Qualche giorno fa si è scatenata una polemica a proposito di uno spot di una famosa marca di lamette per la barba. Il brand in questione è Gillette, e la campagna pubblicitaria che ha di recente lanciato si articola tutta attorno al ribaltamento di senso del suo slogan storico: “Il meglio di un uomo”. In quei tanto discussi due minuti scarsi, si vedono una serie di uomini intenti sia a praticare opere di cattiva mascolinità – o “tossica” come ultimamente è in voga definirla – che a fermarle sul nascere, mettendo i fiori nei loro cannoni e interrompendo una rissa invece di fomentarla, fermarsi durante uno slancio di catcalling, non indugiare sull’ormai obsoleto detto per cui “boys will be boys”. La polemica si è quindi strutturata con da una parte chi ha visto in questa rappresentazione gillettiana del nuovo maschio una minaccia al genere e un trionfo del nuovo femminismo castrante e nazista, dall’altra chi invece lo ha interpretato come un segnale positivo di rinascita dell’uomo e di una rinata consapevolezza delle proprie responsabilità. C’è chi poi, come me, crede che le pubblicità non siano altro che delle pubblicità, ovvero delle strategie per venderti qualcosa, e quindi non ci ha visto nulla di più che un buon esempio di marketing efficace, ma questa è solo la mia opinione.
Al di là delle lamette e delle acclarate catastrofi imminenti che minano la virilità del genere maschile, c’è un punto interessante di tutta questa storia e non è legato né ai dopobarba né alle pubblicità progresso, ma semmai alla questione dei modelli maschili con cui gli uomini si devono rapportare quotidianamente da millenni. Se è vero – per fortuna – che nel Ventunesimo secolo è ormai anacronistico definire il ruolo della donna come semplice angelo del focolare volta solo a perseguire i suoi doveri coniugali, è anche altrettanto ridicolo rappresentare quello dell’uomo come cacciatore macho che non deve chiedere mai, che non deve piangere mai e che non deve mai mettere in dubbio la dose massiccia di testosterone che gli scorre nelle vene. Prima ancora che Gillette usasse questa questione così complessa per vendere ai veri uomini lamette, nel 1960 usciva un film diretto da Mauro Bolognini con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale, tratto da un romanzo del 1949 di Vitaliano Brancati, e che approfondisce gli aspetti più complicati e intimi dell’essere uomo e dell’apparire maschio conquistatore. Si tratta de Il bell’Antonio, ed è una di quelle storie che vale la pena conoscere se si cerca un’alternativa valida agli spot pubblicitari che, per quanto possano contenere messaggi positivi, sono pur sempre spot pubblicitari.
Antonio Mangano, protagonista interpretato da Marcello Mastroianni è un ragazzo di una buona famiglia catanese che torna a casa dopo un periodo trascorso nella Capitale dei primi anni Sessanta. Come spesso succedeva, e succede ancora, quando un giovane si sposta da una città di provincia per diventare adulto e formarsi in un luogo molto più centrale, che si tratti di Roma o Milano, nel momento in cui torna a casa è spesso sopraffatto dalle aspettative delle persone che lo circondano. È una sensazione che chiunque abbia sperimentato la vita del fuori sede ha bene in mente: durante le feste, le cene, le riunioni familiari tutti ti chiedono quali incredibili avventure e mirabolanti imprese tu abbia affrontato in quei mesi di permanenza in città reputate esotiche per la loro lontananza – o come si dice in Sicilia “nel Continente”. Personalmente, avendo fatto lo stesso transito di Antonio Magnano, ovvero da Catania a Roma, ho molto ben chiaro cosa significhi temere di poter deludere le aspettative delle persone che si immaginano che nella tua permanenza a Roma tu abbia fatto amicizia col Papa e preso un tè informale al Quirinale col Presidente della Repubblica. Nel caso del personaggio del film di Bolognini, questa forma di fiducia iperbolica nell’intraprendenza dell’emigrato – che invece, magari, ha solo studiato e conosciuto qualche nuovo amico – si traduce in una narrazione fantastica della sua vita sessuale. Antonio Mangano è un ragazzo molto bello, elegante, quasi etereo, e il suo fascino ha generato dei pettegolezzi riguardo al suo conto che lo dipingono come una sorta di satiro insaziabile, un Don Giovanni inguaribile che ha avuto rapporti con qualsiasi donna presente nella capitale. Anche il padre contribuisce a questa mitopoiesi del figlio così tanto virile da non poterselo tenere dentro i pantaloni, fomentando con orgoglio questo senso di mascolinità prorompente e irrefrenabile.
La verità, però, è un’altra: Antonio a Roma non ha fatto un prequel del La dolce vita, non ha messo a frutto la sua virilità di stallone siculo, non è stato quel tombeur de femmes che tutti a Catania si immaginano. Antonio Mangano, infatti, è impotente, ma di un’impotenza oscura, incomprensibile, che non gli consente di avere rapporti con chi ama ma solo qualche sporadica performance priva di qualsiasi sentimento. Questo segreto lancinante, che male si sposa con la retorica siciliana del masculu, potente e dominatore, tutto d’un pezzo e mai libero di lasciarsi sfuggire qualche stralcio di emozione che non sia una declinazione della sua forza mascolina, rimane celato fino a che Antonio non si trova a doversi confrontare con il passo fondamentale per un uomo adulto, ovvero il matrimonio. Un matrimonio che tra le altre cose è anche fondamentale per aggiustare le sorti poco felici della sua famiglia, ormai quasi in rovina. Barbara Puglisi, una ragazza tanto bella quanto ricca, è la sposa designata, e i due insieme sembrano praticamente perfetti: entrambi giovani, eleganti, avvenenti. Niente sembra potersi mettere in mezzo a questa unione apparentemente divina, tranne il segreto di Antonio che ben presto si manifesta. I due sposi infatti si trasferiscono nella piana di Catania, in una casa di campagna dove si coltivano le loro terre, e nonostante passino i mesi Barbara non rimane incinta. Antonio la venera, la tratta come se fosse una sorta di creatura angelica scesa in terra, la riempie di baci e di carezze, ma non va mai oltre. All’inizio la ragazza è molto ingenua, come tante donne in quegli anni, non sa bene cosa significhi avere un rapporto sessuale né si domanda cosa c’è che non vada nella coppia. Dopo un anno però, i genitori di lei pretendono un erede, e interrompono il matrimonio, disvelando anche l’oltraggio commesso da Antonio, il disonore di non essere stato uomo.
Così Antonio Magnano passa dall’essere il simbolo della mascolinità dominante e perpetuata nell’atto di avere più femmine possibile a disposizione all’essere visto come un reietto, un uomo inutile, privo di qualsiasi autorità. Una volta tolto l’attributo che rende un maschio degno di essere chiamato tale, non c’è potere che questo possa esercitare nel mondo, né sociale né privato. Il padre di Antonio è ovviamente distrutto da tanto disonore, al punto di schiattare nel letto di una prostituta per provare al mondo di essere ancora capace di fare l’uomo, ma la soluzione all’onta di Antonio trova compimento in una messa in scena: la gravidanza di una serva della casa che sostiene di essere stata messa incinta da lui quando è evidente che si è trattato del cugino. La dignità di Antonio e il suo diritto a stare in società in quanto essere di sesso maschile si rinnova con una menzogna, l’ennesima nella sua vita, che serve a coprire il misfatto, una toppa inutile e mal cucita sull’onore del protagonista che nell’intimo della sua malinconia si lascia andare in un pianto, ben lontano dagli occhi indiscreti di chi lo accuserebbe di essere una femminuccia, un omosessuale, un finto uomo. Antonio è così costretto a ricominciare la recita in cui interpreta il ruolo del maschio impermeabile ai sentimenti, alle paure e alle debolezze che non si addicono a chi deve fare da capo sia alla propria famiglia che alle persone che lo circondano.
Rispetto al libro di Brancati, che si ambientava invece nell’Italia fascista degli anni Trenta, il film di Bolognini differisce perché non lega la sua analisi della questione maschile alle radici totalitarie e rigide del mito mussoliniano. Brancati infatti individua sia nel paradosso dell’uomo siciliano tutto d’un pezzo sia nell’italiano fedele ai dettami del duce quel germe di mascolinità che oggi definiamo “tossica” ma che fino a pochi decenni fa era considerata l’unica praticabile – cosa che comunque avviene tutt’ora, seppure in misura minore. Il soggetto di Bolognini invece, sceneggiato tra le altre cose anche da Pier Paolo Pasolini, si mantiene nell’atmosfera festaiola e frivola degli anni del boom economico, conferendo anche un patina di mondanità più moderna alla storia di Antonio Magnano. Il fatto che sia stato scelto Marcello Mastroianni come interprete poi è anche molto significativo del tipo di maschio che si voleva rappresentare: Mastroianni infatti se da un lato è il latin lover italico per eccellenza, il Marcello Rubini che viene chiamato da Anita Ekberg a farsi un tuffo nella fontana di Trevi (La Dolce Vita esce nello stesso anno del Il bell’Antonio) o il Domenico Soriano di Matrimonio all’italiana (che uscirà nelle sale quattro anni dopo), ha in sé una certa eleganza femminea, espressa nei suoi tratti gentili, delicati. Non è infatti né una bellezza particolarmente virile, né Mastroianni aveva una personalità scenica straripante e forzuta, tant’è che i suoi ruoli più memorabili sono proprio quelli in cui può dare spazio a questa sobrietà cinematografica molto seducente ma anche venusta, tanto da trovarsi a recitare non a caso il ruolo dell’omosessuale in Una giornata particolare di Scola del 1977.
Il bell’Antonio, dunque, non è solo la storia di un uomo impotente nell’Italia fascista o nella Catania degli anni Sessanta, ma è anche un’analisi della mascolinità e delle gabbie mentali nelle quali spesso chiudiamo tutt’ora il nostro modo di percepirci. Se sei un uomo devi darti da fare il più possibile con le femmine, perché in caso contrario non sei degno di essere chiamato tale; così come per la donna nel film, Claudia Cardinale, che si distanzia da tutte le altre femmine comuni – di cui servirsi prima e durante il matrimonio per altri sfoghi – perché è ingenua, immacolata, infantile e dunque degna di poter adempiere ai suoi doveri sociali di madre e di moglie. Ancora oggi ci ritroviamo a frenarci e a precluderci esperienze perché magari le giudichiamo incompatibili con il nostro sesso, così come Antonio Magnano non poteva permettersi di essere uomo a modo suo, e non in quello stabilito da una tendenza sociale alla quale ci si deve assimilare per non essere esclusi. Ma certi paletti ormai non hanno più senso di esistere, e forse “il meglio di un uomo” andrebbe visto proprio nel coraggio di non lasciarsi pilotare dall’esigenza di aderire a un modello prestabilito di mascolinità.