Ci sono alcune persone che sembrano avere una predisposizione naturale alla ricerca, all’andare oltre le cose per tentare di scorgere la maglia di corrispondenze segrete che tengono unito il cosmo. Sono “wanderer”, viandanti, vagabondi, girovaghi, interiormente ancor prima che all’esterno. “Restless”, per dirla con uno di questi, Bruce Chatwin, “irrequieti”, “inquieti”, ma senza l’accezione negativa che la società ci ha insegnato. È un’inquietudine bella, viva, la loro, anche se in alcuni momenti rischia di sembrare una condanna. “Inquieto”, d’altronde, viene dal latino e letteralmente significa “non in pace”, in-quietus. Ma i linguisti mi perdoneranno se questa parola mi ha sempre fatto pensare al francese “en quete”, in cerca, alla ricerca. Queste sono le persone per cui è davvero molto difficile riuscire a stilare un curriculum europeo standard, e Giulio Bertelli sembra proprio una di queste, come dimostra il suo esordio alla regia, Agon, presentato in anteprima alla Settimana internazionale della critica a Venezia e distribuito nelle sale italiane da MUBI dal 29 agosto.
Ci sono film che arrivano come fenditure nel linguaggio, aprono un varco e ci costringono a guardare in un’altra direzione: Agon appartiene a questa rara categoria. Mettendo in scena la storia di tre atlete alle fittizie Olimpiadi di Ludoj, interroga la materia del corpo e della mente, la cognizione, le sue potenzialità e le sue impasses, con uno sguardo che si muove tra antropotecnica e inconscio, documentario e finzione. È un’opera che mancava, perché osservando il modo in cui si fanno corpo i tre diversi sport “bellici” che praticano queste giovani donne – il tiro a segno, la scherma e il judo – riesce a spostare il discorso dalla retorica sportiva alla vulnerabilità e alla tensione di chi sceglie di scendere in campo per tutto ciò che è e con tutta l’onestà di cui dispone, senza trucchi.
“A me affascina pensare che ai confini del globo ci puoi andare solo se in regata,” ha dichiarato Bertelli – che è anche pilota d’aereo – qualche anno fa, quando il soggetto di Agon già esisteva ma se ne stava ancora chiuso in un cassetto, o in qualche cartella forse in bella mostra sul sul desktop, mentre lui si preparava per l’Ocean Race Europe su AkzoNobel. Come se la fine del mondo dovessi guadagnartela, diventare ciò che ti costringe a essere l’arrivare fin là. Ed è qualcosa di simile a ciò che accade anche raccontando una storia, se lo si fa in un certo modo. Architetto di formazione all’AA di Londra, Bertelli – che oggi ha 35 anni – ha deciso di dedicarsi alla vela in maniera professionale proprio negli anni dell’università, intorno al 2011, raccogliendo esperienze di altissimo livello, con Oman Saisl, Giovanni Soldini e Alex Thomson e poi l’America’s Cup con Luna Rossa, dov’era responsabile del dipartimento che sviluppava i sistemi di controllo.
Ma come tutti i grandi viaggiatori Bertelli ha sempre avuto il desiderio di raccontare storie, così dopo avere attraversato molti mondi – sport, design, scrittura – è approdato al cinema, la sua prima grande passione, con una ricerca personale ormai stratificata. Non a caso Antoine de Saint-Exupéry in Volo di notte e Terra degli uomini raccontava la sua esperienza di volo come un’occasione di scoperta e di profonda conoscenza non solo della Terra (come può essere andare per mare, o in profondità) ma del sé – “Per me, volare o scrivere è una cosa sola”, diceva. In Agon lo sguardo del regista diventa corpo unico con quello delle protagoniste: tre giovani donne che incarnano ambizione, forza e fragilità, forzando i confini di ciò che lo sport e la società chiedono loro di essere. Il risultato è un film che non vuole solo raccontare, ma interrogare il nostro modo di guardare, di misurare il tempo e la vittoria, di abitare il corpo.
Come sai The Vision è un media estremamente eterogeneo, che pur mantenendo un fulcro legato ai temi sociali e alla cultura estende capillarmente la sua osservazione a più ambiti, fino a quello più tecnico e scientifico. Tu hai studiato architettura all’AA (Architectural Association) di Londra, un’istituzione votata alla sperimentazione e all’ibridazione dei linguaggi della progettazione: quanto questo percorso ha influito sul tuo modo di fare cinema?
Fin da adolescente ho capito che dietro un film c’è una figura autoriale, il regista, e non solo “il film dell’attore”, come dall’esterno all’inizio si pensa. Da allora ho macinato una quantità enorme di film: è davvero la base della mia formazione. Mi sono immerso in tutta la storia del cinema. Parallelamente ho sempre avuto un forte legame con il design e l’architettura. Sono andato a Londra, alla Architectural Association, non tanto per diventare architetto quanto per riorganizzare uno sguardo sul mondo. In università ho lavorato più su scrittura e video-collage che su disegno tecnico, cercando subito connessioni tra progettazione e linguaggio filmico. Anche dopo aver lasciato l’università ho continuato a frequentarla in modo informale, portando avanti un laboratorio sul rapporto tra progetto, architettura e sceneggiatura. Quello spazio libero di ricerca mi ha aiutato a capire come, a livello di processo, volessi davvero fare un film.
Ho letto che avevi molti soggetti nel cassetto. Perché hai iniziato a realizzare proprio la storia di Agon? Qual era la tua urgenza?
È stato un percorso non lineare. Avevo scritto soggetti, trattamenti e sceneggiature in diversi stadi, perché rielaboro sempre ciò che mi interessa del mondo attraverso la scrittura pensandola però in relazione alle immagini in movimento. All’epoca ero ancora immerso nella mia carriera sportiva – tra soddisfazioni e delusioni – e immaginai una storia non tanto per il cinema, ma per l’animazione. Pensavo di cominciare come sceneggiatore, autore, e di collaborare con un animatore giapponese che stimavo molto. Col tempo, però, la storia cresceva e sentivo che poteva essere un film. Alcuni progetti erano troppo complessi o personali per affrontare questo processo, e li ho “preservati” per un momento più maturo; questa storia, invece, aveva il giusto grado di distanza, poteva essere il mio punto di partenza. L’idea è quindi passata dall’animazione al live action; e a un certo punto ho interrotto la carriera sportiva per concentrarmi al 100% sul film. Da gennaio 2023 mi sono dedicato completamente a sviluppo, produzione, e soprattutto alla lunga post-produzione, fino a chiuderlo intorno a marzo di quest’anno. Poi è arrivata la proposta di Venezia, di cui sono estremamente onorato.
Parliamo di forma: Agon sta a metà tra il documentario, o meglio una sorta di tecno-realismo, e la finzione, con un’ambiguità voluta. Perché questa scelta?
Da un lato mi interessa un racconto classico di finzione, anche onirico e poetico; dall’altro sono attratto dagli estremi e dall’ingegneria delle immagini, dalla parte più tecnica che sta alla base di qualsiasi nostra azione. Oggi siamo esposti a una quantità di materiali “documentaristici” estremamente personali: vlog, backstage, micro-reportage. Questo ha cambiato la soglia di credibilità dello spettatore. Per alcuni temi – come lo sport o tutto ciò che riguarda la sfera militare ad esempio – non possiamo più raccontare le cose come si faceva una volta. Servono scelte di linguaggio precise: raggiungere una credibilità quasi documentaristica ti permette poi di chiedere allo spettatore di credere a ciò che accade nella seconda parte del film, dove compaiono eventi o ambientazioni meno comuni, oniriche. Questa per me è una questione centrale: il cinema deve reinterpretarsi rispetto al modo in cui oggi guardiamo le immagini.
Nel film è centrale l’investimento assoluto dell’agonista, pur evitandone le sfumature più facilmente retoriche: la tensione tra desiderio di vittoria e rischio di – se non vero e proprio – fallimento, tra tenuta mentale e allenamento.
Questo è un tema delicato. Da una parte è giusto che lo sport aumenti la sua sensibilità e migliori nei confronti della cura della persona; dall’altra non possiamo dimenticare che l’atleta è lì per performare al meglio, e che il pubblico lo segue proprio per vederlo affrontare questa enorme sfida. Siamo affascinati da figure che hanno costruito carriere senza compromessi, capaci di rendere sotto pressione, penso a Michael Jordan o a Michael Schumacher, per citare due figure che hanno segnato la mia infanzia. Una parte fondamentale di qualsiasi allenamento è proprio quella di saper azzerare il rumore esterno, la pressione, lo sguardo del pubblico. L’atleta è colui che sa e riesce a performare anche sotto stress, ed è questo ciò che lo rende eroico se vogliamo. Allo stesso tempo non si può far passare l’idea che l’unica cosa importante sia vincere: se qualcuno si ritira per un problema di salute mentale o fisica va sostenuto. Vivere anni e anni di sacrifici solo in funzione di un risultato finale – come è successo a me e a tanti altri – può essere altrettanto distruttivo. È la contraddizione che sta nel mezzo di questi due estremi che mi interessa. Lo sport ha il pregio di avere un obiettivo chiaro, e chi lo vive dall’interno sa che la priorità è arrivare nelle condizioni migliori per esprimersi, ma a volte non è possibile, e lì entra in gioco qualcos’altro, la capacità di ottenere grandi risultati anche sotto pressione, nelle peggiori condizioni possibili. Vorrei fosse possibile prendere sul serio sia la cura della persona sia l’esigenza competitiva, evitando l’ipocrisia e la retorica.
Le protagoniste di Agon sono tre donne: Alex Sokolov (Sofija Zobina), Giovanna Falconetti (Yile Vianello) e Alice Bellandi (interpretata dall’atleta stessa, che ha guadagnato l’oro ai Giochi Olimpici di Parigi nel 2024). Nella società in cui viviamo l’ambizione femminile è spesso mal tollerata, e qui c’è un ulteriore livello di ipocrisia. Come se le donne, e le atlete, dovessero costantemente celare la loro forza, il loro desiderio di vittoria, e in alcuni casi anche la loro aggressività. Perché questa scelta? E come hai “tarato” i personaggi?
Proprio per questo. Tre protagoniste femminili, giovani, mi permettevano di aumentare il contrasto tra competizione, violenza e aspettative culturali. L’idea è nata quasi per gioco, insieme ad alcuni amici stavo pensando a un adattamento contemporaneo della storia di Giovanna d’Arco. Come sarebbe stata oggi? Chi sarebbe stata? Probabilmente un’atleta, una spadaccina, diretta alle Olimpiadi; da lì è iniziato tutto, un po’ per gioco, ma più ci pensavo più ci credevo, come una sorta di thriller politico. Poi i riferimenti si sono ampliati. Ho cercato altre figure femminili della storia che incarnassero le tensioni su cui riflettevo: Cleopatra mi interessava non solo per le sue relazioni di potere, ma per il suo lato medico, scientifico, legato alla conoscenza e alla cura del corpo, una disciplina che nel film diventa attenzione a terapia, preparazione, macchine che possano sostenere e perfezionare gli allenamenti, alimentazione. E poi la figura che ha forse la storia più affascinante è Nadezhda Durova, che da ragazza lascia la casa del padre, ufficiale dell’esercito dello zar, e si arruola travestendosi da uomo in un altro reggimento, per poi diventare a sua volta un’importante ufficiale: il tema dello sdoppiamento, o forse del raddoppiamento identitario, è centrale nel film, a volte siamo costretti a fare qualcosa di nascosto per riuscire a fare davvero ciò che vogliamo, diventare ciò che vogliamo essere, dobbiamo travestirci, fingerci qualcos’altro, senza dimenticare chi siamo.
Anche la moda è progetto. Vengo alla questione dell’abbigliamento tecnico e dell’identità. Nello sport, specie in quello di combattimenti ma non solo, l’apparire smette di avere senso, il corpo si fa funzione, le sue abilità definiscono ciò che siamo: conta ciò che fai e ciò di cui ti doti, come può essere un’arma o una protezione. So che avete lavorato molto sul design tecnico.
Sì, mi interessava che, arrivando in una certa “zona” del racconto, le tre atlete diventassero quasi un unico corpo, anche attraverso l’uniforme. Dietro ogni disciplina c’è una ricerca enorme: regolamenti che impongono rigidità e misure, test di conformità, materiali speciali spinti al limite del consentito; suole spesse per smorzare vibrazioni; ricerca; per esempio nel judo c’è il controllo del jūdōgi con parametri rigidissimi, e in caso di difformità si corre in sartoria prima di entrare in gara; e anche nel tiro a segno, in cui le uniformi vengono misurate con appositi calibri. Si cerca la massima rigidità, ma non si può superare il limite, altrimenti sarebbe qualcosa di simile al doping, e anche le scarpe devono essere fatte in modo per ammortizzare anche la più piccola vibrazione che dal suolo si trasmette all’atleta, in particolare nelle città. L’abbigliamento tecnico è parte centrale della vita di un atleta. C’è un vero e proprio universo, potrei stare a parlare per ore di questi dettagli. Mi appassionano. Gran parte di questa ricerca e dei vari layer che sono confluiti nella storia non emergono esplicitamente nel film, restano tra le righe, e in parte questo è un mio rammarico.
Alcune esigenze sono identiche tra uomini e donne, altre no, e l’industria spesso arriva tardi su necessità specifiche femminili, soprattutto in quegli sport praticati in percentuale minore da donne. A questo proposito parliamo di apnea, di pesca sportiva e di sospensione. In apnea la mente verbale rallenta: “esisti” senza respirare e si attivano condizioni particolari. Nel tuo film l’apnea dialoga in particolare con la scherma.
Sì, sono un grande appassionato di apnea. E mi sono entusiasmato quando ho scoperto che l’apnea viene usata nella scherma come allenamento percettivo del tempo. La scherma è uno sport velocissimo: serve una sensibilità ai decimi di secondo. In pedana, come in apnea, devi sganciarti dal pensiero: non contare il tempo, ma restare nel gesto, connettersi in maniera atavica col corpo. Mettendo da parte il pensiero verbale. Nel film ho cercato una simmetria: lo stesso strumento cognitivo – un videogioco molto simile a certe interfacce usate in fase di training – può servire sia per l’apnea sia in pedana. Mi interessava il rapporto tra reale e virtuale, tra strumenti diversi ma contigui nell’effetto: migliorare attenzione, prontezza, distacco operativo. Da un lato c’è il mondo digitale, dall’altro la caccia in apnea, una cosa assolutamente primordiale – su cui si posa un’ulteriore contraddizione, come se il cacciare pesci fosse meno “grave” di cacciare mammiferi, solo perché questi ultimi sono più vicini a noi, anche qui torna l’ipocrisia su come giudichiamo diversi atti assolutamente simili. Come se fossimo ipnotizzati.
Vorrei chiudere sulla vicinanza tra onirico, poetico e virtuale. Nel film prendi sport “di guerra” e li racconti in modo ora tecnico, ora lirico. In alcuni passaggi mi hai ricordato i ritmi di certi autori, come Andreij Tarkovskij, specie nella seconda parte, e anche il recente Tardes de soledad, di Albert Serra, che osserva quello che potremmo definire un altro sport assolutamente cruento, la corrida, alternando parti in cui il gesto fa da protagonista a close up sull’attore.
Intanto ti ringrazio moltissimo per questo paragone. Non considero Agon un “film di sport” in senso stretto, anzi, lo sport è il dispositivo per parlare d’altro. I riferimenti, mentre scrivevo e giravo, non sono i miei film preferiti in assoluto, ma quelli che pensavo utili per aiutarmi a immaginare questo lavoro: La conversazione di Francis Ford Coppola, Under the Skin di Jonathan Glazer, The Girlfriend Experience di Steven Soderbergh, e per concludere un film pazzesco, Il momento della verità di Francesco Rosi.
Guardando al futuro, quale pensi possa essere il ruolo del cinema rispetto ai corpi e alle immagini con cui conviviamo ogni giorno?
Credo che il cinema possa ancora essere un luogo di ricerca e di espressione dei grandi temi che ci attraversano, uno spazio per rimettere in discussione le stesse abitudini visive che abbiamo interiorizzato e interrogarle. Siamo circondati da immagini velocissime, che consumiamo rapidamente senza soffermarci sul processo: il cinema invece chiede tempo. Per me significa creare una distanza che permetta di osservare e di vedere meglio, anche il corpo, anche noi stessi.
“AGON”, l’esordio alla regia di Giulio Bertelli presentato in anteprima alla Settimana internazionale della critica 2025, è distribuito al cinema da MUBI a partire dal 29 agosto.
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