Berlino, 1933, pochi anni separano la Germania nazista dallo scoppio della guerra quando Fritz Lang varca la soglia del ministero della Propaganda, dove crede di essere stato convocato per rispondere di alcune frasi pronunciate dal diabolico Mabuse nel suo ultimo film, Il testamento del dottor Mabuse. Le frasi in questione sono slogan nazisti presi in prestito da Hitler in persona, automaticamente messo sullo stesso piano, dunque, di un personaggio votato al male, un geniale ipnotizzatore che punta a distruggere la società e fondare il suo “regno millenario del crimine”.
L’invito al ministero arriva direttamente da Joseph Goebbels, un uomo che già metteva i brividi in tempi meno sospetti: Lang sente di essere in pericolo, ma non può fare altro che andare. Supera i controlli delle camicie gialle – all’epoca non usavano ancora quelle nere – e dopo pochi minuti viene ricevuto dal ministro in un lungo ufficio dalle grandi finestre. Con grande cordialità il ministro della Propaganda dice che Hitler ha visto molti film di Lang e che gli sono piaciuti al punto da dichiarare che sarebbe stato lui il regista in grado di dare al Reich il film nazionalsocialista. Dunque niente Mabuse, niente condanna da parte di Goebbels, peggio: Lang è stato scelto come “supervisore” del cinema tedesco. Il regista è in un bagno di sudore, pensa già alla fuga, fuori dalla finestra riesce a scorgere un orologio e capisce che non farà in tempo a trovare la banca ancora aperta. Ricorda a Goebbels che la famiglia di suo padre è ariana da generazioni, ma che sua madre è cattolica figlia di genitori ebrei: “Signor Lang, siamo noi a decidere chi è ariano”, gli risponde il ministro. Lang ringrazia, accetta formalmente l’offerta, passa dalla banca ma la trova già chiusa, torna a casa, arraffa tutti i soldi che ha, saluta la moglie, Thea von Harbou, e la sera stessa fugge su un treno per Parigi.
È così che si conclude il periodo tedesco di Fritz Lang, almeno nella versione più romanzata che il regista viennese abbia raccontato, un artista il cui solo nome porta con sé un’idea di grandezza, di grandi personaggi, appunto, di grandi film, grandi epoche e dibattiti. Ancora oggi sono tante le sue opere che riverberano nella storia del cinema, le più popolari hanno avuto origine proprio nel periodo tedesco, quello della Repubblica di Weimar, quando Lang mosse i primi passi nella sceneggiatura per poi passare alla regia e rivelarsi uno dei talenti più grandi di sempre. E grandi sono i suoi film, letteralmente, perché se la cinematografia tedesca era l’unica in grado di competere con quella statunitense in quanto a capitali in gioco, il regista cui venivano affidati i fondi più cospicui era proprio Lang, memore dei colossal firmati da Giovanni Pastrone e David Griffith. Una responsabilità enorme che con i film della serie Mabuse e, soprattutto, con I Nibelunghi, si trasformerà in un successo europeo senza precedenti.
Le imprese rocambolesche, siano di un criminale o di un eroe norreno, sono per Lang terreno familiare. Negli anni ha infatti vissuto molteplici esperienze, facendo tanti lavori diversi per riuscire a mantenersi. Ha fatto il pittore, ha collaborato con la polizia e avuto a che fare con ladri, assassini e truffatori, ha combattuto nelle trincee della prima guerra mondiale e visto in funzione l’enorme macchina bellica del suo Paese. La guerra di posizione lo abitua alle esperienze più terribili, viene ferito più volte e in convalescenza scrive due sceneggiature, passando presto alla regia: Lang gira storie che sembrano riprendere gli orrori del tempo di guerra, complessi piani del male e lotte con mostri impressionanti. È memorabile proprio lo scontro tra Sigfrido e l’enorme drago sputafuoco Fafner, adorato dalle folle che premiarono I Nibelunghi con incassi record spianando la strada al costosissimo Metropolis, del 1927.
17 mesi di lavorazione, 7 milioni di marchi, 620.000 metri di pellicola, 25.000 comparse maschili e 11.000 femminili, 1.100 attori calvi e 250 bambini. Metropolis è un film enorme, un cult che ha influenzato Ridley Scott, George Lucas, Rintarō, Katsuhiro Ōtomo e tantissimi altri, fino ai giorni nostri; una pietra miliare scritta con Thea von Harbou e sviluppata visivamente da Lang a partire da un viaggio a New York che gli aprì la mente sul futuro urbanistico e sociale del mondo. Urbanistico, innanzitutto, per i grattacieli, le automobili e il traffico aereo della metropoli, sociale perché il progresso e l’architettura statunitense sono il frutto di una società fondata sul capitale, ormai in netta ascesa anche in Germania. Metropolis diventa così l’occasione per costruire un apparato distopico fatto di rigide divisioni sociali ed enormi macchinari umanizzati.
A stupire, ancora oggi, è la capacità di dare ordine a una complessità di elementi anche molto diversi tra loro per creare una sinfonia visiva e dar forma a un’idea: le macchine, che dominano l’inquadratura, lavorano alla meccanizzazione dell’uomo e alla propria umanizzazione, uno scambio che accade anche nel piccolo, con la mitica metamorfosi dell’automa, da esoscheletro metallico a donna in carne e ossa. Gli operai vengono sfruttati e spogliati di qualsiasi volontà, sfruttati come automi. E mentre un mondo sotterraneo soffre, nell’alto dei cieli la vita scorre tra abiti eleganti, macchine volanti e feste di un’alta società che mai incontra gli strati più bassi della popolazione.
Al di là della tecnologia messa in campo e delle soluzioni visivo-luministiche sperimentali che ancora oggi ci impressionano, Metropolis si ricorda anche per le sue problematicità: dagli ampi tagli operati in distribuzione ai decenni necessari a ricostruire una versione vicina all’originale, grazie a pellicole sparse per il mondo, passando per il catastrofico insuccesso al botteghino fino all’ambiguo messaggio sociale, che da una parte propone la rivolta operai come unica via percorribile e dall’altra la dipinge come una confusionaria sequela di azioni senza finalità programmatiche. È dopo Metropolis, infatti, che nasce una coscienza politica in Lang, da sempre interessato agli aspetti narrativi e tecnici del cinema, e ora sempre più impegnato – forse inconsapevolmente – a dare volto ai moti sotterranei del suo tempo. Se alcuni – Kracauer in testa – avevano già visto in Mabuse una preconizzazione del leader totalitario, ipotesi sempre avversata dallo stesso Lang, è evidente soprattutto con M la forte presa di posizione del regista contro il populismo, il giustizialismo e la sovversione dello stato di diritto.
M – Il mostro di Düsseldorf è il film più amato dal regista, anche perché fu quello in cui ebbe maggiore libertà, riuscendo a controllare ogni aspetto della produzione. Primo film sonoro di Lang, M è un’incalzante caccia all’uomo, in cui musica ed effetti sonori diventano parte integrante di una trama fosca, pregna della perversione di un assassino di bambini che contrariamente alle teorie lombrosiane da molti accettate all’epoca dell’uscita (il 1931), è un uomo qualsiasi, che solo la mobilitazione di tutta la società potrà smascherare. L’azione della malavita, in parallelo a quella della polizia, è fonte di una prima controversia, ma non basta, serve il finale per raggiungere l’apice di questo capolavoro d’autore: il climax crescente, la ricerca dell’assassino, si conclude con la cattura da parte dei malavitosi, pronti poi a uccidere il mostro, giudicato in un processo farsa alla presenza dei genitori delle vittime. Ma proprio quando populismo e giustizialismo stanno per realizzare la loro vendetta, Lang opera un colpo da maestro indimenticabile: fa irrompere la polizia, l’ordine costituito, a sedare l’entusiasmo omicida della folla. Un finale che non piacque ai nazisti, sempre favorevoli alla giustizia privata e sovversione delle istituzioni, e che scatenò un dibattito attorno alla figura dell’assassino, che in un monologo magistralmente interpretato da Peter Lorre insinuò il dubbio che la malattia mentale e la responsabilità delle proprie azioni viaggiassero su binari paralleli. Un vero capolavoro che pone ancora oggi domande allo spettatore e che provocando reazioni così accese mise in luce lo spirito di un tempo malato, che covava un risentimento sociale pronto a esplodere di lì a poco nel secondo conflitto mondiale.
Oggi l’eredità di Lang è ancora ben presente, gli omaggi si sprecano e il ricordo di una vita artistica assai longeva spazia dalla fantascienza al film antinazista, dal western al noir, tanto da poter essere capita a pieno solo con studi lunghi e approfonditi. Un genio visionario che negli ultimi anni della sua vita lasciò il cinema a causa della cecità incipiente, ma che ricevette da Godard l’omaggio forse più bello: una parte nel 1963 ne Il disprezzo, a interpretare sé stesso come rappresentante di tutto il cinema classico, “da Chaplin a Griffith”, perché, disse il regista francese: “Lang rappresenta tutto il cinema”. E questa identità non si può cancellare.