ritorno al passato, anche solo per la collaborazione con Efthymis Filippou, già sceneggiatore di Dogtooth, The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro. Un ritorno al passato che si arricchisce di un cast molto attuale, quello composto dalla sua attrice feticcio, Emma Stone, da Willem Dafoe, Jesse Plemons, Margaret Qualley, e che ha generato reazioni piuttosto contrastanti da parte della critica.
Se alcuni hanno rivisto in Kinds of Kindness la brutalità cinica e ironica del primo Lanthimos, che non era stata perduta nelle pellicole recenti ma che di certo aveva subito una smorzata in favore di elementi più digeribili, per così dire, altri hanno accusato il regista di aver fatto un banale esercizio di stile che riporta in gioco i suoi vecchi temi, senza aggiungere niente di nuovo, un manierismo fine a sé stesso che strizza l’occhio ai suoi fan. Se la verità sta sempre in mezzo e i gusti sono gusti, a prescindere dell’entusiasmo e dalla delusione che deriva dall’uscita del film di un regista molto in vista, c’è da dire che Kinds of Kindness fa qualcosa di coraggioso e insolito per il panorama hollywoodiano contemporaneo. Uno scenario cinematografico mainstream in cui difficilmente si rischia di mettere in scena una pellicola che possa risultare respingente, fastidiosa o perturbante, ma anche, se vista da un altro punto di vista, molto accattivante.
Kinds of Kindness è infatti un racconto diviso in tre episodi dove alcuni dei temi cari a Lanthimos, gli stessi che lo hanno reso il caposaldo della cosiddetta Weird Greek Wave, ritornano in modo prepotente, in particolare quelli che si accompagnano a una certa disinvoltura nella crudezza delle immagini. Il dolore fisico, le mutilazioni, la morte, il sangue, il sesso grottesco, la spinta animalesca dell’essere umano, ma anche una dose massiccia di surreale e mitologico. Il legame tra Lanthimos e il mito classico, difatti, è sempre stato sottolineato non solo dalle scelte del regista nei suoi film, da citazioni dirette a miti come l’Ifigenia, ma anche da una forma di continuità con gli elementi strutturali sia narrativi che funzionali della tragedia greca.
In Kinds of Kindness, tutti questi ingredienti si raccolgono sotto l’ombrello di un grande tema, che è quello dei rapporti di potere che intercorrono tra gli esseri umani, portati al loro estremo da un’estetica volutamente straniante e onirica, con ambientazioni che non forniscono coordinate precise di spazio e tempo e con una dilatazione dei ritmi del racconto che rendono tutto ovattato e distorto, anche grazie alle ottime interpretazioni di attori con cui non a caso Lanthimos sceglie spesso di lavorare e alla colonna sonora martellante e scarna di Jerskin Fendrix.
Nel primo episodio, intitolato The Death of R.F.M., una sigla che ritornerà in tutti e tre i titoli, il potere si manifesta attraverso una sorta di messa in scena della dialettica servo-padrone: il protagonista, in apparenza immerso in una condizione di benessere alto borghese che lo rende libero e realizzato come individuo, è in realtà vittima di un controllo totale da parte del suo capo. Nel momento in cui si rende conto che questa condizione non è più sostenibile, Robert, interpretato da Jesse Plemons, si ribella alla volontà di Raymond, interpretato da Willem Dafoe, in quale ha bisogno del servizio totale del suo schiavo. Deve sapere che, oltre a poter comandare la sua vita privata in tutte le sue declinazioni, dagli aborti imposti alla moglie alla scelta della moglie stessa fino all’autolesionismo, il suo dominio si esercita anche nella decisione di fargli commettere un crimine in modo del tutto arbitrario. La gentilezza che dà il titolo al film di Lanthimos si esprime così attraverso un atteggiamento pacato, generoso e paterno di Robert nei confronti di Roger, un tipo di gentilezza che nasconde una dinamica spietata di sottomissione, e la cortesia di Roger stesso, il quale non riesce a emanciparsi da questo suo ruolo di subalternità, nonostante non sia più ciò che desidera. Una metafora iperbolica delle dinamiche capitaliste, all’interno delle quali l’interdipendenza tra chi comanda e chi viene comandato si fonde con il ricatto, il senso di colpa, la gerarchia che si intromette anche nella vita privata di un dipendente. Un meccanismo che Lanthimos porta alla sua esasperazione ma che, in forma più subdola e sottile, si insidia nella vita di chiunque si trovi nella condizione lavorativa di subalternità rispetto a un padrone.
Nel secondo episodio, invece, il potere messo in scena è quello privato della coppia che si concretizza nella convenzione del matrimonio. Qui gli elementi di contrasto tipici del cinema di Lanthimos fanno da protagonisti: R.M.F. is flying, infatti, è forse il racconto più denso di carnalità e oscenità, l’apice della trilogia dentro cui amore e morte si incontrano in modo violento e incomprensibile. Jesse Plemons, che stavolta interpreta un poliziotto di nome Daniel, non si capacita della scomparsa di sua moglie Liz, Emma Stone, durante una spedizione che culmina in un naufragio. La tragicità di questo evento si sovrappone alla comicità di alcuni momenti totalmente fuori luogo di cui si fa protagonista Daniel, dalla richiesta di rivedere i filmati porno fatti con una coppia di amici e Liz in salotto, per compiangerne l’assenza, a un atteggiamento inappropriato sul posto di lavoro che lo fa sembrare a tutti un disadattato.
Ma il vero nucleo del racconto si palesa nel momento in cui Liz viene ritrovata dopo aver vissuto del tempo come naufraga, nutrendosi solo di ciò che trovava e vivendo immersa in uno stato primordiale che la cambia profondamente, tanto da fare allusioni inquietanti a un mondo in cui a comandare sono i cani, animali più misericordiosi e umani degli umani stessi: la gentilezza, anche in questo caso, si palesa in modo grottesco. Dal suo cambiamento, nasce il sospetto malato di Daniel che Liz non sia davvero Liz, e con questo una serie di richieste violente e brutali che provino la sua identità. Tutto ciò che chiede il marito deve essere eseguito dalla moglie, in un loop di autorità che diventa pura crudeltà.
L’ultimo dei tre episodi, a mio avviso il più riuscito, è quello in cui la rappresentazione del potere si concretizza nelle regole rigide e folli di una setta, a metà tra New Age e sincretismi mistici, che vieta ai suoi adepti di avere rapporti sessuali con persone che non siano i due capi spirituali, interpretati da Willem Dafoe e Hong Chau. R.M.F. Eats a Sandwich racconta così di due seguaci, Emily e Andrew, Emma Stone e Jesse Plemons, che devono rintracciare la figura di una donna che resuscita i morti. A bordo di una macchina viola che sfreccia a tutta velocità tra le vie della città americana imprecisata che fa da sfondo ai tre capitoli, i due chiedono a ragazze che potrebbero avere un dono paranormale di mettersi alla prova risvegliando cadaveri nell’obitorio di un ospedale. I momenti macabri fallimentari del duo si alternano così a visite al quartier generale della setta, dove il sesso si mescola a rituali bizzarri come bere da una grande pozza le lacrime dei loro capi spirituali. Emily, la neo-adepta, è molto motivata a conquistare l’amore e la fiducia dei due leader, avendo messo completamente da parte la sua famiglia e la sua vita precedente in nome della ricerca della prescelta.
Una ricerca che, proprio quando viene cacciata per “impurità” dal cerchio magico, per aver avuto rapporti sessuali al di fuori della loggia, va a buon fine, in pieno stile Lanthimos: due gemelle, entrambe interpretate da Margaret Qualley, sono la risposta alla caccia di Emily, ormai rimasta sola in questa sua ricerca da esiliata che vuole riconquistare la fiducia dei leader. Il dettaglio fondamentale però è che per far sì che i miracoli si avverino, una delle due sorelle deve essere morta. E di nuovo, crani rotti in una piscina vuota, zampe tagliate, cadaveri violacei, tutto – nel terzo e ultimo episodio di Kinds of Kindness – si tinge di quei colori sanguinolenti e ironici tipici della poetica del regista greco. E anche stavolta, la gentilezza, quella di una donna eletta a ruolo di resuscitatrice, tanto disponibile ed educata anche verso chi la vuole rapire, fa da contraccolpo surreale alla violenza del potere esercitato senza logica, in una rappresentazione ossimorica che rende ancora più crudo e paradossale il racconto.
Come un dente che si stacca, impossibile da ignorare ma al contempo ripugnante per ciò che disvela, Kinds of Kindness è un film che ti porta a coprirti gli occhi davanti a scene rivoltanti e al contempo a ridere di un cadavere che si sveglia e mangia un panino con disinvoltura. Che Lanthimos abbia scelto di portarlo al cinema proprio nel suo momento di massimo successo commerciale fa ben sperare che non si tratti solo di un regista di kolossal, che pure è un mestiere difficile ma di cui Hollywood dispone già in abbondanza, ma di un autore che non rinuncia al proprio stile e alle proprie scelte, anche quando queste sono al limite con il disturbante. Del resto, come ci insegna un altro greco, Aristotele, non c’è catarsi se prima non c’è conflitto.