“Habemus Papam” è la metafora perfetta della crisi politica da cui non siamo mai usciti - THE VISION

La commedia all’italiana ha raccontato il Novecento più di quanto un grande romanzo popolare sia mai riuscito a fare. Il filtro della commedia è ciò che ci ha reso leggibile l’Italia, mettendoci davanti a uno specchio: “affascinato o inorridito, il Novecento italiano si capisce attraverso il cinema”, come sostiene Andrea Minuz, in dialogo con Michele Masneri, ospiti di Saverio Raimondo nella quarta puntata del podcast MUBI Voci italiane contemporanee. In effetti, poche cose come una commedia di Dino Risi o un personaggio di Alberto Sordi, per citarne alcuni, sono state in grado di mettere in scena fenomeni come il boom economico degli anni Sessanta o i cambiamenti sociali e antropologici di un periodo in cui tutto l’Occidente andava incontro a enormi rivoluzioni culturali. Ed è altrettanto vero che, proseguendo negli anni, le nostre commedie al cinema hanno spesso fatto da bussola per comprendere il modo in cui il Paese si stava evolvendo, anche attraverso lo sguardo di autori come Paolo Villaggio e il suo Fantozzi, parodia perfettamente verosimile dell’uomo medio italiano.

Il cinema di Nanni Moretti, in questo quadro di narrazioni comiche del Ventesimo secolo, di certo non si colloca sulle stesse coordinate di registi come Monicelli o Wertmüller, con cui peraltro era in aperta opposizione. Eppure, anche nel suo caso, con le dovute differenze, possiamo parlare di un cinema comico che ha intercettato l’andamento del mondo in cui era immerso. Una comicità che, a differenza della tradizione che lo ha preceduto, ha dato vita a uno stile molto personale, capace di creare un’intersezione unica tra argomenti seri, se così vogliamo definirli, e una scrittura profondamente ironica, con tratti di cinismo e surrealismo, proprio come nella tradizione “all’italiana”. Tra le citazioni famose di Dino Risi, come ricorda Minuz nel podcast, c’è quella su Moretti e sul fatto che sia spesso al centro delle sue pellicole: “spostati e fammi vedere il film”, diceva Risi. In Habemus Papam, che nel 2011 “prevede” la rinuncia al ministero due anni dopo dell’allora Papa Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, il regista che ha quasi sempre usato il suo alter ego Michele Apicella come strumento di racconto, si sposta molto. Il protagonista del suo undicesimo lungometraggio, infatti, è un personaggio di finzione, un cardinale interpretato da Michel Piccoli che si ritrova a essere eletto Papa dopo la morte del precedente pontefice.

Se la commedia è stata lo specchio del nostro Paese, la forma di racconto privilegiata per comprendere la realtà, questo film è un esempio lampante di come non solo un certo tipo di cinema, se fatto bene, può fornire una chiave di lettura della realtà che rimane intatta anche col passare del tempo, ma anche di come questa stessa realtà possa essere compresa con largo anticipo proprio dall’arte, prima ancora che da esperti, commentatori, politici stessi. Più che una profezia su Papa Ratzinger, infatti, Habemus Papam è una straordinaria metafora della crisi del potere e della responsabilità che ne consegue. E nel 2011, è bene ricordarlo, l’Italia era nel pieno di una crisi di governo dopo dieci anni di governi di Berlusconi, che si sarebbe risolta con la sua caduta e con l’arrivo di una stagione politica in cui tutta la responsabilità sarebbe stata nelle mani dei governi tecnici. Lo stato di caos e di disperazione che la rinuncia del papa genera nel conclave e tra i fedeli non è altro che l’allegoria precisa ed esemplificativa dello stato di un Paese che è incapace di gestire il potere, proprio come stava avvenendo meno di quindici anni fa, con l’inizio di una fase di instabilità che non si è più riassorbita.

Ma per quanto sorprendente sia stata l’uscita di Habemus Papam, anche in termini di critiche da parte di istituzioni cattoliche e stampa, non era la prima volta che Moretti trattava temi simili. Con La messa è finita, infatti, è lui stesso a vestire i panni di un prete, Don Giulio, che vive una crisi interiore, dettata principalmente dai legami con la sua famiglia e con la vita precedente al sacerdozio. Tornato a Roma dopo una lunga missione in un luogo sperduto, si ritrova a fare i conti con problemi a cui non sa far fronte, come l’aborto di sua sorella, il suicidio di sua madre, l’omosessualità nascosta di un amico. Solo con un’altra missione, e dunque con una sorta di fuga, il protagonista ritrova il senso della sua fede, in linea anche con ciò che avviene al protagonista di Habemus Papam. L’utilizzo di figure del clero è così uno strumento che Moretti usa per raccontare il dramma interiore di figure umane che, per la via che hanno scelto devono dare un’immagine di loro stessi sovrumana, superiore allo stato terreno in cui operano. Un compito che, sia Don Giulio che il nuovo Papa, non sono in grado di portare a termine come il resto del mondo si aspetterebbe da loro. 

Un altro aspetto interessante di Habemus papam è poi senza dubbio l’utilizzo della psicanalisi, elemento che, nella tragicità del racconto, porta nel film la vera spinta umoristica morettiana, che divide la trama in due strade parallele: da un lato il dramma di un uomo che non vuole diventare Papa, dall’altro la commedia di una situazione assurda in cui la psicanalisi si scontra con la fede. In questa versione ecclesiastica de I Soprano, infatti, dove al posto di un boss in crisi esistenziale c’è il capo della chiesa cattolica, Nanni Moretti interpreta uno psicoterapeuta che viene chiamato in Vaticano per provare a risolvere la crisi del nuovo Santo Padre, rimanendo incastrato in questa sorta di non-luogo che è il concilio per via del segreto da mantenere sull’identità del pontefice.

Il conflitto tra razionalismo e religione – “Il concetto di anima e quello di inconscio non possano assolutamente coesistere”, ricordano a Moretti – si concretizza in situazioni paradossali: la seduta di terapia con i cardinali attorno che controllano tutto quello che viene detto, le domande sul passato, sul sesso e sul rapporto con la madre vietate, gli psicofarmaci consumati dai cardinali e l’organizzazione di un torneo di pallavolo per incoraggiare il santo padre a venire fuori da questa crisi spirituale o esistenziale, non è dato chiedere. L’intrusione di un psicanalista all’interno dell’ecosistema vaticano diventa un espediente per umanizzare le figure volutamente distaccate di cui si serve la Chiesa per mantenere il suo potere. Nel momento in cui li vediamo nella loro quotidianità, nonostante gli abiti, le liturgie e la serietà del loro aspetto, crolla l’aura di superiorità che la formalità impone, soprattutto verso il mondo esterno.

La notizia che il Papa non sia riuscito ad accettare l’incarico, infatti, e la conseguente prova della sua fallibilità, equivale all’ammissione di una fallibilità della Chiesa stessa. Ciò che invece vediamo attraverso lo sguardo di un non credente come il personaggio di Moretti è un dipinto di nevrosi e di problemi che hanno poco a che fare con il mistico e il sovrumano: i cardinali hanno paure, desideri e pulsioni come tutte le persone, e vederli esprimersi all’interno di un contesto chiuso e protetto rende il contrasto tra la magnificenza della struttura in cui si ritrovano e la semplicità delle loro richieste particolarmente ironico. Soprattutto alla luce del fatto che, in tutto ciò, nessuno sa che il Papa in realtà è latitante, fuggito per le vie di Roma alla ricerca di un po’ di pace, in un percorso che lo porta fino alla sua passione giovanile mai realizzata, ossia il teatro.

La recitazione, che il nuovo Papa assorbe da piccolo tramite la figura di sua sorella, sembra essere l’unica cosa che lo rende di nuovo felice. E il testo di Čechov che vede messo in scena da una compagnia che incontra in albergo, gli ricorda un pezzo di vita sommerso che la carriera ecclesiastica ha cancellato. Persino il Papa, come tutti gli esseri umani a un certo punto della loro esistenza, non sa bene come è arrivato dove è arrivato e soprattutto se ciò che ha tra le mani è quello che ha sempre desiderato. Cosa sarebbe stata la sua vita se da giovane fosse stato ammesso all’accademia teatrale è l’interrogativo con cui ci lascia, poco prima di venire riacciuffato dalle guardie di sicurezza del Vaticano, proprio durante lo spettacolo. Le persone attorno a lui applaudono, felici di aver trovato la loro nuova guida spirituale; lui, invece, ritorna prigioniero di un ruolo che non vuole interpretare.

La crisi di Michel Piccoli, grande interprete di questo ruolo complesso e malinconico, non si risolve dunque se non con l’abbandono, proprio quell’elemento psicanalitico che la ex moglie di Moretti, anche lei psicoterapeuta, interpretata da Margherita Buy, usa come risposta a ogni problema: “Il deficit dell’abbandono”. Non sappiamo se Piccoli si senta abbandonato dalla famiglia, parte della sua vita precedente, dalla fede, da Dio o da se stesso, in questo vortice di impossibilità e panico in cui si ritrova una volta eletto, ma sappiamo che sarà lui ad abbandonare la missione che i cardinali gli hanno affidato eleggendolo. Una missione che, come appare chiaro sin dall’inizio, nessuno vuole prendersi, sia per la responsabilità che per il peso che comporta avere questo incarico fino alla morte.

Se Palombella rossa, nel 1989, toccava il tema della crisi attraverso la storia di un funzionario del Pci che perdeva la memoria ritrovandosi a dover affrontare una partita di pallanuoto, come una grande allegoria della sconfitta di questo partito in una realtà ideologica al collasso; è nel 1991 che il Pci cambierà effettivamente e definitivamente il suo nome, creando una spaccatura profonda con il passato. Anche in questo caso se non una vera e propria previsione, un esempio di come Moretti sia stato in grado di creare un sistema di racconto all’interno del quale è la storia stessa del nostro Paese a dare spiegazioni postume alla trama. Allo stesso modo Habemus Papam, oltre a essere una profezia, è un film che racconta l’inquietudine e lo smarrimento in un momento di instabilità profonda. Non solo individuale, come nel caso della persona che non vuole diventare Papa, ma anche della collettività che attorno a lui cerca in tutti i modi di convincerlo per non prendersi a carico il peso del comando. La metafora perfetta di una crisi che ha raggiunto il picco nel 2011 e che ancora oggi non è terminata: Moretti ci ha visto molto lontano e, purtroppo per noi, ci ha visto giusto.


“Habemus Papam” è disponibile in streaming su MUBI Italia nella rassegna “‘O famo strano: ridere con la commedia italiana”, dedicata alla seconda stagione del MUBI Podcast: Voci Italiane Contemporanee, sull’evoluzione della comicità italiana. Iscriviti qui per avere 30 giorni di prova gratuita.

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