Ethos narra in modo sublime il conflitto interiore fra Oriente e Occidente nella Turchia odierna - THE VISION
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In una società sempre più interconnessa sembra che il dialogo venga sempre più a mancare. Più aumentano i mezzi di comunicazione e più gli individui si ritrovano spaesati, confusi, incompresi. In Rumore bianco, romanzo del 1985 di Don De Lillo c’è un lungo dialogo tra due accademici, che culmina nel pensiero socratico di uno dei due: egli sostiene che psicologia e mitologia si scambino vicendevolmente i ruoli, così che se da un lato l’evoluzione della coscienza non è pensabile senza il racconto, dall’altro non è possibile raccontare qualcosa senza avvalersi della sua costruzione psichica. Lo stesso lavoro dell’analista, quindi, appare come il risultato di una costruzione, o meglio della de-costruzione e della ri-costruzione di una struttura originaria: il racconto del paziente è quello di un narratore. Vivere, come scrive Fabio Vittorini nel suo Raccontare oggi, significherebbe dunque “tramare”, tessere trame, costruire racconti, modellare il tempo e lo spazio ma soprattutto affermare l’ordine della mente sulla confusione caotica del mondo, perché il racconto riafferma la vita.

Ethos – in originale Bir Başkadır, letteralmente “È un’altra cosa” – serie turca prodotta da Netflix ideata e diretta da Berkun Oya, sembra essere la rappresentazione visiva di questa teoria. Il racconto, che ha come sfondo una nuova Istanbul, presenta due mondi contrapposti fra loro. Il primo è abitato dalla protagonista Meryem (Ökü Karayel), giovane domestica proveniente da una famiglia conservatrice ed educata al rispetto dell’autorità del maestro (l’Hodja), una guida per la comunità islamica. Meryem vive in periferia, in piena campagna, con il fratello, parecchio irascibile, e la sua famiglia. Il secondo è quello di Peri (Defne Kayalar), psicologa appartenente a una famiglia ricca ed elitaria, con studi americani alle spalle, che vive in città. Il filo narrativo della serie è dato dal susseguirsi di diverse sedute terapeutiche che Meryem si ritrova a intraprendere, dopo l’approvazione del suo hodja, a causa di alcuni suoi svenimenti improvvisi.

Il motore della serie è quindi il racconto, un dialogo tra una paziente e la sua psicologa e che apparentemente sembra non ingranare, a causa della diversità culturale, sociale e religiosa – Peri agnostica e Meryem musulmana – evidente tra la psicologa e la paziente, ma che alla fine risulterà molto utile a entrambe. “Ogni volta che una donna con il velo si siede davanti a me, dico a me stessa ‘non essere ridicola’. […] Da psicologa non dovrei essere priva di empatia. Eppure non ci riesco. […] Per mio padre una donna con il velo è una mostruosità”, con queste parole Peri si sfoga con la sua supervisora dopo il primo incontro con Meryem. Come Peri vede Meryem intrappolata in una religione che sembra negarle la piena libertà di espressione, a sua volta anche la sua diffidenza nei confronti di questa religione la porta a essere schiava di un pregiudizio di cui vorrebbe liberarsi. La ricerca del dialogo e del confronto con gli altri risulta quindi necessaria in questo percorso di de-costruzione.

Ethos è allegoria della cosiddetta “Nuova Turchia”, che vede convivere popoli diversi tra loro e deve in qualche modo far conciliare questi mondi, una Turchia che, dai tempi dell’Impero ottomano, per motivi geografici, culturali ed economici, si divide tra la sua parte europea e quella anatolica, facendo convivere influenze e scambi con l’Europa e le sue radici religiose e culturali islamiche. Da un fotogramma all’altro vediamo scorrere il paesaggio di Istanbul, passare dalla periferia rurale e conservatrice alla metropoli; dalla comunità musulmana, che a sua volta vede diversi gruppi etnici al suo interno – quali sunniti, sciiti, conservatori o non praticanti – alle minoranze cristiane, ebraiche o atee. Ethos non è altro che un viaggio poetico che va alla ricerca di un punto di incontro tra le sue protagoniste, ma soprattutto tra i loro mondi e le loro culture.

La serie rende una rappresentazione efficace della Turchia contemporanea: la macchina da presa gira per la città di Istanbul scovando i punti più nascosti ed entra nel mondo privato dei suoi abitanti, regalando agli spettatori un racconto veritiero e autentico: dal caos della metropoli alla tranquillità della periferia, dal mondo ricco e sofisticato di alcuni personaggi, a quello umile e popolare di altri ha origine un mosaico complesso. E non a caso è proprio questa rappresentazione dicotomica ad avere fatto più discutere gli spettatori. Berkun Oya ha costretto ogni personaggio a scavare nel suo passato tramite un percorso introspettivo di psicoanalisi e a fare i conti con il suo presente. Nessuno si salva, tutti si mettono in discussione e cercano il confronto, compresi gli spettatori.

Il primo piano meglio di qualsiasi altra tecnica cinematografica esprime una sorta di “naturalismo del sentimento”, “anima della fotogenia”, come cita l’intellettuale ungherese Béla Balázs nel suo libro L’uomo visibile. Il primo piano, infatti, porta l’attenzione sui percorsi introspettivi dei personaggi, elimina tutte le distrazioni visive possibili, rimangono solo i loro sguardi profondi. Berkun Oya, soprattutto durante i dialoghi, in particolare nelle sedute di terapia, ricorre al classico campo-controcampo soggettivo, lasciando che i primi piani frontali al centro, e quindi protagonisti dell’inquadratura, magicamente creino l’effetto di coinvolgere lo spettatore a cui alternativamente e direttamente i personaggi sembrano parlare, suscitandogli domande ed emozioni, obbligandolo a diventare parte della storia. Inoltre, Oya gioca volutamente sui particolari che rispecchiano la quotidianità turca: la preparazione del caffè o le ciabatte ai piedi, ogni volta che ce n’è l’occasione, confermando l’intenzione raccontare la semplice realtà di tutti i giorni.

La serie, poi, ha una struttura circolare: inizia e termina con la medesima scena. La macchina da presa segue i passi di Meryem, che esce dal suo mondo per arrivare in città. Accompagnata da versi di animali in sottofondo, che rompono la quiete di una tranquilla mattinata in campagna, Meryem raggiunge il solito autobus per arrivare all’appartamento in pieno centro dove lavora.

In queste sequenze Oya mostra una Turchia con tutti i suoi pregi e difetti, un Paese che nutre il bisogno di mettersi in discussione su tanti aspetti e liberarsi da ogni forma di pregiudizio per ribaltare i suoi tanti paradigmi sociali. Oya sembra suggerire che tutto ciò sarà possibile solo affidandosi a un dialogo costruttivo, fatto di racconti consapevoli e plurali, un pensiero che potrebbe essere ripreso anche nel resto del mondo, in cui la polarizzazione e le spaccature sociali sono sempre più forti.

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