Questa storia ha due protagonisti e una comparsa.
La comparsa è Marlon Brando.
Il primo protagonista è Robert Evans, a capo della major Paramount dalla fine degli anni Sessanta fino all’inizio degli anni Ottanta. Il secondo è Francis Ford Coppola, regista cult di film di successo come Apocalypse Now, The Conversation e, per l’appunto, Il padrino.
La storia di come The Godfather sia arrivato in sala il 15 marzo del 1972 è la storia dello scontro tra l’ormai morente modello produttivo della vecchia Hollywood, impersonificata da Evans, e la nuova e arrogante Hollywood dei registi superstar, capitanati da Coppola. E non solo. Gli eventi occorsi dal momento in cui Mario Puzo ha terminato di scrivere lo script del film a quando la pellicola è uscita in sala hanno l’epicità, il gusto dell’assurdo e del fantastico a cui solo i grandi racconti hollywoodiani ci hanno abituati, e sono storie così incredibili che l’HBO ha più volte dichiarato di voler realizzare una serie sul making of del Padrino.
Ad aiutarlo a realizzare questo sogno è un austriaco scorbutico, collerico e dispotico. Il suo nome è Charles Bluhdorn e, negli anni Sessanta è a capo della Gulf+Western, una gigantesca corporate che, tra le altre cose, possiede anche la Paramount. Charlie Bluhdorn ha una sua reputazione nell’industry, una reputazione non proprio “leggera” da portarsi appresso: i suoi dipendenti gli fanno di nascosto il saluto nazista e sussurrano “Heil Hitler” mentre lui non sente. Sicuramente la causa è il suo accento con inflessione tedesca, ma anche la violenza con cui prende ed esprime le sue decisioni. La Gulf+Western fa i soldi veri con zucchero e bestiame in Sud America e Bluhdorn, con i suoi occhialetti alla Groucho Marx è ben poco interessato al cinema. Decide di investire Robert Evans del titolo di Head of Production solo perché, si mormora, la sua giovane moglie francese gli suggerisce che una major, per essere cool, deve essere diretta da un giovane avvenente e bello.
Evans, all’epoca, ha solo 36 anni e, sotto la sua direzione, La Paramount diventa non solo cool, ma la casa produttrice di capolavori come Chinatown, Rosemary’s Baby e la trilogia The Godfather.
Anche nella vita privata Evans è ingordo e non sempre fortunato. Si sposa sette volte. Durante la lavorazione de Il padrino sua moglie è Ali MacGraw, la star di Love Story. E, sempre durante la lavorazione del Padrino, Ali MacGraw inizia a lavorare sul set di The Getaway, dove si innamora perdutamente di Steve McQueen, lasciando Evans. E questo è solo l’inizio delle sventure private del povero Robert.
Francis Ford Coppola, invece, ha avuto un solo grande amore: Eleanor Jessie Neil. Si sono sposati nel 1963 e hanno avuto 3 figli, due dei quali sono Sofia – la regista indie per eccellenza – e Roman, lo sceneggiatore fidato di Wes Anderson.
Quando riceve il copione di the Godfather, Coppola è un regista in fallimento e un produttore sull’orlo della bancarotta. Il suo sogno produttivo – la Zoetrope – deve oltre 400mila dollari alla Warner Bros. per colpa di George Lucas – sì, proprio quello di Star Wars. Coppola produce il primo film di Lucas, THX 1138, che si rivela essere un grandissimo flop. THX 1138 fa saltare un accordo per lo sviluppo di 4 film di Coppola con la Warner, rovina l’amicizia tra i due registi e costringe Coppola ad accettare un copione che non lo convince fino in fondo. Ma Francis è uno cocciuto. Nella famiglia di Coppola l’artista vero era il padre di Francis, Carmine, musicista jazz di successo, ma non troppo. E questo “non troppo” costringe i figli di Carmine a vivere nel terrore e nel desiderio del vero successo. Se papà non ce l’aveva fatta a sfondare, allora nessuno di loro ce l’avrebbe fatta. Ma Coppola è uno cocciuto e comincia a bazzicare il giro di Roger Corman, a scrivere e dirigere i suoi primi film e a ottenere un iniziale timido riconoscimento grazie a Finian’s Rainbow e The Rain People. È per questo che, quando riceve il copione di Mario Puzo, Coppola non solo accetta, ma decide che farà del Padrino un suo film, in ogni senso, come solo un vero autore può fare. E qui iniziano i guai.
Partendo dalla scelta del cast, il making of del Padrino è il terreno di scontro tra Evans e Coppola. Evans, pur facendo parte di una nuova generazione di produttori, voleva applicare al film le regole dell’ancien régime hollywoodiano, se così le si può chiamare, per garantire alla pellicola i maggiori incassi possibili. Coppola, invece, è uno dei primi registi (prima di lui solo i risultati delle produzioni BBS) a volere il controllo totale sulle scelte creative del film, proprio come si faceva in Francia con Truffaut, Godard e la Nouvelle Vague.
Per il ruolo da protagonista, Evans voleva volti noti, come Ryan O’Neal, Martin Sheen o Jack Nicholson, mentre Coppola, fin dall’inizio aveva in testa Al Pacino. Nessuno voleva Pacino, all’epoca semi-sconosciuto attore teatrale di New York, bassino, non attraente e dalla parlata strana, ma Coppola non era intenzionato in nessuno modo a rinunciare alla sua visione. Altro discorso era la scelta dell’attore per il ruolo del Don. Appena Coppola fece il nome di Brando, Evans e il resto dei capi dello studio sbatterono le mani sul tavolo gridando che Brando non avrebbe mai recitato in un film della Paramount. In quegli anni, dopo i guai che Brando provocò alla produzione per il film Gli Ammutinati del Bounty, nessuno lo voleva più sul set. Tutti lo evitavano in malo modo. Evans non transigeva su questo punto. Cosa fece allora Coppola? Registrò un veloce casting tape di Brando truccato, irriconoscibile con il cotone schiacciato dentro le guance, e volò a New York, dove stava Bluhdorn. Si palesò nell’ufficio del capo della Gulf+Western e gli disse: “Ho trovato l’attore perfetto per il ruolo del Don”. Bluhdorn guardò il tape, con Brando che sbiascicava con il suo accento trascinato, non lo riconobbe e urlo con inflessione tedesca: “Hai ragione Francis! È perfetto! Ma chi è?”. Brando aveva appena ufficialmente avuto il ruolo che gli valse l’Oscar. E alla fine anche Pacino ottenne la parte di Michael. Evans incassò, ma non dimenticò.
Fin dalle primissime discussioni con Gordon Willis, direttore della fotografia che entrerà poi nel pantheon dei grandissimi DOP – soprattutto per il suo lavoro con Woody Allen – Coppola aveva ben chiaro l’immaginario visivo in cui si sarebbe mossa la storia de Il padrino. Contrariamente alla moda del momento che voleva l’uso estensivo di camera a mano e zoom, Coppola e Willis avrebbero narrato attraverso dei tableau immobili. La camera si sarebbe mossa solo per inseguire i movimenti degli attori, che sarebbero statti liveri di esplorare lo spazio della scena. Sia Pacino che Brando, infatti, erano entrambi alunni dell’Actors Studio di Lee Strasberg, dove veniva insegnato ai giovani attori americani il famoso Metodo Stanislavskij. In questo modo si sarebbero potuti calare nella parte, esprimendo i sentimenti dei loro personaggi, senza doversi preoccupare troppo della posizione della camera. Il racconto del viaggio nell’oscurità di Michael, reduce di guerra, bravo ragazzo che decide di prendere le redini della sua famiglia mafiosa, sarebbe stato un racconto fatto di tenebre, di chiaroscuri marcati. Evans, ovviamente, non era d’accordo. In quegli anni il detto tra i direttori della fotografia era simile alla catchphrase del DOP di Boris: “Il film si deve vedere anche nei drive in,” ovvero “Smarmella, apri tutto”. Ancora una volta Coppola l’ebbe vinta.
Le riprese del film durarono all’incirca sei mesi, contro i 100 giorni preventivati all’inizio della pre-produzione e tutti quelli che lavorarono sul set li ricordano come un incubo senza fine. Coppola spesso e volentieri si nascondeva per poter riflettere al meglio sulle scelte, lasciando la troupe in balia delle dicerie che lo volevano sull’orlo del licenziamento. Evans non ha mai confermato ma le voci che vuole la Paramount insistere con Elia Kazan per sostituire Coppola hanno più di un fondamento. Per capire il clima che si respirava sul set, nello splendido libro Easy Rider, Raging Bulls di Peter Biskind, viene riportato un aneddoto. La troupe stava girando una scena in interno. Pacino, sbagliandosi, era uscito dal percorso tracciato e illuminato per lui. Willis chiamò lo stop facendo infuriare Coppola: perchè il suo attore non era libero di muoversi come voleva? Willis rispose che poteva farlo, ma lui doveva illuminare e, per farlo, gli serviva tempo. Coppola insistette così tanto che Willis se ne andò sbattendo la porta. Coppola chiese al primo assistente di Willis di fare il movimento di macchina e questi si rifiutò. Fu allora Coppola a chiudersi nella roulotte dove batté così forte i piedi e i pugni che la troupe pensò a colpi di arma da fuoco. Pensarono che Coppola si fosse ammazzato.
Ma Coppola non si ammazzò, anzi, portò a compimento il film e riuscì pure a convincere lo studio a farglielo montare a San Francisco, nella vecchia sede della Zoetrope. Si narra che, alla prima visione del primo cut del Padrino, Evans si presentò su un letto d’ospedale spinto dal suo assistente. Dolori alla schiena, si dice. Coppola racconta di aver passato tutta la proiezione sentendo il rumore del motorino meccanico del letto di Evans chinarsi sempre di più, sdraiandosi sempre di più per farlo dormire meglio. Fu un disastro. Quelli dello studio non riuscivano a vedere gli attori, illuminati troppo poco, non capivano quello che Brando diceva per colpa dell’accento e del cotone in bocca. Coppola era disperato, Evans era entusiasta, pronto a riprendersi il film e a rimontarlo secondo il suo gusto.
Non si sa se Evans veramente mise le mani al montaggio o se Coppola, semplicemente sistemò il cut autonomamente. Fatto sta che pochi mesi dopo il film era pronto e, a una proiezione privata, suscitò meraviglia e applausi. Ancora prima della sua uscita il buzz intorno al Padrino era già altissimo e questo si trasformò in un successo senza precedenti. Incassò 86 milioni di dollari, stupendo quelli dello studio e, soprattutto Coppola. Il successo del primo Padrino gli permise di avere il controllo assoluto sul secondo e su tutti i film successivi.
Evans, invece, nel 1980 fu incriminato per spaccio di cocaina. Dopo la condanna continuò a produrre, ma senza grande successo. Spesso viene citato nei film (in Wag the Dog di Barry Levinson il personaggio di Dustin Hoffman è un chiaro tributo a lui) e viene ricordato come il canto del cigno di una Hollywood che stava per essere distrutta dai sogni violenti e dalle visioni una nuova generazione di registi. Era arrivato il momento dei Movie Brats: Scorsese, Spielberg, De Palma e Lucas erano pronti a stravolgere il significato di quella scritta sulle colline di Los Angeles e a regalarci film che avrebbero fatto la storia del cinema.