Se le donne di oggi hanno la possibilità di respingere le imposizioni della società lo devono a tutte quelle donne del passato che hanno rifiutato di essere identificate esclusivamente per le loro qualità femminili. Nella più o meno recente storia italiana troviamo tante di queste protagoniste, ma una vera e propria pioniera nel nostro mondo culturale e politico è stata senz’altro Cecilia Mangini, la prima documentarista del cinema italiano.
Mangini nasce in Puglia nel 1927, ma cresce e studia a Firenze, dove si trasferisce con i genitori a cinque anni. Racconta di aver ancora impresso nella memoria il ricordo della società fascista: il primo approccio con la politica infatti per lei fu il giuramento di fedeltà al regime, il rituale che usava all’epoca, compiuto all’età di sei anni in occasione dell’inizio della prima elementare.
Ciò che fin da bambina, però, la liberò dal pensiero unico del regime fu il cinema neorealista. Il cinema infatti entrò presto e in modo salvifico nella sua vita. “Sono stati quei film di De Sica e di Rossellini a farci capire che cosa non funzionava nel fascismo”, ricorda in una recente intervista a La Repubblica. “Questa capacità di raccontare quello che avevamo passato noi [bambini] attraverso altre persone senza sensi di colpa, ma con la necessità di capire”.
Nel 1952, poco più che ventenne, la giovane Mangini con i soldi che la famiglia le regala per Natale acquista una macchina fotografica Zeiss, modello Super Ikonta, e capito ben presto che non avrebbe utilizzato quel prezioso strumento per fotografare le ricorrenze di famiglia, parte alla volta di Lipari e Panarea, insieme al compagno di vita, il regista e sceneggiatore Lino del Fra. Lì documenta il dramma delle condizioni dei minatori delle cave di pomice e delle loro mogli e in quel momento, come rivelò in seguito, acquisisce la consapevolezza di poter essere una fotografa di professione. Tramite la fotografia, Mangini coniuga il suo prorompente desiderio di indipendenza con la passione politica, una strada che la porta a Roma, dove si trasferisce e inizia a lavorare alla Federazione italiana dei circoli del cinema. Tra la fotografia e la regia il passaggio per lei fu naturale, anche se non lo era affatto per la bigotta società italiana: “Che le donne facessero cinema, praticamente, almeno in Italia, era impossibile”.
La vera svolta avvenne quando il produttore cinematografico Fulvio Lucisano, convinto del suo talento, le propose di girare un documentario. Così lei gli presentò il soggetto di Ignoti alla città, ispirato dal romanzo Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale “vessillo della libertà non democristiana”. Mangini contattò Pasolini per proporgli di scrivere il testo del documentario, cercandolo semplicemente sull’elenco telefonico e lui, con sua grande gioia, accettò, dando inizio al loro sodalizio artistico e a una grande amicizia. Insieme lavorano, infatti, ad altri due documentari: Stendalì – Suonano ancora nel 1960, e La canta delle marane nel 1962, opere incentrate sulla vita delle persone che vivevano ai margini della società consumistica degli anni Sessanta. Mentre il resto della società italiana – intellettuali compresi – si lasciava inebriare dal capitalismo, Cecilia Mangini e Pier Paolo Pasolini hanno raccontato le vite degli ultimi, tra cui le donne: figure invisibili che si ritrovano schiacciate tra vecchi retaggi di una società patriarcale e nuovi meccanismi culturali imposti dal boom economico. “La situazione delle donne era spaventosa anche se non ce ne rendevamo conto”, racconta Mangini, “le donne erano sottomesse […] destinate alla castità anche nel matrimonio”.
Nel 1965 la regista aderisce a un progetto promosso dal Partito Comunista Italiano che prevedeva la realizzazione di documentari che raccontassero la vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Mangini da qui realizza un reportage innovativo per l’epoca dal titolo chiaro: Essere donne. Il documentario risulta essere tra le prime indagini cinematografiche sulla condizione femminile in Italia, analizzata nei suoi diversi aspetti: economici, sociali, psicologici e culturali. Una testimone oculare dell’epoca, la giornalista Bruna Bellonzi, presente a una proiezione privata del documentario, scrisse su Noi Donne, il 22 maggio 1965, che il film mostrava “Il mondo della donna, le sue brucianti contraddizioni, il suo impossibile equilibrio fra un modo di essere vecchio di secoli e aspirazioni nuove”.
Cecilia Mangini voleva denunciare le contraddizioni e la violenza della sconcertante realtà lavorativa e familiare delle donne italiane, che non aveva niente a che vedere con l’immagine edulcorata proposta dall’industria culturale degli anni Sessanta. In questo modo creò un filone nel giornalismo d’inchiesta che ancora oggi fa scuola. Il linguaggio della sua narrazione documentaristica è sorprendentemente moderno, veloce, accattivante, contrapposto alle immagini patinate dei rotocalchi e delle riviste di moda. Il ritmo diventa frenetico, fino a risultare disturbante, quando Mangini mostra la vita reale delle donne italiane, scandita dal lavoro in fabbrica e da quello domestico.
Il documentario però subì un grave boicottaggio da parte delle autorità, nonostante la critica italiana e straniera lo avesse considerato un capolavoro. All’epoca della sua uscita, prima di ogni film proiettato al cinema doveva essere trasmesso per legge un documentario. Il mediometraggio però venne bocciato dai produttori e dai registi che facevano parte della Commissione ministeriale che decideva quali opere potessero accompagnare la programmazione dei film nelle sale, impedendogli di essere distribuito sul territorio. La Commissione camuffò la censura denunciando presunte carenze tecnico-artistiche, quando secondo più commentatori il reale motivo fu l’insopportabile sincerità del documentario. La regista fiorentina fu vittima della mancanza di rispetto della società maschilista italiana, che non tollerava la denuncia dei suoi consolidati usi e costumi, eppure ciononostante è riuscita a donare alle sue contemporanee e alle donne delle generazioni successive un’opera di inestimabile valore in cui potersi rispecchiare.
Mangini è stata tra le prime a descrivere “la realtà complessa, contorta, avara di gratificazioni” delle donne, come la definì in un’intervista del 2015. Le donne hanno sempre sopportato il peso della contraddizione tra le loro aspirazioni e le loro vite, uniformate nella maggior parte dei casi dal modello comportamentale imposto dalla società, fatto di condizionamenti culturali travestiti da valori condivisi e solo per questo ritenuti giusti o accettabili. Con le sue opere, ha contribuito a dare voce ai dimenticati, ha mostrato le contraddizioni dell’essere donna, ha rivelato la desolazione che si nascondeva dietro il boom economico e ha documentato l’avvento della civiltà industriale e dei consumi. È tra le donne italiane che hanno contribuito a comporre un nuovo tipo di consapevolezza e di sensibilità, che oggi accompagna le nuove generazioni.
“Le donne sono inconsciamente in gestazione del loro essere interamente donne,” ha recentemente dichiarato, “Questa situazione magmatica mi riguarda, riguarda tutte, riguarda anche chi si rifiuterà di crescere”, a dimostrazione della sua inarrestabile ricerca umana e artistica. Per questo va riscoperta, per arricchire la riflessione culturale e politica non solo sulla condizione della donna, ma sull’intera società.