Se dovessi dire come sono entrata in contatto col tennis, o meglio con la mitologia del tennis, le immagini sono due. Una è di fantasia, nata dalla lettura delle pagine che Giorgio Bassani, ne Il giardino dei Finzi Contini, dedica a questo sport, quando il protagonista osserva i due fratelli Alberto e Micòl giocare nel campo che ospita il loro enorme giardino, quando viene allontanato dal circolo che era solito frequentare a causa delle leggi razziali. L’altra è molto più concreta e reale: un grande armadio – tutt’ora esistente – nella nostra casa al mare, in cui mio zio, dagli anni Settanta in poi, aveva incollato una serie interminabile di adesivi e poster di tennisti che stavano facendo la storia di questo sport e che io osservavo tutte le estati, essendo l’armadio nella camera dei bambini, ovvero quella in cui dormivo e dormo tutt’ora io. In particolare c’era una delle immagini più grandi che ritraeva un atleta nell’atto di chinarsi verso il campo di terra rossa, impugnando una racchetta stranamente tonda rispetto a quelle che ero già abituata a vedere io, verso una pallina nell’angolo in basso a sinistra della foto. Da un critico d’arte antica la posizione dell’uomo sarebbe stata definita come “chiasmica”, come il discobolo per avere un’idea, ma all’opposto, piede sinistro verso la mano destra, quasi inginocchiato, e la mano sinistra in apertura, a formare una sorta di parentesi tonda con tutta la linea delle braccia. Qualcosa di molto simile a un inchino, un fotogramma sottratto a una coreografia di danza, più che a una partita di tennis. Ecco, quello era Ilie Năstase, detto Nasty, sulla cui vita Tudor Giurgiu, Cristian Pascariu e Tudor Popescu hanno tratto un documentario raccogliendo anni e anni di aneddoti, Nasty, ora visibile su Paramount+.
Non a caso come dice l’allenatore Toni Nadal, il tennista rumeno tra le prime grandi stelle di questo sport colpiva la palla come se stesse danzando, e il tennista Boris Becker aggiunge: ti costringeva a giocare il suo gioco. Si può dire che Ilie Năstase abbia creato l’idea del tennis che conosciamo ora, la sua narrazione, la sua spettacolarizzazione. Aveva capito, in tempi decisamente non sospetti, che alle persone non bastava guardare il gioco del tennis in quanto tale, serviva un pizzico di spettacolo in più, e lui aveva voglia di darlo, semplicemente perché, be’, perché era fatto così. “Guardarlo giocare era come andare a teatro,” dice qualcuno. Năstase voleva piacere, voleva essere amato. Come dice il suo storico “avversario”, Jimmy Connors: “Eravamo due banditi”. Nasty racconta il culmine della sua carriera, il 1972, in cui vinse gli US Open, arrivò in finale a Wimbledon e alla Coppa Davis. Un anno incredibilmente fortunato ma segnato da controversie e scandali, causati dai suoi comportamenti eccessivi e a volte anche osceni.
Guardare oggi questo documentario su Năstase significa fare i conti con una figura che sfugge a ogni etichetta: non è infatti un eroe, non è un classico “villain”, un antagonista. È più probabilmente una meteora, per questo è stato spesso definito geniale, perché il genio nella nostra cultura è qualcosa di slegato da ogni norma del suo tempo, un corpo libero che ha attraversato il campo da tennis proprio come nella foto che contemplavo da bambina: veloce, imprevedibile, inarrestabile. Il film, grazie a materiali d’archivio inediti, interviste e una narrazione costruita con ritmo e un certo sentimento, riesce a restituire tutta la complessità di questo personaggio che ha reso il tennis qualcosa di simile sia all’arte che alla vita: imperfetto, talvolta indecente, ma indimenticabile.
Ilie Năstase crebbe nella Romania degli anni Cinquanta, in un contesto difficile, sotto un regime che poco o nulla lasciava al talento individuale. Eppure, in mezzo a un sistema grigio e repressivo, riuscì a emergere la sua figura agile e imprevedibile, capace di portare ben oltre i suoi confini l’idea di un altro modo di essere atleta: un atleta che ride, che provoca, che si diverte facendo ciò che gli riesce dannatamente bene fare. In un epoca in cui i grandi tennisti sembrano bambini tristi che hanno dovuto lavorare troppo e giocare poco, robot traumatizzati da figure autoritarie troppo severe, stakanovisti implacabili, tenaci, sì, ma con pochissima fantasia, e men che meno lirismo, Năstase non ha mai davvero incarnato l’idea dello sportivo disciplinato (certo, all’epoca poteva permetterselo), e forse anche per questo è stato il primo vero “personaggio” del tennis moderno, precursore di McEnroe, di Agassi, di Kyrgios. Eppure, a differenza loro, Năstase non aveva sponsor da compiacere, social da gestire, né una narrazione da curare. Era puro istinto, autentico anche nel suo cambiarsi maschera, come un personaggio sul palcoscenico di un teatro, ben consapevole che anche lo sport sia intrattenimento, illusione, dramma o farsa, tragedia e parentesi grottesca.
Quello che colpisce è anche la tenerezza di alcuni resoconti. L’affetto con cui ex rivali e amici parlano di lui, pur ricordandone gli eccessi, gli scatti d’ira, le battute fuori luogo. Come se tutti – tutti – sapessero che Năstase, dietro la maschera del clown e del provocatore, cercava solo di essere visto, amato, apprezzato, compreso. Come se volesse dire: guardate cosa sono disposto a fare pur di vedervi felici, pur di emozionarvi, pur di strapparvi un sorriso. C’è qualcosa di profondamente umano in questo desiderio di esistere fino in fondo, anche quando il prezzo paradossalmente è l’incomprensione. Come se, per lui, la posta in gioco non fosse solo la vittoria, ma la possibilità di lasciare un segno. Non un trofeo: un ricordo. Come se nel tentativo disperato di essere accettato per ciò che era, finisse per essere qualcosa di ben diverso. Come se volesse vedere riconosciuto anche questo errare.
A pensarci bene, oggi uno come Ilie Năstase farebbe fatica a esistere. Sarebbe aspramente criticato, escluso, frainteso. In un tempo in cui lo sport deve essere etico, pulito, rappresentativo, e ogni parola pronunciata è passibile di giudizio collettivo, la libertà che Năstase si prendeva – sul campo e fuori – sarebbe intollerabile. E forse è anche per questo che vale la pena raccontarlo oggi. Per ricordare che il tennis, e più in generale la vita pubblica, ha avuto anche dei momenti anarchici, pieni di crepe, di sbavature. E che a volte è proprio lì, in quella zona grigia, che nascono alcune magie, che si genera un fascino magnetico, spurio, poco giustificabile razionalmente, un’attrazione indissolubile. Il documentario non cerca di redimere Năstase, né di condannarlo. Lo racconta, e lo fa con un’intelligenza rara, lasciando allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni. Forse è questa la cosa più interessante di Nasty: il fatto che, nel tentativo di raccontare un uomo, un grande atleta, finisce per restituire anche un’epoca che tuttora ci affascina, fatta di grandi contraddizioni, ma anche di energie forti, sicure, caotiche, ma tangibili.
Il tennis, come ogni sport, è specchio della società in cui viene agito, e se oggi i nostri campioni – al pari dei nostri cantanti – sembrano tutti scolpiti più o meno nello stesso stampo, è anche perché qualcosa si è perso. Nastase, nel suo modo folle e teatrale di stare al mondo, di giocare, di vincere e di perdere, ci ricorda che esisteva anche un’altra possibilità, e non troppo tempo fa: quella di non piacere a tutti. Di non vincere sempre, ma di lasciare un segno indelebile nell’immaginario collettivo. Di essere, anche solo per un attimo, indimenticabili, anche se ben lontani dalla perfezione. E allora forse sì, guardando quella foto nell’armadio della casa al mare – quel corpo che si piega verso la terra con grazia e potenza – avevo ragione, senza nemmeno sapere chi e cosa stessi guardando, quello era proprio un inchino. Ma non al pubblico. Non agli avversari. Un inchino alla libertà di essere se stessi, nel bene e nel male. Di offrirsi. E al gioco, allo sport, anche alla competizione, sì, come forma più alta e più fragile di verità.
Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Paramount+, il servizio globale di streaming di Paramount che offre un’ampia selezione di serie originali e film grazie ai suoi brand iconici. Guarda ora “Nasty” – il documentario di Tudor Giurgiu, Cristian Pascariu e Tudor Popescu sulla leggenda del tennis Ilie Năstase – e gli altri contenuti esclusivi.
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