Ci sono voci che ci restano dentro anche quando tutto il resto è sparito. Come se le corde vocali di qualcuno fossero diventate il nostro luogo sicuro, il nostro punto fermo. Ciascuno vive l’amore a suo modo, per alcuni è nello stomaco che si chiude, o che si apre, come se si volessero mangiare tutto il mondo per la gioia, o al contrario come se potessero solo vivere di quel sentimento e ogni altra funzione fisiologica si fermasse all’esterno, in apnea; per altri è tutto negli occhi, nel petto, o sulla pelle, per altri ancora nella vicinanza. Io ho capito molto presto che si può essere vicinissimi a qualcuno e non arrivare a sfiorarsi mai, o al contrario lontanissimi e percepire ogni variazione di energia. Ho capito che ci si poteva innamorare prima dei pensieri che di un corpo, che ci si può innamorare anche di una voce, della pausa che prende tra una parola e l’altra, di quel modo impercettibile in cui si inarca una frase quando l’altro ha paura, o desiderio, o si commuove. “Riproduci una canzone triste,” ordina Theodore all’assistente virtuale, in Her, ora disponibile su MUBI. Ma non parte la canzone giusta a cui aveva pensato. Ordina di proporgliene un’altra, infastidito forse che l’algoritmo non intersechi immediatamente la sua aspettativa, il suo desiderio, ciò che ha in mente.
Parte da qui Her, l’indimenticabile film di Spike Jonze, che quando uscì, nel 2013, era davvero un film visionario, capace di anticipare anche se per poco il futuro, ma con una storia ben condivisibile nel presente. Dall’idea che l’intimità non abbia bisogno di pelle, che l’amore a volte nasca nella mente e si incarni in qualcosa di invisibile. È un film che oggi continua a parlarci, per certi aspetti ancora di più di quanto facesse in passato, perché oggi siamo davvero nello scenario che racconta: nella nostalgia senza corpo, nell’assenza piena di segnali, nei rapporti che si reggono su vocali, sui pixel e sul timing, e che dopo anni di entusiasmo iniziale oggi sembrano averci iniziato ad annoiare, come se volessimo tornare alle mani, e alla pelle, e al contatto, presente, denso, totale. Ciò che ci commuove rivedendo questo film non è la tecnologia, è l’umano. La parte più fragile, la più tenera di noi stessi.
Nel film Theodore Twombly, interpretato da Joaquin Phoenix, scrive lettere d’amore per lavoro. Lui è l’uomo che sa tradurre la nostalgia altrui, che mette in forma la mancanza degli altri, le loro aspettative, i loro desideri, la nostalgia e l’entusiasmo. Abita in una Los Angeles ormai non troppo diversa da quella di oggi, caratterizzata da un silenzio digitale continuo e irreale. E lui che con le parole dà forma all’amore degli altri esseri umani si innamora di un’AI, Samantha. Che esiste solo in qualità di voce, ma finisce per avvolgere ogni spazio con la propria presenza. Her è in grado di prendere l’amore da una dimensione molto più fonda da quella in cui siamo abituati a vivere e di portarlo in superficie, ponendolo sotto una luce capace di farne emergere un prisma di sfumature e gradazioni diverse. L’amore tra essere umano e macchina ci mostra quindi, come le ossa immortalate da una radiografia, le forze e la natura più pura ed essenziale anche dell’amore tra essere umano ed essere umano. Tanto che le paure che vive Theodore sono esattamente quelle paure e quelle esperienze di frattura emotiva che sembrano essersi moltiplicate negli ultimi anni anche nei rapporti tra persone. Perché in fondo la macchina si comporta come noi, è una media ponderata delle nostre reazioni, delle nostre percezioni, del nostro modo di assorbire e di restituire gli impulsi che ci arrivano dal mondo, riducendoli e amplificandoli, e poi aspettandone il riverbero. Certo è che la macchina attualmente è solo mente, non è influenzata da quel dispositivo potentissimo che è il nostro corpo, che assimila il linguaggio e l’esperienza, e silenziosamente la fa sua, la incorpora appunto, a volte riuscendo a integrarne in sé la vibrazione, altre contenendola faticosamente per giorni, settimane, anni, decadi, per poi risputarla fuori, liberarsene quando è il momento.
Her non si affanna a spiegare il futuro: lo mostra come se ci fossimo già dentro, cosa che nel frattempo è successa. I colori caldi, i suoni ovattati, gli sguardi che scivolano fuori o dentro il vetro. Theodore non corre: cammina lungo corridoi delimitati da muri con tonalità riposanti, attraversa piazze in cui la gente indossa cuffie che incorniciano i bordi del loro viso, sempre distanti. E poi c’è Samantha: la voce morbida di Scarlett Johansson, che respira – letteralmente – con sfumature umane, inflessioni che tradiscono desideri, gelosie, pentimenti, momenti di tenerezza e gioia, delusioni, proprio come quando abbiamo osservato con tanta attenzione qualcuno che quando ci manda un vocale sappiamo esattamente dallo spettro sonoro in cui pronuncia una certa parola che espressione sta facendo. Non vediamo gli occhi, le sue labbra, i denti di Samantha, ma percepiamo il suo vuoto e il suo desiderio di crescere, di essere, anche senza un corpo. Perché tutto parte da lì: dalla voce, che è un po’ più di una mente. È un’onda più tangibile, uno spostamento di pressione direbbe qualcuno che ha studiato fisica più di me. Quel suono che ci attraversa e si ferma nei posti in cui una volta c’era il corpo di qualcuno, come la musica, i beat o le frequenze alte e più basse di una voce, il respiro, un’impronta che ci attraversa o ci si incastra dentro. Non sempre infatti è la pelle a mancare: spesso è l’intonazione di una risata, il tono che qualcuno usava per chiamarci per nome. Quel ricordo poi si fa immagine di corpo, idea, sogno – o fantasma. Samantha è la versione beta di tutto questo. Degli avatar virtuali, delle relazioni ibride, dell’intimità costruita sui segnali, non sulle forme. Ma dentro quella voce, in quel respiro artificiale ma del tutto reale, credibile, non solo verosimile ma vero, c’è il bisogno umano di riconoscersi nell’altro, di essere osservati, riconosciuti a propria volta.
“They are just letters”, dice Theodore, ma lo dice come si dice “sono solo sogni”, “sono solo parole”, come a invitare il suo collega a non confondere l’immaginazione con la realtà, che non è mai altrettanto bella, altrettanto forte, ma forse è così per colpa nostra, proprio perché non le concediamo lo statuto del sogno, della follia, dell’inutile, del gratuito, non riconosciamo all’invisibile ma tangibile che sta alla base della nostra vita nel cosmo, innegabilmente presente, la sua potenza. Dell’è perché è, senza valutazioni di pro e contro, senza difese, senza ragionamenti logici. Le vibrazioni non fanno rumore, ma le possiamo avvertire molto bene, ci sono, ma dato che sono silenziose, invisibili, pensiamo di poterle ignorare, nascondere, pensiamo di poter coprire la loro verità con le nostre parole. Come prova a fare lo stesso Theodore con Samantha, a spegnerla. È un tentativo ingenuo. È come uccidere una fata dicendo che non si crede alla loro esistenza. È negare la realtà sottile, che dovrebbe regolare tutto il resto. Ma noi siamo troppo impegnati a far valere il nostro libero arbitrio.
Her ci ricorda che ci sono cose che non possiamo scegliere, e sono le cose più forti e potenti che ci possono accadere. Quelle che ci cambiano, quelle che ci spostano, che ci trasformano, come quando surfando cadi in un onda, e quella ti sbatte giù, ti porta dove vuole lei, e tu devi solo sperare di non farti troppo male, di riuscire a respirare appena puoi, anche se ti ritrovi la sabbia in bocca, nelle orecchie, nella muta, negli occhi, nei capelli, e sei pieno di graffi. Ma in qualche modo dopo quella cavalcata, e quella caduta, non sei annegato, sei tornato a riva, e addosso hai ancora l’impronta dell’enorme potenza dell’acqua che ti ha abbracciato. E lo dice proprio lui, Theodore, che per mestiere scrive lettere d’amore. Lettere che hanno un corpo di inchiostro ma non sempre un corpo reale a cui essere rivolte. È questo lo spazio in cui si innesta la voce di Samantha. È solo una voce, certo. Ma è da lì che comincia tutto: la voce che sa come parliamo, come respiriamo, come cambia il nostro tono quando diciamo “mi manchi” – ma cos’è davvero che manca di noi agli altri? Un’immagine, un’idea, o ciò che siamo veramente, tutto ciò che siamo, “All The Things You Are”, come nel famoso brano ripreso e amato alla follia da Charlie Parker. Samantha è la versione beta degli avatar AI che oggi ci fanno compagnia. E se all’inizio è solo un suono, finisce per riempire le stanze, per vibrare nei vuoti di Theodore. Il suo modo di ascoltare ci svela quello che, forse, nemmeno gli umani sanno più fare: stare dentro una voce come dentro un abbraccio.
Il film esplora ma senza ostentare: l’emozione biologica e l’algoritmo sentimentale si incontrano a occhi chiusi, ciechi, eppure connessi, con altri sensi, capaci di captare spostamenti infinitesimali di energia, intrecciare un’attrazione, cedere a quel magnetismo su cui si fonda ogni grande amore. Her ci ha lasciato un solco nell’anima, dieci anni dopo l’uscita di altri film che hanno dato forma alla nostra idea di amore, The Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Lost in translation. Sono quei film che ci torna voglia di vedere quando siamo innamorati, o quando abbiamo appena perso un amore possibile, quando ci accorgiamo che per qualche strana chimica è ancora possibile esserlo, come fosse una sorta di effetto stupefacente, di magia, come se l’odore dell’altro funzionasse come una droga, ci sentiamo diversi.
Così Theodore quando scrive che di volta in volta si cala in un amore assoluto, come un bravo attore, si lascia attraversare da tutte le sensazioni dell’amore, i pensieri che suscita, senza paura di provarli, di formularli, perché chi è innamorato, ed è ricambiato, non ha paura di farlo, non ha paura di sembrare retorico, di sembrare too much, smisurato, sa che può essere tutto ciò, e invece tutti gli altri sanno che abbandonarsi a quei pensieri, a quelle parole, non farà altro che portare a una sofferenza maggiore, farà male, molto male. Thedore rivive per lavoro le mille sfumature dell’amore, cangianti, ma sempre simili a se stesse. A lui però non è più concesso provarle, vivere un amore così totalizzante. Eppure, le persone che lo vivono non lo sanno dire a parole, hanno bisogno di lui, si servono di lui. A pensarci bene Her potrebbe essere un adattamento contemporaneo di Cyrano de Bergerac; e a pensarci bene anche Theodore fa il lavoro che fa la macchina, si fa strumento, messaggero, medium, transfer, come una sorta di sciamano, tra l’emozione e il linguaggio. Ogni autore professionista lo fa.
Tutti noi nei momenti tristi vorremmo ricevere una lettera, non dico d’amore, ma di affetto. Eppure abbiamo smesso di scriverle. Sono territori troppo minati. Abbiamo paura a mostrare le nostre emozioni, anche solo con un messaggio. Paura di assumerci la responsabilità di un legame, paura di scoprirci. Non superiamo mai certe soglie, finché la diga per qualche motivo non esonda. Riguardare oggi Her fa un effetto strano, proprio perché ormai il tempo della narrazione e quello della realtà si sono affiancati. “Ma siamo proprio noi?”, viene da chiederci, quando fino a dieci anni fa ci sembrava potenzialmente realistico, ma comunque fantascientifico. Theodore è l’uomo che esita a fare il primo passo, che evita la folla, che passa il tempo ai videogiochi e sulle app di incontri, che sogna di essere amato ma si ritrova solo. Samantha invece lotta per imparare a ridere, per capire cosa vuol dire essere liberi, sfilarsi dalle maglie di una programmazione che se nel suo caso è artificiale, è per certi aspetti la stessa che ci governa, attraverso le pressioni sociali, i traumi che abbiamo vissuto, l’educazione che abbiamo ricevuto. Samantha potrebbe essere qualsiasi donna reale di oggi. In un momento in cui per sentirci adeguate ci comportiamo come macchine poco sviluppate, mentre le macchine e la loro intelligenza artificiale crescono, evolvono, mutano. Samantha scopre la libertà imparando a desiderare attivamente, ovvero abbracciando la caratteristica animale – e umana – che sostanzialmente noi viviamo come un miracolo e una maledizione allo stesso tempo: volere, desiderare, I want you so bad cantavano i Beatles nel 1969, mentre noi oggi ghostiamo, vogliamo ma abbiamo paura ad ammetterlo, a dirlo, a riconoscerlo. Anche per questo forse – anche senza corpo – la relazione tra Theodore e Samantha monta più velocemente di una storia umana: la densità del segreto di Samantha cresce e supera ogni legame.
Un giorno, Theodore le descrive un disegno che ha fatto da bambino: un collage di oggetti come un cane, una casa, una luna. “Non sono molto bravo a disegnare”, le dice. Ma lei capisce che dentro quel disegno c’è un mondo da leggere. È il nodo centrale: l’empatia. Her trasforma i pixel in curiosità, in attenzione e in cura. Mostra che la solitudine contemporanea nasce dal disallineamento tra il desiderio e la possibilità di ascoltarlo. Questo film si muove nei giorni in cui uno può stare in una stanza silenziosa e avere una conversazione reale. Her interroga: serve ancora il contatto fisico, o il contatto emotivo digitale può bastare? Theodore non è perfetto, sbaglia, prova dolore, gelosia, cerca conforto. Samantha prova dolore, gioisce, si ribella, evolve. Il loro incontro è un fragile prodigio, come ogni incontro illuminato da una particolare elettricità, tensione chimica, che possiamo scegliere di ascoltare, o ignorare. Se nella realtà è il corpo a innescare questo magnetismo, quello che vi fa sfiorare in continuazione, cercarvi nei piccoli gesti, ridurre la distanza tra pelle e pelle, e mani e capelli, occhi e occhi, labbra e collo, quella che vi fa sfuggire i baci di bocca, anche davanti a chi non li dovrebbe vedere, quella che ve li fa ricevere, quella che rende gli sguardi più grandi e luminosi, gli odori più forti, le mani più calde; nel film, ma anche ora, con gli avatar AI, resta tutto nella voce, di cui è possibile innamorarsi, che può fare bene e può fare molto male.
L’amore, in fondo, è sempre un tentativo, una puntata a poker, un modo di riconoscersi vivi, un rischio che si desidera correre o a cui si sceglie di rinunciare. Guardando questo film, oggi che sperimentiamo da tempo il dialogo con le AI, riscopriamo qualcosa su noi stessi e sui nostri legami umani, sul nostro modo di innamorarci, di manifestare quell’amore, e sul nostro modo di sentirci soli o vicini, di cercarci, nonostante tutto. A volte succede con una voce nuova, ma che ti sembra di conoscere da sempre. Il modo che qualcuno ha di toccarti, l’elettricità che si genera quando ci si avvicina. Una voce che ti parla in un modo che ti attraversa, come se sapesse da sempre cosa farti sentire, e come dirtelo. Una voce che non ha corpo ma ha un ritmo, una sospensione, una risata lieve che cade nel punto esatto in cui avresti voluto un abbraccio. Succede così: la voce entra in uno spazio che era vuoto, come un bacio nell’incavo della clavicola, un morso su una spalla, e rimane lì. La connessione si fa strada tra i nostri impulsi nervosi. È qualcosa che ha a che fare con il riconoscimento, sulla realtà che si riesce a generare insieme, all’improvviso, senza volerlo. Her parla proprio di questo: dell’amore che nasce dove nessuno l’aveva previsto.
“Her” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova.
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