“Festen”, di Vinterberg, non è fatto per intrattenerci ma per aprirci, in due o più parti - THE VISION

Inizierò dicendo una cosa che difficilmente ci si aspetterebbe sentire in un articolo di questo genere. Francamente non vedo come qualcuno possa aver voglia di vedere un film come Festen – Festa in famiglia, film del 1998 scritto e diretto dal regista danese Thomas Vinterberg, vincitore del premio della giuria al 51° Festival di Cannes e disponibile in streaming su MUBI Italia, nella rassegna Famiglie sull’orlo di una crisi di nervi di una crisi di nervi. Ma d’altronde l’arte – nemmeno quella filmica – non è fatta per intrattenerci, né men che meno per farci stare bene, o farci sentire a nostro agio. Anzi. L’arte, e Festen rientra in questo specifico insieme di prodotti culturali, è fatta per aprirci, in due o più parti, per farci addentrare in quelle crepe dell’umano in cui altrimenti faremmo fatica a soffermarci. Siamo animali curiosi, la curiosità è la miccia della nostra intelligenza probabilmente, e anche se porta con sé sofferenza, dolore, paura, ignoto, siamo spinti a seguirla. Fin da piccoli vogliamo sapere “cosa succede se”. Non importa se comporta rompere oggetti, deludere persone, frantumare noi stessi e gli altri. È così che il nostro cervello impara a correlare forme, avvenimenti, affetti ed esperienze.

Un altro motivo per cui si guardano certi film, è ovviamente la storia, ciò che rappresentano, il modo in cui si sono fatti discorso e hanno segnato l’immaginario collettivo attraverso una rappresentazione del reale e un racconto. In questo orizzonte, Festen viene considerato il primo film aderente al manifesto Dogma 95 che sulla falsa riga del saggio del 1954 di Truffaut – “Une certaine tendance du cinéma  française” – incarnava i valori dell’omonimo movimento cinematografico nato nel 1995 proprio da Vinterberg e Lars von Trier, un decalogo di regole per realizzare film che si basassero sui valori tradizionali della recitazione, escludendo l’uso di effetti speciali o chissà quali elaborate tecnologie. Niente oggetti di scena, niente luci artificiali, niente scenografie, niente colonna sonora, camera esclusivamente a mano. Questa forte presa di posizione autoriale, in controtendenza con quanto stava accadendo nel business cinematografico di stampo statunitense, sollevò diverse critiche e sopraccigli, eppure Festen – il primo prodotto di questa visione insieme a Idioti di von Trier, che ebbe meno successo – fu estremamente apprezzato a Cannes. Inoltre negli ultimi quindici anni, con l’imporsi e il diffondersi sempre più ampio delle tecnologie digitali, c’è stato un forte ritorno alle regole del Dogma 95, anche se non è più tornato il sapore delle prime produzioni girate su videocamere a nastro, nel bene e nel male. Ad ogni modo, il movimento si sciolse nel 2005, ma nell’arco di dieci anni sono stati prodotti ben 35 film.

Festen ci trasporta in un mondo che davvero pare uscire dai nostri stessi occhi, come un’estrusione della realtà, facendoci entrare come testimoni nella vita di una grande e ricca famiglia danese, che si ritrova nella villa del capostipite per festeggiarne il sessantesimo compleanno. Fin dall’inizio, pur non essendolo, il film appare come un documentario, per via dell’uso della camera a mano, di certo non “steady”. Ma la bravura progettuale di Vinterberg si mostra nell’intuizione di sposare alla perfezione questa tecnica alla storia che è stato scelto di raccontare, così che forma e contenuto diventino effettivamente un tutt’uno e non ci sia nulla di superfluo, nessun vezzo, nessun dettaglio concesso al piacere, alla soddisfazione diremmo – e non a caso il manifesto fu anche chiamato “Voto di castità”. Festen è un film profondamente nordico, algido, anche nelle manifestazioni emotive più disturbanti, esplosive e turbolente.

Le riprese e il montaggio sono caotici, rapidi e affastellati, proprio come la vita dei membri di questa famiglia, e come le nostre emozioni. Ci danno l’impressione di condividere lo sguardo alterato dall’alcol e dalle emozioni dei vari personaggi, di perdere insieme a loro equilibrio, punti di riferimento, coordinate, proporzioni, in preda al turbine generato dai ricordi e dalle provocazioni della realtà sulla nostra coscienza. Eppure questo fenomeno, apparentemente disturbante e faticoso per lo spettatore, in breve si fa ipnotico, come una vera e propria trappola. Riprendendo lo stesso meccanismo fatto di convenzioni, abitudini, galateo e inerzia che subiscono gli invitati alla festa. Non importa che cosa accada, non importa la gravità delle accuse che vengono messe letteralmente sul tavolo, si continua a mangiare, a bere, a ballare, “a fingere di divertirsi”, e magari a tratti a divertirsi per davvero, tanto si aderisce alla forma, all’etichetta, ai personaggi.

Il film si inserisce in quel filone di film che puntano la camera sui legami distorti delle famiglie, su quanto il nostro stare insieme generi rabbia, odio, invidie, sofferenze, umiliazioni, quasi spontaneamente, come una coltivazione di sentimenti negativi. Fin dall’inizio l’incontro tra i fratelli, Christian, Michael e Helene, fa emergere le tensioni tra i loro caratteri, le loro storie, e il loro ruolo all’interno dell’alchimia più complessa della famiglia, tanto che questi adulti sembrano trasformarsi immediatamente in bambini litigiosi, capricciosi, rissosi, maneschi. Ma a differenza di altri film che esplorano questi temi, mano a mano che la festa prosegue, e che la storia avanza, i personaggi riveleranno uno alla volta se stessi, arriveranno a toccare il fondo dell’abisso, per poi risalire più o meno velocemente, e finalmente – a discapito di ogni premessa – trovare una loro singolare strada verso la catarsi.

Il film, senza fronzoli, ma non senza sapienti espedienti narrativi, scardina dai nostri stessi occhi i pregiudizi, dettati dalle esperienze, dai ricordi, dalle ferite, dalle apparenze, ci mostra come ciascuno di noi non sia altro che un vettore di forze, e di come certe forze possano ottenere risultati diversi a seconda della direzione in cui le si indirizza. Così Christian che sembra il primogenito favorito, su cui la famiglia è pronta ad appoggiarsi per andare verso il futuro, si rivelerà l’elemento distruttivo; e Michael, indesiderato e odiato, per un momento apparirà come colui che riporta all’ordine il gruppo, come se fin dall’inizio non avesse aspettato altro che assumere il ruolo dei suoi stessi carnefici. Ma poi le cose cambieranno, e cambieranno ancora. Nell’arco di una sola giornata, per far contento Aristotele. Le famose unità narrative espresse nella sua Poetica, infatti, azione, tempo, luogo, vengono rispettate, anche se con qualche escamotage. Mostrando quanto siano tuttora forti e funzionali a raccontare qualsiasi storia.

Vinterberg scardina pazientemente tutti gli elementi che puntellano lo status quo. La patina di falsità, l’ipocrisia, la corruzione, il razzismo, il privilegio, la menzogna, l’omertà, la distrazione di cui ogni società sembra aver bisogno per esistere, e mantenersi nel tempo. Dal galateo, ai riti di famiglia, passando per barzellette che non fanno ridere più nessuno e canzoni tradizionali. Tutti si prestano a questa pantomima, ma nessuno ha veramente più voglia di viverla. Eppure l’inerzia e l’abitudine dei costumi restano più forti di qualsiasi cosa, di qualsiasi esperienza presente, di qualsiasi verità, di qualsiasi identità individuale. Il gruppo, grande, pachidermico, mastodontico, fagocita le coscienze, annichilisce, stordisce. Così si passa dall’essere testimoni di violenze indicibili al fare un festoso trenino, perché si è sempre fatto così, perché è meglio non pensarci, non accettare, non raccogliere e riconoscere una verità che non si vuole sentire. La sala da pranzo vive lo stesso caos delle scene girate in cucina, come se bastasse una parola a sgretolare un mondo, così come un attimo di rigidità nel polso per far impazzire una maionese, renderla irrecuperabile.

Il mondo sembra saperlo, ed essendo stato strutturato proprio sulla parola è a prova di essa. Non ne basta una per farlo implodere su se stesso, non basta nemmeno una testimonianza, o una denuncia, è necessario un lungo intero rito collettivo, la profonda volontà di dire e ridire la propria verità, come se anche il nostro vissuto seguisse agli occhi e alle orecchie degli altri le stesse regole della pubblicità. Bisogna ripetere anche il vero affinché venga sentito, riconosciuto, raccolto, affinché si trasformi in fatto, in azione. È orribile che sia così, ma è così. E Festen sembra volerci dire che solo allora le nostre parole, noi, la nostra vita, la nostra singola esperienza, unita a quella degli altri, si farà davvero famiglia, e avrà la forza per cambiare il mondo, raccontarlo in modo diverso, con parole diverse.


“Festen” è disponibile in streaming su MUBI Italia. Iscriviti qui per avere 30 giorni di prova gratuita.

Seguici anche su:
Facebook    —
Twitter   —