Se si volesse definire un momento, anche se arbitrario, in cui Game of Thrones è diventato ufficialmente il fenomeno collettivo che tutti conosciamo, uno dei candidati principali potrebbe essere quello che tutti abbiamo impresso nella memoria come uno dei momenti più traumatici della nostra vita televisiva: il penultimo episodio della terza stagione, quello del Red Wedding, durante il quale abbiamo assistito inermi e inconsapevoli alla carneficina degli Stark. Un evento spartiacque per la serie, data l’uccisione sia di Rob che di Catelyn, due degli elementi più importanti della famiglia. Per quanto già nelle prime due stagioni la serie non ci avesse risparmiato sequenze altamente destabilizzanti, è da questo momento in poi che la sua popolarità ha spiccato il volo, grazie a un passaggio così emotivamente coinvolgente da stimolare infinite conversazioni fuori dagli schermi televisivi e persino raccolte video di reaction, realizzate spesso da sadici lettori dei libri che sapevano già a cosa gli ignari amici e familiari sarebbero andati incontro.
In questi giorni in cui è finalmente cominciata la stagione finale di Game of Thrones, che arriva dopo un anno e mezzo di discorsi sui social fatti di previsioni e assidua ricerca di spoiler da parte dei fan, ci si trova ad attendere l’evento non solo con entusiasmo, ma anche pervasi da una sensazione di ineluttabilità, dal presentimento in alcuni casi neanche del tutto consapevole che non ci sarà più (almeno per il momento) uno show come questo. Un’affermazione del genere, per quanto possa apparire catastrofica e quindi poco attendibile, è profondamente legata a momenti come quello del Red Wedding e, in un panorama televisivo radicalmente diverso rispetto a sei anni fa, a quanto sia probabilmente impossibile per uno show ripetere questo livello di coinvolgimento collettivo.
L’industria televisiva è infatti in continua trasformazione e da diversi anni è proiettata verso un concetto di visione diverso da quello tradizionale: sempre meno sincronizzata e collettiva, ma più adatta a scorpacciate private, binge watching e fruizione differite nel tempo degli stessi show da spettatori diversi. Alla luce dei cambiamenti in atto nell’industria, la conclusione di Game of Thrones potrebbe essere l’ultimo evento collettivo televisivo di queste dimensioni, un mese e mezzo di attenzione mediatica senza precedenti, considerando anche che si tratta della serie più vista attraverso canali non ufficiali, a conferma di una bramosia collettiva che non conosce barriere. È difficile infatti immaginare un altro prodotto seriale in grado di replicare questo clima di vera e propria psicosi di massa, che due anni fa ha portato addirittura all’arresto di quattro persone in India, accusate di aver provato a diffondere un episodio prima dell’uscita ufficiale.
Come sottolineato anche dal critico di Vulture Matt Zoller Seitz, finora tutte le pietre miliari della televisione avevano in comune una caratteristica specifica del medium: la simultaneità. Il finale de I Soprano, quello di Lost e quello di Breaking Bad, infatti, non possono essere analizzati senza considerare l’attesa che li ha preceduti e la simultaneità della visione data dalla trasmissione in televisione. Nel caso di GoT, ci aspettano soltanto sei (per quanto espansi) episodi prima di congedarci definitivamente – almeno fino all’arrivo degli spin off, naturalmente già annunciati – ma più ci si avvicina all’addio all’amatissimo universo narrativo creato da David Benioff e D.B. Weiss, più viene spontaneo chiedersi se ci sarà un altro Game of Thrones nel futuro della serialità.
Il contesto in cui la serie è nata e in cui ha prosperato per anni ha subìto profondi cambiamenti nel corso delle otto stagioni di messa in onda e molti di questi cambiamenti sono stati innescati dalla serie stessa. Game of Thrones si posizionava come un prodotto nuovo e in discontinuità con una televisione ancora forte della legacy di serie come Six Feet Under, The Wire e Deadwood e con la tradizione di HBO, emittente che dalla fine degli anni Novanta con Oz, Sex and the City e I Soprano ha costruito un’identità di rete basata su programmi di elevata qualità e importanti valori produttivi, con narrazioni che guardavano alla letteratura (grazie anche a romanzieri trasformati in sceneggiatori come Dennis Lehane) e uno stile di regia che si avvicinava a quello cinematografico.
A destare grande curiosità era soprattutto il genere scelto, il fantasy. HBO aveva già compiuto un’apprezzata e autoironica incursione nel soprannaturale con True Blood, ma per la prima volta aveva deciso di prendere il fantasy sul serio e investire energie economiche e creative su un genere non certo universalmente considerato di prestigio, finendo per sorprendere con questa ardita scommessa sia la critica sia i player rivali. In questo modo Game of Thrones ha usato il fantasy per fare discorsi “adulti” e accessibili a chiunque senza però mai rinnegare le peculiarità del genere, come la presenza di creature soprannaturali e l’importanza dei momenti magici. L’idea vincente di Game of Thrones è stata quella di non insistere su un modello già di successo e scegliere di innalzare ulteriormente il budget medio di ogni episodio con l’obiettivo di offrire uno show che avesse sia la qualità narrativa tipica dei prodotti HBO sia un livello di spettacolarità simile a quello dei blockbuster cinematografici. In particolare la scrittura ha rappresentato la vera costante qualitativa dello show, il fattore che ha consentito la convivenza in maniera organica di decine di storylines differenti senza mai rischiare annoiare il pubblico, bensì vedendo crescere progressivamente i rating della serie.
Questa intuizione ha consentito alla rete di incrementare in maniera esponenziale il numero dei suoi abbonati e di vendere la serie in tantissimi Paesi del mondo. Il successo di GoT ha quindi spinto le altre emittenti a seguire HBO sulla strada della spettacolarità, inducendole a incrementare esponenzialmente gli investimenti. Un mutamento fondamentale per l’industria televisiva che però ha segnato anche un nuovo rapporto tra rischio e calcolo a proposito della creazione di un nuovo prodotto: la necessità di ridurre al minimo il rischio di fallimento di uno show molto costoso ha spinto i player a realizzare prodotti sempre più calcolati, che al contrario della serie di Benioff e Weiss non rappresentino una scommessa ma giochino il più possibile sul sicuro dal punto di vista creativo, visto il rischio economico necessario per competere.
Il modello dei prestige drama contemporanei è infatti quello straight-to-series, in cui si garantisce al cast (spesso composto da star provenienti dal cinema) un progetto coeso e organico già confermato per almeno una stagione, senza la necessità di passare dal meccanismo dell’approvazione del pilot tipico della tv tradizionale, fondamentale per mettere a punto il miglior format possibile ma che al tempo stesso non garantisce la conferma dello show per un’intera stagione. Il risultato è che per essere certi di ottenere il gradimento del pubblico si preferisce realizzare show studiati a tavolino e spesso tutt’altro che audaci. È come se Game of Thrones avesse allo stesso tempo indotto le altre serie a diventare sempre più ambiziose in termini di budget, ma ne avesse anche inibito involontariamente la capacità di sperimentare creativamente.
D’altronde i processi di imitazione in ambito televisivo quasi mai portano a prodotti d’eccezione anche quando danno luogo a serie di ottima fattura: Boardwalk Empire, per esempio, è una serie gangster scritta da Terrence Winter e ambientata negli anni Venti che qualche anno fa si è contraddistinta per un’elevata qualità di scrittura e messa in scena, ma forse il suo maggiore limite è stato proprio quello di seguire troppo fedelmente la lezione de I Soprano. Guardando al futuro, il progetto che potenzialmente si avvicina di più a essere il nuovo Game of Thrones potrebbe essere Il signore degli anelli di Amazon, perché pesca da una saga letteraria dal successo assicurato e sarà supportato da un investimento economico senza precedenti. Ma anche in questo caso il rischio di replicare un modello svuotandolo delle sue potenzialità innovative è alto: tra le fondamentali peculiarità di Game of Thrones, infatti, c’è il rapporto con la saga letteraria creata da George R.R. Martin, che per cinque stagioni ha saputo creare uno spartiacque significativo tra spettatori lettori e non lettori e gestire alla perfezione la differente percezione della storia di coloro che erano a conoscenza delle vicende e quella di coloro che non lo erano, soprattutto per il ruolo della sorpresa nella serie, come nel caso del Red Wedding. Alla sesta stagione però, spinta dalla necessità (i romanzi di Martin non erano terminati e non lo sono tutt’ora), Game of Thrones ha operato un’altra scelta coraggiosa e a conti fatti assolutamente efficace, superando cronologicamente i libri e smettendo di essere una trasposizione. Così facendo HBO ha indubbiamente attirato a sé diverse critiche, ma al contempo ha anche messo sullo stesso piano tutti gli spettatori, concentrando l’attenzione di fan e studiosi sulla nuova “originalità” del racconto.
Dopo tanti anni di messa in onda, la legacy di Game of Thrones è quindi quella di uno show che ha saputo essere coraggioso e rivoluzionario ma al contempo attirare a sé un pubblico vasto ed eterogeneo: un’eredità enorme e molto difficile da eguagliare o replicare, sebbene sicuramente in molti proveranno a farlo. Come spesso accade per le produzioni di grande successo (che sia critico, di pubblico o entrambi, come in questo caso) in tanti cercheranno di imitare lo show di HBO con l’obiettivo di raggiungere l’enorme bacino di pubblico che è riuscito a conquistare. Ma il nuovo Game of Thrones molto probabilmente non sarà lo show che riuscirà a replicarne le caratteristiche, quanto quello che saprà interpretare al meglio il proprio tempo presentandosi come un prodotto innovativo e in grado di soddisfare un bisogno collettivo spesso addirittura inconsapevole, come ha fatto per anni la serie di Benioff e Weiss.