“Human Nature”, di Gondry, ci mette davanti ai nostri limiti, mostrando quanto siamo ridicoli - THE VISION

L’essere umano è un animale che ha pochissimi istinti, ma che risponde molto bene agli stimoli. Questa frase – sentita durante una lezione di Yoga Studies del professor Federico Squarcini, che da tempo si occupa del posto che occupa l’umano nel mondo e del suo modo di starci – mi è rimasta immediatamente impressa, e guardando su MUBI un film come Human Nature – primo lungometraggio di Michel Gondry uscito nel 2001, che dà forma alla seconda sceneggiatura di Charlie Kaufman – è riemersa, finendo col sembrarmi la sua sintesi perfetta. Come se due forze si andassero a incontrare dopo lungo tempo, e la realtà di oggetto e la parola che usiamo per indicarlo, per dirlo, si rimarginassero.

Human Nature, come tutti i film scritti da Kaufman, è un film complesso, cangiante e stratificato, ricco di allusioni colte senza mai essere pesanti, in cui il messaggio prima ancora che dalla trama, sempre al confine del surreale, viene veicolato da un complesso gioco di tensioni linguistiche, sostenute magistralmente dalla regia stralunata, ironica e straniante di Gondry. Gondry, ex musicista, nel 1993 aveva diretto il videoclip del primo singolo di Björk, “Human Behaviour”, inaugurando così la sua carriera da regista di video di alcuni dei più grandi gruppi dell’epoca. Anche questa canzone – così come l’incontro poi tra la cantante islandese e il regista francese, il regista francese e lo sceneggiatore americano, il mio corso di filosofia dello yoga e il film, l’oggetto e la parola – nacque a detta della stessa Björk come l’incontro tra due significati che a distanza di tempo finivano per combaciare, e incontrarsi. “Ho scritto la melodia di questa canzone quando facevo parte degli Sugarcubes,” ha dichiarato, “S’intitolava ‘marsinn minn’ e non fu mai completata del tutto. Avevo conservato comunque quella melodia e quando ho scritto il testo, alcuni anni dopo, mi sono accorta che le due cose combaciavano. Le parole guardano agli umani – in particolare agli adulti – dal punto di vista di un bambino. È per questo che ho chiesto a Michel Gondry di realizzare un video dal punto di vista degli animali, tutto bagnato e peloso”.

Queste ultime due frasi identificano perfettamente il primo lungometraggio di Gondry, realizzato otto anni dopo, e che infatti per tutte le scene ambientate nella foresta riprenderà proprio quel video, che s’ispirava alla favola di Riccioli d’oro e i tre orsi e in cui Bjork, dopo tanto scappare – fin sulla luna – alla fine veniva mangiata dall’orso, rimanendo intrappolata nel suo stomaco. “Preferiresti trovarti da sola in un bosco con un uomo sconosciuto o con un orso?”, a riprova che viviamo in una fitta rete di rimandi e corrispondenze da decodificare e in cui ci dobbiamo districare come in una foresta, in questo periodo è diventata virale questa domanda a seguito delle cicliche ondate di indignazione e protesta in tutto il mondo contro la violenza degli uomini sulle donne. La maggior parte delle intervistate risponde che preferirebbe di gran lunga un orso. Eppure nel film a scappare è l’animale selvaggio, che verrà chiamato Puff, braccato da una donna, Lila, che per accettare la propria forma cerca disperatamente un ambiente scevro dal giudizio della norma e della cultura umana.

E cosa vede un bambino, o un animale, del nostro comportamento? “If you ever get close to a human / And human behaviour / Be ready, be ready to get confused / There’s definitely, definitely, definitely no logic / To human behaviour / But yet so, yet so irresistible / And there is no map”. Ci vantiamo della nostra capacità di pensiero al punto da considerarla come caratteristica fondante del nostro esistere, eppure la nostra natura è ben altro, è percezione e di conseguenza emozione, e la parola a ben vedere altro non fa che creare una fitta coltre di bugie per mascherare i nostri desideri, e le nostre pulsioni, rinnegate e mantenute in cattività.

Questo archetipo di Björk, lo sguardo puro, libero in cui non ci sono faglie tra mondo e parola, valori e comportamenti – che incarna anche nella protagonista di un altro grande film, uscito solo un anno prima di Human Nature, Dancer in the Dark di Lars von Trier – confluisce nella protagonista Lila. Una donna bellissima, che fin dall’infanzia è costretta a convivere con una condizione ormonale che fa sì che sia ricoperta di peli, “come una scimmia”. “La natura è qualcosa di buffo e complesso”, dice, e il corpo è una prigione – non a caso tutto il film è attraversato dal concetto di disforia – eppure è tutto quello che abbiamo. Il deragliamento dell’apparenza dall’uniforme accettato e preteso dalla società la fa soffrire e la spinge lontana dalla città, quando incontra lo sguardo di un topolino, quasi come in una favola di Esopo.

Al topo non interessa niente di come appari, o di come dovresti essere, sei così e basta. Non c’è giudizio nello sguardo dell’animale, ma semplice accettazione della realtà e delle sue forme. Non c’è parola, e quindi non c’è scissione. Lila vuole fare tutto il possibile per avvicinarsi a questa condizione di verità. Purtroppo, però, nessuno la capisce, tutti gli altri personaggi intorno a lei (Nathan, Puff, Gabrielle), più o meno corrotti dal linguaggio, dai benefici dell’antropotecnica e dalle meraviglie artificiali, finiscono per tradirla e tradirsi, ottenebrati dal desiderio di poter plasmare la realtà, sfruttare il mondo per ottenere ciò che desiderano, che puntualmente è qualcosa di diverso da ciò che hanno, persi nella vecchia dicotomia assurda eppur tuttora radicatissima tra mente e corpo.

Tutti, infatti, si appoggiano alle complicate sovrastrutture socio-culturali, paradossalmente per soddisfare il più semplice e atavico dei desideri, quello sessuale – e anche la stessa Lila all’inizio casca in questa trappola. Nathan, il ricercatore nevrotico col micropene che paradossalmente la soddisfa e che vuole educare il mondo alle buone maniere, convince Lila a estirpare Puff – l’uomo che si crede una scimmia – dal suo habitat, mettendolo in cattività, perché altrimenti non potrebbe godere della lettura di Moby Dick, o dell’osservazione di un Monet. Alla fine Puff si lascierà inculcare tutte queste nozioni, questi fantasmi, sopportando dolorosissime scosse elettriche e facendo sforzi sovrumani, ma solo per una ragione: poter fare sesso. Per ottenere questa paradossale libertà però dovrà anche far finta di riuscire a resistere all’impulso erotico.

Nathan, nel suo purgatorio, inizialmente dirà di non conoscere più il significato di pentimento, la sensazione che genera, così come di amore, dispiacere, senso di colpa. Eppure, mano a mano che racconterà e ricorderà la sua storia ricomincerà a provare queste emozioni, fino al punto da desiderare di tornare nel mondo, proprio per immergervisi del tutto, annegare in esse, anche se lo sballottano qui e là fuori controllo, e lo fanno penare. Meglio questo della morte-risveglio-illuminazione. Ma il punto del suo purgatorio-inferno è proprio questo, ricordare, e ricordare, e forse prima o poi capire che noi non siamo le sensazioni che ci attraversano, anche se assumiamo la loro forma. Ma la sensazione è forte, perché come dice Björk: But, oh, to get involved in the exchange / Of human emotions / Is ever so, ever so satisfying”. Rinunciare alla cultura, come facevano gli eremiti, è spaventoso, radicale, tanto che le stesse cavie di laboratorio ammaestrate da Nathan, dopo essere state liberate da Lila, come Nathan, desiderano disperatamente di tornare a New York, la culla della civiltà americana.

Un uomo crede di essere una scimmia, una scimmia crede di essere un uomo, un uomo nevrotico, debole e irrisolto pensa di essere equilibrato e dominante, una donna americana e ignorante finge di essere una coquette francese, un uomo che è disposto a tutto pur di scopare con una donna si finge saggio, leale e coerente. Kaufman ci mostra che grazie al linguaggio e all’habitus fornito dagli oggetti chiunque può fingere di essere ciò che non è, illudere. Chiunque esercitandosi a sufficienza può imparare una parte alla perfezione, poi starà al tempo il resto della trasformazione, la possibilità di aderire alla forma desiderata. Eppure questa educazione sottende sempre una violenza, autoinflitta o inflitta dagli altri, una sofferenza generata dalla scissione, dalla dissonanza cognitiva, il cui prezzo continuiamo a sottovalutare, vittime del nostro stesso pollice opponibile, della nostra favolosa cultura, ricca di promesse e possibilità, della nostra civiltà superiore, dell’educazione che c’è stata impartita, dei ricordi e dei sogni, dei traumi, attratti dalla promessa del piacere e della felicità più di qualsiasi altra cosa.

Una volta che l’essere umano impara a parlare, come Puff, a dire “Io sono”, a chiamarsi per nome, è definitivamente fregato, e non può che peggiorare mano a mano che passa il tempo. Puff, che nonostante tutto appare come il personaggio più consapevole della pellicola, proprio perché ha sperimentato più passaggi di forma, alla fine sottomette Nathan non con la forza, come farebbe un animale, ma con la parola. “Adesso parlo io. Adesso io canto, adesso io ballo, e adesso, io, ti uccido”. Non con le mie stesse mani, ma con un’arma. La metamorfosi è completa. Puff sa parlare, sa comportarsi come un maschio bianco etero, esercitare lo stesso privilegio, “sa stare al mondo”, e quindi sa anche mentire, fingere. Il film gioca tutto sullo svestire il re, ovvero l’umano, mostrando la sua grottesca cecità, il suo deleterio e accurato scindersi dal mondo, e farsi a pezzetti.

Questa educazione e rieducazione, intesa come correzione, raddrizzamento, mostra come ogni forma che ci viene impressa comporti una violenza e una sottomissione, e al tempo stesso come – proprio per questo – nulla vada scambiato per reale, perché la nostra esistenza umana non è altro che un continuo esercizio formale, che se scambiato per verità non ci farà altro che soffrire immensamente. Kaufman e Gondry, incontrandosi agli esordi della loro carriera cinematografica, danno così vita a un’opera potentissima, che ci mette davanti a tutti i nostri limiti, mostrandoci quanto siamo profondamente ridicoli, abbiamo la presunzione di capire il mondo quando siamo perennemente sperduti nei meandri delle nostre stesse meningi, attraversati costantemente da stimoli che siamo incapaci di comprendere e di gestire, perché mescolandoli allo sguardo che ci restituisce il mondo, li scambiamo per il nucleo fondante della nostra identità, che – spoiler – non esiste, è solo un’ennesima sensazione, quella di credersi qualcuno.


“Human Nature” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per ottenere 30 giorni di prova gratuita.

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