“Great Freedom” ci ricorda che l’amore è l’essenza della natura umana, un atto di ribellione - THE VISION

Mi chiedo spesso che fine abbiano fatto i nostri corpi. Può sembrare una domanda sciocca, e magari lo è, a cui è sufficiente rispondere: “Sono qui, non li vedi? Toccali”. Eppure, sento che pur guardandoli e toccandoli i nostri corpi non siano più davvero nostri, ma un’estensione di ciò che siamo e vorremmo essere che mettiamo in mostra, modifichiamo, annulliamo con grande facilità. I nostri corpi, mi sembra, sono nostri nel limite in cui ci fanno stare male perché ci vorremmo sempre diversi, e non nel loro farsi tramite con cui vivere il mondo. Me lo chiedo spesso e mi ci soffermo un po’ di più quando si parla di carcere, dove il corpo finisce per non essere nient’altro che l’ennesimo oggetto da disciplinare, anche nei suoi desideri, nei suoi bisogni.

Quando si è in una cella sovraffollata, piena zeppa di gente, cos’altro si tocca se non il cemento, il metallo delle finestre, magari la plastica delle posate con cui si mangia? Quando si è fortunati, il carcere permette altre attività, forse la frutta e la verdura di un orto, qualche tessuto. Si toccano pochi corpi, e quando accade è spesso perché si è troppi in uno spazio troppo piccolo. Anche il proprio corpo si tocca sempre meno. Nello spazio pubblico, d’altronde, la detenzione è ancora concepita come punizione corporale, come negazione di tutto ciò di cui si avrebbe facoltà, , e non come un’occasione. In questo contesto, anche l’affettività, il cui diritto è previsto dalla Carta Costituzionale, viene meno. Per molti di noi è un esercizio di immaginazione non da poco concepire l’impossibilità di ritagliarsi un tempo proprio, privato, con una persona che si vuole guardare e toccare, ascoltare, con cui sentirsi vulnerabili o lasciarsi andare, anche nelle pratiche più intime. La vita in carcere è infatti anche negazione del piacere del sesso, non solo per chi è detenuto, ma anche per chi lascia dietro di sé. Ed è all’amputazione di questa dimensione, affettiva e sessuale, che è impossibile non pensare guardando Great Freedom, film di Sebastian Meise presentato nel 2021 al Festival di Cannes, dove ha vinto il premio della giuria nella sezione Un Certain Regard, e disponibile in streaming su Mubi Italia nella rassegna Un posto tutto per noi: gli spazi queer al cinema

In Germania, Hans, giovane ragazzo gay, viene imprigionato ripetutamente in base al paragrafo 175 del codice penale tedesco contro l’omosessualità, che criminalizza i rapporti tra uomini. Ci finisce nel 1945, dopo essere sopravvissuto a un campo di concentramento, e poi più e più volte nei decenni successivi. Qui conosce diversi uomini – Oskar, Leo, Viktor. È un uomo libero di esprimere il suo amore e il suo desiderio solo mentre è rinchiuso nello stesso posto istituito per negarli. Per tutto il film, la sua esistenza civile – la sua vita non carceraria – è per lo più un mistero. Non sappiamo della sua famiglia o dei lavori che ha svolto. “Ti sono mancato così tanto?,” dice Viktor quando Hans viene trascinato in prigione per l’ennesima volta. “Solo il tuo cazzo,” risponde lui, con un sorriso che lascia intendere il legame consolidato tra i due. All’inizio, Viktor gli dà del pervertito e blatera di donne con un’insistenza così ostile che è difficile capire se stia fissando dei limiti per Hans o per se stesso. È solo quando scopre i numeri incisi sull’avambraccio del ragazzo che abbassa la guardia, offrendosi di coprirli con un altro tatuaggio. Man mano che la loro amicizia si sviluppa, pur assistendo alle sue storie d’amore con gli altri detenuti, Viktor chiede se Hans potrebbe soddisfare i suoi bisogni sessuali, almeno finché restano in carcere. Uno scambio di favori. La prigione è per loro la loro unica vita, certamente la loro unica vita erotica stabile. Il loro rapporto, mano a mano che diventano più intimi, si evolve in una sorta di amore, ma radicato più in un reciproco desiderio di conforto che nell’attrazione fisica.

Per 123 anni, il paragrafo 175 del codice penale tedesco ha criminalizzato gli uomini omosessuali, condannandoli legalmente a pene detentive fino a dieci anni, ma socialmente e sentimentalmente a subire conseguenze più ampie: si viveva nell’ombra, si scopava nei bagni pubblici sperando di non essere visti, non tanto per l’eccitamento dell’incontro con uno sconosciuto, ma perché non c’erano altre possibilità che diventare uno fra tanti, invisibile, una sagoma in un cesso, senza nome né identità, per non essere riconosciuto e quindi pestato, insultato, incarcerato. Nella sola Germania Ovest furono centomila gli uomini processati. Almeno la metà di essi fu condannata. La legge era stata emanata nel 1871 in seguito all’unificazione dell’Impero tedesco e alla codifica di nuove leggi, e venne resa più dura durante il regime nazista, scomparendo completamente dal codice civile solo nel 1994. 

Sorveglianza, ricatto, denuncia, tortura e omicidio: il paragrafo 175 consentiva alle autorità di intercettare e confiscare lettere d’amore e di presentarle in tribunale come prova, nonché di installare telecamere dietro agli specchi dei luoghi pubblici, invadendo la privacy di questi uomini, rivelando la loro vita intima ed esponendone i dettagli. Per molti ragazzi omosessuali la liberazione da parte degli alleati non significò appunto libertà, perché nel dopoguerra i prigionieri dei campi di concentramento, già svuotati e annientati dalla Shoah, furono trasportati direttamente da Auschwitz o Dachau alle prigioni di Monaco o Berlino, senza poter scoprire che fuori c’era un nuovo mondo alle porte. Una condanna che non ha continuato a esistere per svista o per dimenticanza, ma per volere, tanto da venir più volte esaminata, certificata, confermata. Nel gergo, in Germania, 175er ha finito per essere una definizione e dare un nome a una generazione di uomini.  

C’è una scena brevissima e straziante, perché a far crollare i muri non bastano che poche parole, in cui Oskar, il ragazzo con cui Hans scopre l’amore in prigione, gli dice: “A volte mi hai detto che ti senti fortunato a essere ancora vivo. Anche per me è così”. È una sensazione difficile da descrivere, ma che in qualche modo risuona anche dentro di me. Pur essendo di una generazione in cui è molto più accettato far parte della comunità LGBTQ+, da un lato credo abbia a che fare con quella paura, che non scompare mai di essere sempre troppo frocio per qualcuno o per una circostanza; di vivere in uno spazio pubblico e politico in cui la mia identità è continuamente negata, mistificata, strumentalizzata; di sapere che un giorno tocca al tuo amico e quello dopo potrebbe toccare a te, perché ti sei permesso di ballare per strada e la libertà non può essere davvero di tutti. Dall’altro è quasi un lascito atavico, qualcosa che col tempo potrebbe forse anche sbiadirsi ma che oggi coltiviamo con cura perché è anche in virtù di quella paura e soprattutto della rabbia che provoca che non ci siamo ancora arresi alla cancellazione delle nostre vite.

Ed è un “noi” che non ha a che fare solo con la comunità LGBTQ+, ma che appartiene a tutti quei corpi soggetti a un controllo e a un dominio esterno. Anche Hans non si nasconde, non si rintana nell’ombra. Sa di non poter essere altro da ciò che è. Il suo desiderio d’amore e di libertà è così forte che non importa quante volte verrà rinchiuso in una cella d’isolamento, picchiato, svegliato con l’acqua gelida, ci sarà sempre un modo, un foro, anche piccolo, da cui continuare a portarlo fuori, nel mondo. “Hans rappresenta i molteplici destini degli uomini che sono finiti in prigione più e più volte, le cui vite e relazioni sono state distrutte, e le cui storie sono scomparse negli archivi della burocrazia,” racconta Meise. “Nella sua storia i muri e le sbarre diventano una costante ricorrente che si trasforma in un loop temporale senza fine, ma Hans non riesce a smettere di essere quello che è. Ha bisogno di continuare perché l’amore è l’essenza della natura umana. La sua stessa esistenza è ribellione”. 

A mancare nelle carceri, poi, non è solo il diritto al piacere sessuale, ma anche quello alla consolazione. Quando Viktor consola Hans per la fine di una storia d’amore, lo abbraccia per cercare di calmarlo, di contenerne la rabbia, ma gli abbracci non sono consentiti, nessuna fisicità lo è, pena le manganellate, l’isolamento, la tortura. Consolarsi è impossibile senza potersi toccare. Tra tutti gli imperativi – andando a memoria di ciò che scriveva Yasmine Reza nel romanzo Felici i felici – come baciami, frustami, scopami, consolami è il più difficile. Lo è nel mondo fuori dal carcere, dove per vergogna facciamo fatica a riconoscere e ammettere il dolore, a verbalizzare di aver bisogno di conforto, figuriamoci dentro, dove ai limiti delle pressioni sociali si aggiungono quelli fisici, dati dai divieti di non poter interagire fisicamente con i propri compagni, se non addirittura, a volte, con mogli, mariti, figli e figlie durante le visite. È in questo luogo, così, che l’intimità diventa una forma di resistenza e ribellione all’oppressione sistemica.   

È stato solo nel 2017 che la Germania ha riabilitato e stabilito un risarcimento per gli uomini condannati sotto il paragrafo 175. Non so quanti siano sopravvissuti da allora, quanti abbiano scoperto la libertà – questa sì, grande – di poter scegliere come e quando vivere i propri desideri, di dargli forma senza vergogna. Non so a quante persone fuori e dentro queste due realtà incapaci di incontrarsi – il mondo esterno e quello del carcere – non sia ancora permesso farlo e cercano di mantenere vivi i sensi che ci ancorano alla nostra fisicità, al nostro corpo. Perché sempre lì si torna, a chiedersi come si possa amare, guardare, toccare, e poi lasciarsi amare, lasciarsi guardare, lasciarsi toccare, sotto la sorveglianza costante, quando si è amputati di tutto ciò che resta dietro, fuori.


“Great Freedom” è disponibile in streaming su Mubi Italia. Iscriviti qui per avere 30 giorni di prova gratuita.

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