Il 25 ottobre 2018 è uscito nelle sale Halloween, diretto da David Gordon Green. Gli appassionati del cinema horror sanno bene che a quel titolo fa riferimento un’intera saga che ha come pilastro portante la figura di Michael Myers, probabilmente il più famoso tra gli assassini cinematografici insieme al Leatherface di Non aprite quella porta. Il compito di Green è stato quello di mettere da parte sequel, prequel e spin-off per ripartire dal co-genitore di tutti i futuri slasher movies, l’Halloween del 1978. Ecco tornare, dunque, Jamie Lee Curtis nelle vesti dell’allora giovanissima Laurie Strode, la babysitter che si confronta con Nick Castle, l’interprete originario del personaggio principale: Michael Myers.
A dare vita a questo personaggio e di conseguenza all’intera saga di Halloween, fu – insieme alla compianta produttrice, sceneggiatrice e grande amica Debra Hill – John Carpenter. Questo signore scarno e dall’aspetto da rocker invecchiato lo si può notare tranquillo e pacato mentre, seduto al fianco di Curtis, prende parte a varie presentazioni statunitensi del nuovo film. Il motivo della sua presenza è legato anche al suo ruolo di supervisore, produttore esecutivo e, come sempre nelle produzioni che vedono la sua firma, autore della colonna sonora.
Ma John Carpenter non è semplicemente il creatore di Halloween. È lui che, ispirandosi a maestri del filone come Tobe Hopper – autore di Non aprite quella porta – e Dario Argento, ma anche ai film western di Howard Hawks, ha segnato il punto di svolta dell’intera cinematografia horror nel 1978, annus mirabilis per il genere, a partire dall’uscita di Zombi (Dawn of the Dead), di George A. Romero. È a Carpenter che va dato il merito di essere andato al di là della componente horror, facendo di questo genere un veicolo di senso e contenuto ben più ampio.
Se si vuole uscire dal loop di quasi vent’anni di rivisitazioni di film cult giapponesi come The Ring e The Grudge, che puntano tutto sugli effetti speciali, è proprio a John Carpenter che bisogna rivolgersi. Pur avendo confezionato prodotti per il mercato di massa, è riuscito a dare spazio a idee politiche, sociali, antropologiche, persino etiche e teologiche, che mirano a sovvertire l’ordine percettivo imposto della realtà circostante. Una cosa inedita per il mainstream, in cui Carpenter riuscì a inserirsi col desiderio primigenio di farne saltare in aria le strutture portanti, per ricreare su quelle stesse radici un nuovo ordine del reale, che del politically correct non sa che farsene e ne insegna il fondamentale e definitivo rifiuto.
È necessario guardare senza timore alla realtà contemporanea – dentro e, soprattutto, fuori dallo schermo – per riuscire a spazzare via interi decenni di inutili serie horror, e tornare ad ampliare i confini di una visione narrativa che diventa a tutti gli effetti una visione del mondo. Per farlo, John Carpenter ha messo al centro delle sue opere una profonda critica delle istituzioni più sacre e intoccabili e degli individui che le compongono sfruttando e imponendosi sulle classi subalterne. È questo che fa di Carpenter un autore autentico, capace di padroneggiare modelli narrativi e generi per fare un discorso impegnato sulla realtà che ci circonda.
In Distretto 13 – Le brigate della morte (film del 1976 ispirato a Un dollaro d’onore, di Howard Hawks), un Carpenter giovanissimo fa di Los Angeles un simulacro di città in cui le forze dell’ordine abbandonano quartieri-ghetto pur di non fronteggiare perfide bande di criminali. E lo fa senza giri di parole: i veri eroi sono gli ultimi, la gente comune, il più delle volte ingabbiata dietro sbarre di ferro con le manette ai polsi. Quelli che per lo Stato devono solo marcire in galera sono semplici individui desiderosi di redenzione nei confronti di una condizione sociale che li ha costretti a reagire per non subire. Siamo in piena epoca post-Vietnam e fare di una città così celebre e importante un luogo irrimediabilmente abbandonato da istituzioni e forze dell’ordine è un corposo atto d’accusa rivolto al sistema politico. Nel film emerge anche una figura femminile come quella di Leigh, segretaria distrettuale apparentemente disorientata e scontrosa ma coraggiosa e leale nel momento del bisogno. Queste sono caratteristiche molto care a Carpenter, che troveranno il loro compimento proprio in Halloween, dove Laurie Strode non è come le altre sue amiche impegnate nell’andare a letto con vari figli di papà solo per la propria affermazione. Laurie ha il timore di affidare i suoi sentimenti a persone che potrebbero deluderli o tradirli, ma il suo coraggio sta nel riuscire a tramutare questo suo senso di precauzione isolazionista in aiuto verso gli altri – in questo caso i bambini a cui fa da babysitter – mentre il male puro di nome Michael Myers arriva a destabilizzare ogni parvenza di ordine precostituito.
Un ordine nato e sulla base della storia americana, una storia basata sulla violenza – così come molte altre storie di conquista – di cui in questo caso sono stati i nativi americani a fare le spese, motivo mai del tutto assente dalla poetica di Carpenter e che risulta spesso alla base dello sviluppo per un’idea di società arrivista e divoratrice di etnie e classi sociali protagoniste dei suoi film. Se il tentativo che un altro grande autore come Michael Cimino cercò di realizzare per rappresentare questa parte della storia statunitense con I cancelli del cielo fu stroncato dal timore di possibili ritorsioni politiche, il successo commerciale dei film di Carpenter, e la sua abilità nel nascondere il suo messaggio sociale dietro al linguaggio del genere horror gli permisero una maggiore libertà.
Restando un ottimo film horror, Fog (1980), ad esempio, è un atto d’accusa alle fondamenta del dominio americano: siamo alla fine dell’Ottocento e la nave Elizabeth Dane, che trasporta un gruppo di lebbrosi desiderosi di stabilirsi nella cittadina di San Antonio Bay e tantissimo oro, viene affondata e depredata dai coloni puritani, e tornerà cento anni dopo in veste di fantasma per chiedere il conto del furto subito.
La messa in discussione della narrazione egemone della storia americana prosegue con la distopia realistica di 1997: Fuga da New York (1981), in cui Carpenter fa di Manhattan un enorme carcere a cielo aperto nel quale l’antieroe Snake Plissken, sotto ricatto, deve infiltrarsi per salvare il gretto presidente americano lì tenuto prigioniero dai ribelli. Manhattan, il cuore pulsante della vitalità yuppie edonista reaganiana, è rappresentata come il covo di tutti gli emarginati, resi crudeli dallo stato delle cose. Ma il film dimostrerà che i delinquenti veri sono altri, quelli che stanno nei palazzi di potere.
Ragionando su una scala più ampia e analizzando la realtà contemporanea sulla base di una personale visione del modello politico occidentale, Carpenter rappresenta i suoi personaggi terrorizzati dal male che vedono nel diverso, nell’altro da sé, nell’ignoto da temere sempre e comunque, scegliendo di ignorare quello che si annida dentro se stessi. Proprio come credono i protagonisti de La cosa, (1982), portati a sospettare di tutto e di tutti in seguito all’invasione di un parassita alieno che distrugge e rigenera l’organismo in cui si insedia.
L’unica salvezza per l’individuo allora è far parte di una storia capovolta, “sbagliata”. Ecco perché il John Nada di Essi vivono (1988) riesce a vedere la vera realtà che si annida dietro le cose e le persone solo attraverso occhiali speciali, in un non-luogo dove tutto è menzogna. Il totalitarismo inconscio e il condizionamento psicologico sono rivolti a irrefrenabili pulsioni isolazioniste e consumiste, dove i ricchi e i potenti sono gli “alieni” che spolperanno il pianeta di ogni suo alito di vita e dove dietro una banconota si cela il messaggio “This is your God”. E ovviamente non c’è tregua nemmeno per il clero e per tutto ciò che esso rappresenta, se un capolavoro come Il signore del male (1987) lo inquadra impaurito e angosciato al cospetto dell’arrivo reale e tangibile del male assoluto, che la Chiesa ha sempre venduto come l’antagonista del proprio prodotto sovrannaturale.
A poco servono quei film pensati per distrarre le persone per un paio d’ore, lasciandole tornare come se niente fosse alla propria realtà materialista al termine della proiezione, e che fanno di tutto per non scandalizzare il finanziatore di turno. Carpenter è riuscito a trasmettere un’idea radicale di cinema, traducendo visivamente la realtà senza mai puntare unicamente alla spettacolarizzazione sterile del contenuto. Pur utilizzando un genere popolare come l’horror, è riuscito a lanciare una forte critica al sistema, invitando lo spettatore a seguirlo; una direzione che l’industria cinematografica ormai sembra aver dimenticato, ma che è anche la dimostrazione di come sia possibile dare allo spettatore l’occasione per una riflessione concreta estendibile al di fuori della sala cinematografica, e senza rinunciare al successo delle vendite.
Ecco perché occorre sperare che il recupero iconico del cinema di John Carpenter, che in prima analisi si immagina subito spinto da ragioni commerciali, in realtà non si limiti solo a questo ma riporti all’uso di una narrazione coraggiosa in grado di esprimere idee politiche e sociali, magari dure e destabilizzanti, ma capaci di stimolare riflessioni che durano a lungo.