La motivazione che dovrebbe spingerci ad approfondire il cinema di Jean-Luc Godard è il pantano culturale in cui siamo sprofondati. Non è disfattismo congenito, né tantomeno nostalgia per un passato lontano, ma un modo per evidenziare i limiti di un cinema sempre più distante dalla realtà. Quell’attenzione scrupolosa, e riflessiva, ai problemi economici, sociali e politici che riguardano direttamente la vita di ognuno di noi sembra essersi smarrita nelle opere odierne, e al contempo, quei pochi registi che tentano di entrare nelle ferite della quotidianità, come ad esempio Paolo Sorrentino, vengono etichettati come noiosi, buonisti e radical chic.
Per Godard, la macchina da presa è uno strumento di indagine storica, una lente di ingrandimento puntata sulla società. Nonostante le sue origini benestanti, il cineasta francese rimane a oggi, malgrado qualche eccezione, l’ultimo esempio di un cinema rivoluzionario e antiborghese. Godard ritiene che un film rappresenti ben più di un semplice svago, è un visionario che vede la sala cinematografica come luogo di documentazione, di riflessione e di mobilitazione civile. “È ora di smetterla di fare film che parlano di politica. È ora di fare film in modo politico”, afferma lui stesso. Ma soprattutto, è uno che, durante gli scontri del Sessantotto francese, è sceso nelle strade insieme a studenti e operai, consapevole di dover testimoniare ciò che stava avvenendo nel suo Paese. Proprio questa presa di posizione decisa, del resto, gli darà la spinta necessaria per produrre un cinema militante, di evasione, critico verso una società succube dell’egoismo capitalista e del consumismo più sfrenato.
Le vicende narrate nei suoi film, infatti, raccontano lo smarrimento esistenziale di una generazione ribelle ma anche impaurita dal futuro. I protagonisti sono ladruncoli che sfidano la vita e la legge, pur di inseguire una libertà apparente; altri soffrono per amore, si annullano, e al contempo cercano di inserirsi in una società che li fa sentire sempre più inadeguati; altri ancora rifiutano le proprie radici, tentano di costruirsi un’identità adulta attraverso la politica, ma il più delle volte si perdono in vani e inconcludenti discorsi. Quasi un simbolo delle contraddizioni borghesi. E poi c’è la città, Parigi, quasi sempre al centro del racconto, come a volerci ricordare quanto l’ambiente circostante influisca sullo sviluppo di certi comportamenti.
Era il 1960 quando in Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), sua opera prima e lezione per qualunque aspirante regista, Godard mette in atto un nuovo modello narrativo, fuori dalle regole imposte dalle grandi case cinematografiche. I piani sequenza fissi, l’uso libero della sua Cameflex, gli improvvisi mutamenti di spazio, il montaggio, a tratti discontinuo, conferiscono al film un’impronta documentaristica, complici soprattutto gli sguardi diretti in camera e le interviste improvvise ai protagonisti.
L’attrazione ostinata del truffatore Michel Portail, reduce da una rapina conclusasi con l’omicidio di un poliziotto, per l’americana Patricia viene mostrata allo spettatore attraverso una trama semplice, senza intrecci complicati né troppi personaggi. La volontà di liberarsi da ogni conformismo narrativo e ideologico è così forte da condizionare anche i dialoghi, minimalisti ma profondi, tra Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg. Godard s’inserisce nel panorama cinematografico mondiale in punta di piedi, ma con coraggio: improvvisa gli spostamenti, i respiri, le immagini e grazie a una cinepresa nascosta in una bicicletta riprende lo squarcio più autentico degli Champs-Élysées. E poi, ovviamente, c’è la poetica dell’autore, l’assurdità della vita e la falsa esistenza di Michel e Patricia, due anime diverse, accomunate da un unico grande sogno: prendersi gioco della morte. Elementi che contribuiscono a rendere questo film capolavoro e manifesto della Nouvelle vague.
Il maschio e la femmina (Masculin, féminin) del 1966, girato sei anni dopo, mostra il lato più apertamente politico di Godard. Basato su due racconti di Guy de Maupassant, il film racconta la stagione sessantottina, mettendo in scena una tormentata storia d’amore, vissuta da due ventunenni immersi in un contesto sociale profondamente mutato. Paul è un idealista che parla di lotta di classe, Madeleine invece sogna una carriera da cantante; entrambi tentano invano di conoscersi e di darsi una possibilità, ma le loro diverse aspettative di vita mettono a dura prova la coppia. La società degli anni Sessanta è in netta trasformazione, divisa tra Marx e Coca-Cola, piena di ansie, di ambizioni e di angosce. Nella scena in cui Paul e Madeleine si domandano quale sia il centro del mondo, la verità si sviluppa, e si perfeziona, così come la vera natura dei protagonisti. Lui risponde: “l’amore”. Lei risponde: “io”. È questo che, fondamentalmente, Godard vuole analizzare: la sua indagine sociologica è una critica verso il capitalismo che stava trasformando in una grande macchina industriale l’intera società europea, che il regista accusa di essere anaffettiva nei rapporti sociali e del tutto indifferente alla guerra americana in Vietnam.
Sarà proprio il conflitto vietnamita a sensibilizzare politicamente e moralmente la regia di Godard. La Cinese (La Chinoise), tratto dal romanzo La cospirazione di Paul Nizan, diventa negli anni una delle opere cinematografiche più raffinate sulla genesi del Sessantotto ed è qui che “l’attività godardiana” libera la sua vena militante e realizza, attraverso una sorta di montaggio documentaristico, un lungometraggio profondamente personale. In un appartamento pieno di libri e scritte sui muri, cinque studenti universitari approfondiscono senza sosta il Libretto rosso di Mao Tse-tung; leggono ad alta voce, si confrontano, litigano, ogni riflessione diventa sospetta e ogni critica inopportuna. Il titolo del film riporta alla nascita della Grande rivoluzione culturale nella Cina maoista, avvenimento che i giovani rivoluzionari cercano di studiare in ogni sua forma. Il finale racchiude la vera essenza del racconto, con i protagonisti che, giunti ormai al termine dell’estate, vedono il loro entusiasmo politico, letterario, spegnersi rapidamente. Come dimostrano le scene in cui la guerra in Vietnam viene mostrata attraverso giocattoli e armi di plastica, Godard infatti, esprime due punti di vista necessari: se da una parte elogia la nuova sete di libertà giovanile, dall’altra ne condanna la sterilità e l’inconcludenza.
La filmografia di Godard si può paragonare a un romanzo diviso in tre capitoli, ognuno dei quali mette in luce una specifica prospettiva di analisi. C’è un Godard anticonformista, un altro eversivo, un altro ancora sperimentale. La Chinoise, uno degli ultimi film del primo periodo, è il risultato di un certo modo di percepire le aspettative, i ruoli, un’ampia serie di convenzioni sociali; come se Godard avesse provato a mettere da parte ogni regola cinematografica, sperando che magari mettendo “l’ideologia politica” al centro della pellicola, potesse smuovere la coscienza dello spettatore, facendolo sentire in qualche modo responsabile di ciò che stava avvenendo. La vera forza del suo cinema, infatti, sta nella concretezza con cui descrive la realtà, nel coraggio di proiettare nel mondo della finzione le sue esperienze vissute. Ma per capire quanto Godard abbia influenzato, oltre l’estetica cinematografica, generazioni di cinefili, e quanto ancora possa dare alla settima arte, è doveroso approfondire le sue parole in occasione della presentazione a Cannes de Le livre d’image, suo ultimo lungometraggio che riflette sul mondo arabo: – “Vorrei che lo vedessero i giovani e non solo i sopravvissuti alla mia generazione”.
Con quell’invito rivolto ai giovani, Godard vuole sottolineare che i ragazzi di ieri e quelli di oggi sono sostanzialmente diversi, eppure uguali nel modo di vivere il proprio tempo nella più sorprendente incoerenza. I protagonisti di À bout de souffle, Masculin, féminin e La Chinoise, si atteggiano a filosofi, sperimentano l’amore, rifiutano gli schemi sociali. O almeno ci provano. E poi, nell’incontro doloroso con la realtà quotidiana e la società, tornano a confrontarsi per tentare una nuova fuga, in una maniera meno diretta, meno volgare, con un’incoscienza quasi sconcertante. Godard ha descritto il proprio personale Sessantotto, una rivolta contro quel passato che spaventava e quel presente che non convinceva, un rifiuto verso tutto ciò che divideva l’arte dalla vita, ma anche le contraddizioni e gli scompensi della famiglia borghese, facendo emergere, in particolare, un vuoto intellettuale che spesso favoriva un clima di aristocratico isolamento. Ha fatto tutto in totale libertà, a costo di risultare pessimista e noioso, e a chi gli chiede se avrà la forza di fare ancora cinema risponde: “Penso di sì, continuerò, dipende solo dalle mie gambe, dai miei occhi, dal coraggio di vivere la vita, ma soprattutto dal coraggio di immaginare. Quello che non devono mai smettere di fare i giovani”.
Tramite una Parigi intima, affascinante, persino spettacolare nella sua cupezza, Godard ha raccontato il sesso, la politica, l’arte, la filosofia. Da questa premessa nasce l’esigenza di analizzare la rabbia di una generazione mortificata, ma anche confusa. I temi, ovviamente, subiscono una naturale trasformazione nel corso del tempo, ma vengono sempre riproposti allo stesso modo. In tutti i suoi lavori, c’è la voglia di conoscersi meglio, di parlarsi, di analizzare non solo la società, ma anche se stessi. Il cinema, al suo più alto livello, è una forma di verità. Godard è il più grande sostenitore di questa idea e non fa nulla per nasconderlo, perché la sua arte va al di là di se stessa e diventa paura, emozione, silenzio ogni volta che i suoi personaggi prendono vita sullo schermo. A ottantotto anni, il cineasta francese sembra volerci incoraggiare a continuare quella battaglia sociale che ha portato avanti attraverso il suo cinema d’avanguardia: raccontare sempre la realtà, anche con il rischio di non risultare interessante a nessuno, di essere dimenticato da tutti.