Il racconto evangelico della morte di Cristo restituisce il sacrificio che ha segnato maggiormente la cultura cristiana e, spesso, anche l’immaginario di chi non crede. Che si scelga di avere fede o meno, al netto delle differenze storiche e degli aspetti miracolistici, la crocifissione di Gesù di Nazareth è soprattutto la storia di una vittima innocente, schiacciata dalla violenza e dagli abusi di potere. Come lui, sono state però anche molti altri – e molto più vicini a noi – i poveri cristi che nel corso della Storia hanno pagato con la vita per essersi ribellati a una dittatura, ai dogmi fanatici del loro tempo o agli errori del sistema giudiziario. Il cinema ha saputo restituirci le loro storie, sottraendole all’oblio. Eccone alcune.
Jesus Christ Superstar, di Norman Jewison (1973)
Quando il compositore Andrew Lloyd Webber e lo sceneggiatore Tim Rice si sono rivolti per la prima volta ai produttori teatrali, presentando il progetto per un’opera rock sull’ultima settimana di vita di Gesù Cristo, la loro idea è stata definita “la peggiore della storia”. Pare che per i potenziali finanziatori la rivisitazione dei giorni precedenti alla crocifissione, fatta dal punto di vista di Giuda Iscariota e ispirata a uno spot pubblicitario in cui Tom Jones cantava vestito di bianco, con una grande scritta “SUPERSTAR” stampata addosso, fosse troppo surreale per funzionare, oltre che ai limiti della blasfemia. Jesus Christ Superstar è stato così pubblicato in frammenti, assumendo diverse forme mano a mano che qualcuno decideva di metterci dei soldi: all’inizio come singolo, subito dopo come album nel 1970, diventando il più venduto negli Stati Uniti già nel corso dell’anno successivo, per poi debuttare a Broadway e infine venire definitivamente consacrato, nel 1973, dal cult diretto da Norman Jewinson.
Il musical è interamente cantato, privo di spazi di dialogo o recitazione, ed è riuscito a raccogliere i sentimenti e le istanze di un’America di contrasto, che all’inizio degli anni Settanta era ancora attraversata dalle mobilitazioni della rivoluzione sessuale e aveva visto inasprirsi le proteste contro la guerra del Vietnam. La nuova sensibilità sociale che si stava affermando in opposizione al conservatorismo statunitense va infatti a confluire nella narrazione, cristallizzandosi nei simbolismi e nei riferimenti alla cultura hippie che ricorrono tra le immagini. Quella di Jewinson è una visione del tutto umanizzata della Passione di Cristo, dove gli episodi evangelici diventano la testimonianza singolare di un’esperienza di dolore che è comune, connaturata all’esistenza. Dalla scena iniziale, in cui i vari attori scendono da un pullman – ultimo ma non ultimo Ted Neeley, che interpreta Gesù – pronti a prendere parte al film, l’unica forza che sembra poter trascendere la tragedia umana è quella della messa in scena, della finzione, capace di assegnare ruoli Altri, diversi da quelli che si è soliti ricoprire in una vita.
I dubbi, i sospetti e le paure dei personaggi creano una mistica dei sentimenti che non ha nulla di divino, proprio perché la contemplazione è rivolta alla loro vulnerabilità: il desiderio bruciante di Maria Maddalena, i sensi di colpa di Giuda, che lo annichiliscono dopo il suo tradimento; il conflitto interiore dello stesso Gesù, soffocato dalla rabbia e dalla frustrazione con cui affronta la sua morte. L’esplosione di “Superstar”, che riempie la scena finale, sembra voler plasmare il destino, riscrivere la riflessione teologica, chiedendosi cosa sarebbe accaduto oggi di fronte al suo sacrificio: Why’d you choose such a backward time and such a strange land? / If you’d come today you could have reached a whole nation / Israel in 4 BC had no mass communication.
Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini (1964)
Nell’estate del 1963, mentre le polemiche e le accuse di “vilipendio alla religione di Stato” per la realizzazione del cortometraggio La ricotta erano ancora vive, Pier Paolo Pasolini si recò in Terrasanta per cercare i luoghi più adatti a girare un nuovo film, il cui impulso, scriveva al suo produttore, nasceva dall’aver sperimentato una “bellezza morale” non mediata, allo stato puro, l’unica bellezza che conosceva, nei racconti degli evangelisti sulla vita e la predicazione di Gesù di Nazareth: Il Vangelo secondo Matteo. Pasolini, infatti, pur essendo ateo e anticlericale, spesso “eretico”, avvertiva profondamente l’esigenza del sacro. “La mia lettura non poteva che essere la lettura di un marxista, ma contemporaneamente serpeggiava in me il fascino dell’irrazionale, del divino, che domina tutto il Vangelo”, dirà in un’intervista. Tuttavia, il viaggio in Palestina e Israele fallì, e nella sua versione Pasolini scelse poi il Sud Italia: i Sassi di Matera, il borgo lucano di Barile, gli ambienti rupestri di Massafra, le colline della Murgia, le Cascate di Chia, la Valle dell’Etna. A impersonare Cristo, dopo molte ricerche, non un intellettuale, come in prima istanza si era ripromesso, ma un giovane universitario spagnolo, impegnato nella lotta clandestina. “Cristo era lui: tutto preso dal suo unico ossessivo sentimento, la lotta per la libertà”.
Considerato all’unanimità dalla critica, anche cattolica, il miglior film su Gesù mai girato, Il Vangelo secondo Matteo non ricostruisce soltanto le tappe fondamentali della vita di Cristo, dall’Annunciazione alla Resurrezione, ma si fa opera rivelatrice anche dei tormenti dell’animo del regista. Nel realizzarlo, Pasolini attinge a piene mani dalla storia dell’arte, con immagini che richiamano dichiaratamente i dipinti di alcuni grandi artisti, da Masaccio ai manieristi, da Giotto a Caravaggio, passando per Piero della Francesca, e ricostruisce il Nuovo Testamento usando un cast interamente di non professionisti e una fotografia in bianco e nero quasi documentaristica sulla scia del Neorealismo. C’è una rara umanità in questa pellicola: riducendo gli insegnamenti cristiani alla loro essenza più spoglia e fondando ogni gesto sulla carità – “indispensabile alla fede e alla speranza stesse perché pensabile anche di per sé” –, la predicazione del Messia viene inserita nella realtà concreta dei poveri, degli emarginati e degli oppressi, lontana dagli aspetti miracolistici. Acquisisce cioè un respiro più ampio: il solo risultato possibile dall’unione della visione di un ateo e dalla sua immedesimazione negli occhi di un credente.
Giordano Bruno, di Giuliano Montaldo (1973)
Gian Maria Volonté apparteneva a una categoria artistica che potremmo definire quasi del tutto estinta, quella di chi ha fatto della propria immagine pubblica un mezzo di comunicazione e di impegno civile costante. Nella sua carriera, infatti, ha avuto la peculiarità di aver dato vita sia a personaggi di finzione rappresentativi della politica e della società italiana, sia a uomini realmente esistiti, adattando alla forma cinematografica le biografie di personalità del calibro di Enrico Mattei o Giordano Bruno. Proprio in quest’ultima pellicola, sotto la regia di Giuliano Montaldo, la biografia del protagonista, anche lui martire come Sacco e Vanzetti, seppur per motivi diversi e in epoche diverse, diventa un tutt’uno con l’espressività dell’attore, che riesce a tracciare un ritratto allo stesso tempo sia personale che simbolico della figura storica.
Nella pellicola, realizzata nel 1973, Volonté incarna coraggiosamente il filosofo vissuto nel XVI secolo e ucciso per eresia. Ricordandoci che la filosofia deve essere scomoda e che la capacità di pensare deve essere alimentata a ogni livello sociale, Giordano Bruno ha rappresentato l’intellettuale rinascimentale universale e anticonformista, che alla visione superstiziosa del dogma religioso e alla castrazione dei propri istinti ha sempre contrapposto la necessità del pensiero di basarsi sulla ragione e sull’evidenza scientifica.
Il film di Montaldo segue il filosofo negli ultimi anni della sua vita e, in alcune scene, dà voce a istanze che 400 anni dopo sono ancora attuali. Come per le richieste del filosofo affinché le università siano aperte a tutti, i banchi a disposizione di chiunque abbia amore per le scienze e il sapere libero dalle imposizioni delle autorità religiose, civili o accademiche.
Il punto di contatto tra Volonté e Montaldo, come nelle altre pellicole in cui collaborarono, fu indubbiamente l’intento di creare un “cinema verità” che fosse al contempo sia erede del neorealismo, che foriero di un’idea di arte che stimolasse quanto più possibile le reazioni nel pubblico. Un cinema che, per quanto storicizzato e ormai archiviato nella memoria collettiva, vive ancora in piena autonomia.
Garage Olimpo, di Marco Bechis (1999)
È la fine degli anni Settanta, in Argentina. Maradona ha da poco debuttato negli Argentinos Juniors, mentre per le strade di Buenos Aires la vita scorre tranquilla, sotto un sole presente. Fuori da una porta, una pallina da ping pong rimbalza più e più volte. Pong. Pong. Pong. Sembra un gioco rilassante, aiuta a scaricare la tensione. Pong. Pong. Pong. Dentro, quel rumore non si sente, né spesso si vede alcunché se non il buio. Molte delle persone che si trovano dietro quella porta sono bendate, appese al soffitto, seviziate, torturate. È il Garage Olimpo, uno delle centinaia di centri di detenzione che vennero creati in Argentina per sequestrare persone per motivi politici o accusate di aver compiuto attività anti-governative: i desaparecidos. Si stima che furono 30mila i sospettati scomparsi – anche se finora ne sono stati accertati novemila. Tra loro c’è anche Maria, attivista militante che si oppone alla dittatura militare, protagonista del film di Marco Bechis del 1999: Garage Olimpo, appunto.
Maria è rapita, legata. Per farla parlare, il capo del centro affida il compito a Felix, un ragazzo timido e innamorato di lei, che vive nella stanza che Maria affitta insieme alla madre. È il suo aguzzino, ma anche l’unica speranza di salvezza. Bechis non mostra la crudeltà degli atti, chiude la porta, lasciando che sia l’immaginazione a colmare lo spazio perverso tra ciò che era un momento prima e ciò che sarà dopo, quando ne appuriamo le conseguenze. È la banalità del male quella che mette in scena, la bieca normalità con cui gli ufficiali conducono una vita qualunque, una come tante, nella forte luce di Buenos Aires, per poi, scesi nel buio del Garage Olimpo, decidere quanta scarica elettrica possa sopportare un corpo per parlare senza morire – o fino a che non importi più. Esseri umani così banali da far apparire del tutto naturale la loro crudeltà. Una scelta che viene alimentata sia dalla contrapposizione tra sotterraneo ed esterno che dalle molte sequenze aeree, come per allontanarsi dalla claustrofobia delle celle e dimostrare che da fuori, da lontano, tutto sembra normale.
Bechis conosce molto bene l’argomento: lui stesso, nel 1977, venne incarcerato, riuscendo a liberarsi solo grazie al possesso della nazionalità italiana. Con Garage Olimpo, però, il suo tentativo non è tanto quello di ricostruire la sua storia personale quanto di “attualizzare la violenza dello Stato contro i cittadini, violenza che alla fine del secolo continua a devastare il mondo”. Una volontà di raccontare la storia dei desaparecidos di vent’anni fa come se avvenisse oggi in qualche parte del mondo. Come potrebbe ancora avvenire.
Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo (1971)
La vicenda di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, detti anche “Nick and Bart”, è forse uno dei pezzi di storia del Novecento che più è rimasto impresso nell’immaginario collettivo degli anni successivi. Non si tratta infatti di un racconto che coinvolge i grandi protagonisti della storia del nostro Paese, non si parla di dittatori, di eroi militari, condottieri o grandi scienziati, ma solo di due persone che, come tantissime altre tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, si erano trovate a dover cercare una vita migliore da qualche altra parte. Se messa a confronto con la migrazione odierna, quella che ci vede come luogo di approdo e non di partenza, quella italiana viene intesa come un fenomeno che ha coinvolto brava gente, lavoratori, persone perbene. La storia di Sacco e Vanzetti, a questo proposito, risulta particolarmente emblematica.
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, come urla a gran voce Gian Maria Volontè in una delle scene più memorabili del film, diretto da Giuliano Montaldo – che ricostruisce tutta la vicenda dei due, compreso il processo –, non solo erano italiani, ma anche anarchici. E la loro grande sfortuna, ciò che li portò a sedersi ingiustamente sulla sedia elettrica il 23 agosto del 1927, è stato il fatto di venire processati per un crimine da loro non commesso, solo per fungere da capri espiatori di una lotta a un fenomeno che minacciava lo strapotere dei padroni americani.
Il film, infatti, mette in scena in modo accurato e al contempo inquietante tutte le fasi degli eventi che hanno portato alla morte di Sacco e Vanzetti, creando un’atmosfera che a tratti dà un forte senso di confusione, come a riprodurre giramenti di testa, angoscia e spaesamento. Sia nelle inquadrature che d’un tratto si fanno ravvicinate e veloci, sia nel montaggio che alterna flashback – come quello ricorrente della morte di Salsedo – a momenti del processo: Sacco e Vanzetti in alcuni momenti sembra un incubo trasposto su pellicola. Un altro elemento fondamentale fu poi la colonna sonora di Ennio Morricone, con la canzone Here’s to you, che divenne una delle più celebri tra le sue composizioni. Sacco e Vanzetti, dunque, è un esempio di cinema italiano di altissima qualità, specialmente a livello di scrittura, e soprattutto è considerato un film cult che racconta una storia tanto nota e indimenticabile. Per quanto questi due uomini possano essere stati riabilitati dal corso della storia, infatti, la vicenda che Montaldo racconta deve darci lo spunto per rivedere cosa stiamo sbagliando nel presente.
Salvador – 26 anni contro, di Manuel Huerga (2006)
Tratto dal libro Cuenta atrás. La historia de Salvador Puig Antich del giornalista Francesc Escribano, Salvador – 26 anni contro indaga la vita di Salvador Puig Antich, giovane anarchico catalano noto per essere stato, insieme a Georg Michael Welzel – più conosciuto come Heinz Ches –, l’ultima persona giustiziata mediante garrota – uno strumento di tortura che provoca la morte per strangolamento – prima della fine del regime franchista. Su di lui, la dittatura si era scagliata non tanto per vendicare la morte di un poliziotto – anche perché è un fatto mai verificato –, quanto per la frustrazione per la propria fine imminente.
Manuel Huerga costruisce la storia in due parti, contrapponendo la vita libera alla detenzione del presente. Nella prima, ci sono le manifestazioni antifranchiste, il racconto del Movimiento Ibérico de Liberación, il MIL, dove Salvador militava, le rapine in banca realizzate per finanziare l’organizzazione, la tentazione delle armi; e poi l’amore, il legame con le sorelle, il rock. Non un tradimento della realtà storica ma, piuttosto, il tentativo di scavare e far emergere le contraddizioni di una vita che, a soli 26 anni, è costretta a confrontarsi con la morte. L’incarcerazione, il processo, la reazione di amici e familiari, la difesa dell’avvocato, costituiscono invece la seconda parte della pellicola, in un crescendo di emotività che non appare mai fine a se stessa quanto funzionale a denunciare le storture del potere e la disperazione di chi resta, nell’attesa di una grazia che non arriverà mai, perché nessun regime può essere clemente.
Nonostante l’attuale MIL abbia preso le distanze dal film di Huerga per la mancanza “della storia di sovversione rivoluzionaria contro il capitalismo”, è evidente quanto a muovere il regista spagnolo sia stata soprattutto un’urgenza: quella di affrontare l’oblio della Storia, evitando che la vita di Salvador Puig Antich ne venisse inghiottita.
Dancer in the Dark, di Lars von Trier (2000)
Si potrebbero analizzare uno per uno i film di Lars Von Trier per trovarvi innumerevoli significati, spesso disgustosi, crudi, cinici, spietatamente cattivi e che denotano una totale mancanza di fiducia nel genere umano. La sua capacità di rappresentazione delle perversioni, dei disturbi mentali e dei sentimenti più sporchi è probabilmente una delle migliori che possiamo aspettarci dal cinema contemporaneo. È stato sicuramente così con Dancer in the Dark, del 2000, in cui von Trier fa convivere la brutalità della vita reale con l’eredità storica del musical di Hollywood, stravolta per realizzare quello che il regista stesso ha definito “un anti-musical”. Se infatti il genere ci ha abituato a una sorta di gioia costante e lieto fine, in Dancer in the Dark è un elemento a prevalere su tutto: la tragedia.
Selma – interpretata dalla cantante islandese Bjork, che ha anche curato l’intera colonna sonora della pellicola –, è una donna cecoslovacca emigrata in una piccola cittadina degli Stati Uniti per trovare un medico che possa curare il figlio da una malattia che presto lo renderà cieco, come sta accadendo a lei. Per permetterselo, arrotonda il lavoro fabbrica con un impiego part-time, dove inserisce forcine per capelli su un pezzo di cartoncino. “Quando lavoravo in fabbrica, sognavo di essere in un musical, perché in un musical non succede mai nulla di terribile”, dirà von Trier. Lo stesso destino non spetterà a Selma: derubata e tradita, verrà prima accusata di omicidio e poi di essere una comunista che si finge cieca per sfruttare il sistema sanitario americano. Nessuna verità basta a salvarla dalla condanna a morte.
La provocazione di von Trier sta nel coniugare un dramma proletario a un genere noto per il suo “glamour”, scardinando le fondamenta stesse del sogno americano. I numeri musicali sono presentati soprattutto come fantasie di Selma: in fabbrica, al processo e perfino nel braccio della morte. Come le protagoniste de Le onde del destino e Idioti – che insieme a Dancer in the Dark costituiscono la cosiddetta “Trilogia del cuore d’oro” –, Selma è connotata al contempo da una grande ingenuità e da una potente determinazione e forza emotiva. Il film è una sorta di denuncia europea al sistema americano, un’analisi politica contro la pena di morte e la xenofobia, e il racconto della maternità della protagonista, in cui contrappone un totale senso di abnegazione di sé per la salvezza del figlio all’egoismo più umano. “Perché lo hai voluto questo bambino, se eri a conoscenza del fatto che sarebbe nato con la tua stessa tara?”, le chiedono in una scena del film. “Perché volevo un figlio mio, volevo tenerlo in braccio”. Quale sia il senso dell’arte è una domanda a cui non troveremo mai una sola risposta, ma se tra le varie spiegazioni includiamo anche la purificazione da tutto ciò che c’è di sbagliato in noi, affrontandolo di petto, allora Dancer in the Dark è un film davvero incredibile.
The Life of David Gale, di Alan Parker (2003)
David Gale (Kevin Spacey), brilante professore universario e attivista contro la pena di morte, viene ironicamente condannato alla pena capitale in Texas, con l’accusa di aver stuprato e ucciso una sua collega, Costance (Laura Linney). Già in passato aveva perso tutto per una denuncia di violenza sessuale: moglie, figlio, lavoro. Per provare la sua innocenza, il legale di Gale vende per mezzo milione di dollari un’intervista esclusiva al condannato a una delle maggiori testate nazionali. Mancano tre giorni all’iniezione letale. A raccogliere la testimonianza viene richiesta Bitsey Bloom (Kate Winslet), una giovane e ambiziosa giornalista conosciuta per l’affidabilità nel mantenere la massima riservatezza e nel proteggere le fonti. La colpa, dice Gale, non è sua, ma di alcuni esponenti politici di destra che hanno cercato di incastrarlo.
Interrogando lo spettatore sul ruolo dell’attivismo e sul limite verso cui siamo disposti a spingerci per dimostrare la fondatezza e l’importanza delle battaglie sociali in cui crediamo, The Life of David Gale – realizzato dal regista britannico Alan Parker nel 2003, dopo il successo di pellicole come Birdy – Le ali della libertà, Mississippi Burning – Le radici dell’odio ed Evita, e suo ultimo film – mostra come l’errore giudiziario sia sempre possibile e come la condanna a morte escluda ogni possibilità di salvezza. Con un’opera di denuncia costruita come fosse un thriller, Parker sonda l’etica e la filosofia cercando una chiara posizione di condanna alla pena di morte e indagando la capacità dei media di manipolare lettori e spettatori, coinvolgendoli nella loro narrazione della realtà. “Nessuno vede una persona quando guarda attraverso questo vetro, vedono solo un omicida e uno stupratore a tre giorni dalla sua esecuzione”.
The Life of David Gale è la storia di due persone e degli estremi che non hanno paura di raggiungere per le proprie convinzioni; è la storia di un sistema che, ancora troppo spesso, vede nella pena di morte un’azione giustificabile e non un omicidio di Stato. Tutto si racchiude in ciò che Gale spiega durante una delle sue lezioni: “L’unico modo per dare significato alle nostre vite è valorizzare quelle altrui”.
Silence, di Martin Scorsese (2016)
Lo script di Silence, che Martin Scorsese iniziò ad abbozzare accanto a Jay Cocks – sceneggiatore con cui aveva collaborato anche in L’età dell’innocenza e Gangs of New York – risale al 1991. Già allora la trasposizione dell’omonimo romanzo di Shūsaku Endō pubblicato nel 1966, che racconta la persecuzione dei padri gesuiti avvenute in Giappone durante il “periodo Edo”, veniva considerata una maledizione. Per realizzarla ci vollero venticinque anni di vicissitudini finanziarie e giudiziarie, accompagnate da un costante lavoro di riassestamento, di ostentazione dello sguardo, fatto per visualizzare prima sulla pagina e poi sullo schermo la dimensione dell’ingabbiamento, che compare nel film come una forza viva e disumana.
Per essere l’opera di una vita, Silence assomiglia molto poco a un film di Martin Scorsese. Lo scenario è lontanissimo nel tempo e nello spazio dalle strade di Little Italy e dai suoi gangster; i personaggi non sono i suoi fedeli alter ego (da De Niro a Di Caprio), ma due padri gesuiti portoghesi (Andrew Garfield e Adam Driver), che decidono di andare a cercare il loro confessore (Liam Neeson) in Giappone, dopo aver appreso che egli, mentre era in missione, ha fatto apostasia e ha abbracciato la fede e lo stile di vita del luogo. Nell’era Tokugawa – compresa tra il 1603 e il 1868 – il cristianesimo venne bandito dal Paese e i suoi adepti subirono una dura repressione, che rientrava nel progetto di sakoku, Paese blindato, voluto dallo shogunato per impedire al Giappone di risultare schiacciato dalle grandi potenze navali dell’Occidente. La rotta verso Est era in piena espansione, e la colonizzazione europea passava anche, e a volte soprattutto, attraverso l’evangelizzazione. Il conflitto religioso si sovrapponeva dunque a quello politico ed economico, fino a sfociare in un regime di pensiero che rendeva sinonimi gli aggettivi “cristiano” ed “europeo”, vedendoli come corpi estranei da espellere, estirpare o, ancora meglio, redimere.
Le gabbie messe in scena da Scorsese non sono soltanto quelle della prigionia e della repressione, ma soprattutto quelle introspettive in cui i personaggi non sapevano di essere incastrati. C’è un senso di ambiguità della fede che percorre la narrazione con una costanza quasi insostenibile, sgretolando le certezze che, pur restringendo gli orizzonti, in un certo senso contribuivano a mantenerli saldi, a dare struttura alle loro esistenze. Silence si configura così come un’interrogazione profonda che va oltre la teologia, toccando qualsiasi ideologia e credo, perché discute la validità dei dogmi capaci di generare la violenza e la ferocia umana, scavando nei dubbi di chi si è trovato di fronte all’abbandono di Dio.
Il caso Moro, di Giuseppe Ferrara (1986)
Il rapimento e il successivo omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, avvenuta il 9 maggio del 1978, è stato uno degli eventi più impattanti della storia italiana recente. Per ricostruirne i 55 giorni di prigionia, Giuseppe Ferrara ha dato vita, anche grazie alla straordinaria performance attoriale di Gian Maria Volonté, a una vera e propria opera di impegno civile, che parte dal sequestro verificatosi alla vigilia del compromesso storico, diramandosi in un percorso introspettivo che affonda nei pensieri del leader della Democrazia Cristiana. L’intera narrazione si rifà al libro I giorni dell’ira. Il caso Moro senza censure di Robert Katz, che è stato co-sceneggiatore della trasposizione filmica, e rappresenta il primo tentativo di sempre di affrontare – e cercare di metabolizzare – l’avvenimento storico e il trauma sociale che ne è scaturito, ad appena dieci anni dagli eventi.
Il racconto è attraversato da un’atmosfera di impotenza, dove il protagonista diventa un elemento di correlazione tra il potere e la responsabilità, in balia delle decisioni che altri prenderanno per la sua vita. La ricostruzione del modus operandi del Governo nei giorni antecedenti al delitto, il linguaggio utilizzato dai brigatisti per rendere pubblici i loro comunicati e le lettere che Moro scriveva, rassicurando la sua famiglia, creano un intreccio di dettagli filtrati sempre dal suo punto di vista personale, per ritrarre con tratti vividi un’esperienza di debolezza e coercizione, dov’è non c’è possibilità di scelta. La sensazione è quasi quella di assistere a un “fuga dei fatti”, che sembrano astrarsi nel momento stesso in cui accadono, perché parte di una narrazione intima.
L’Aldo Moro interpretato da Volonté non è né un martire, né un eroe, ma il protagonista di una circostanza dove l’antitesi tra individuo e società si fa stridente, risolvendosi nella solitudine e nell’abbandono, che viene rappresentato attraverso le scene dove la debilitazione fisica e lo sconforto morale del protagonista emergono con maggiore intensità. Raccontando gli avvenimenti storici a posteriori, come se fossero un destino già scritto, Ferrara non vuole tribunalizzare la Storia – come molti hanno sostenuto, criticando pesantemente la sua opera –, ma fissare la testimonianza di una lacerazione degli apparati di potere, che ha finito per inghiottire anche il singolo.