"Ellis Park" offre uno sguardo sulla vita intima di Warren Ellis, tra i musicisti più grandi di oggi - THE VISION
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Penso che per fortuna, al mondo, ci sono molte cose che vanno oltre la nostra comprensione, almeno lo si nota se si sa guardare con sufficiente attenzione. Sono cose che a volte vengono chiamate “paranormali”, solo perché sconfinano dalla normalità sancita come tale, e non possono essere spiegate con gli strumenti di cui siamo in possesso. Su diversi libri di psicologia si dice che alcuni disturbi di personalità abbiano caratteristiche legate alla tendenza al pensiero magico, e al leggere nella realtà dei significati che tendenzialmente appaiono “irrazionali”, che siano quindi più portate a riscontrare messaggi nel reale, come se la loro cognizione tendesse a trovare e raccogliere significati e dare senso al mondo, ovvero scorgere quelle famose segrete corrispondenze a cui credeva tanto Goethe, e forse molti altri poeti. A volte ciò accade anche quando a conti fatti non ci sarebbero (e quindi secondo alcuni probabilmente nella maggior parte dei casi), o banalmente nessun altro fosse in grado di vederle, percepirle. A volte sconfinano nella psicosi. Secondo la letteratura scientifica spesso questa sensibilità e questo tipo di intuizione, quasi da rabdomanti del senso, si associa infatti a condizioni patologiche, ma in alcuni casi specifici queste tendenze – riscontrate ampiamente negli artisti – non sconfinano nel disturbo e nella sofferenza, ma vengono controllate e fatte sbocciare, tracciando una rotta, ponendosi al vertice di quella piramide umana di cui parlava Kandinskij.

Da poeta che sono sarò sicuramente di parte, eppure quando leggo queste evidenze, ricche di studi e statistiche e dati, mi sembra siano state scritte spesso da persone incapaci di vedere oltre, di sentire l’oltre, di riconoscerlo, insomma di essere immuni a tutto ciò che l’arte sa fare, alla sua capacità di trasportarci in altri territori della coscienza, attraverso una complessa rete di traduzione di linguaggi, e di comprensione emotiva. Come scriveva Arthur Rimbaud: “Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza”. Il poeta insomma prova su di sé tutti i farmaci e le droghe, letterali e figurati, esplora concretamente o con l’immaginazione l’ampiezza della gamma di esperienze umane, per conoscerle e distillarle, e imparare da esse, per poi restituirle. Ma non lo fa solo il poeta, lo fanno il pittore, il regista, il musicista.

Per questo mi ha colpita tanto Ellis Park, il documentario di Justin Kurzel su Warren Ellis, compositore e polistrumentista in band che hanno segnato la storia del rock come i Dirty Three e i Nick Cave and the Bad Seed, che verrà proiettato al Cinema Godard di Fondazione Prada il 25 gennaio 2025 alle 20:30 e a cui seguirà una conversazione con Ellis in persona, perché ci ho ritrovato tutto questo. Oltre ad offrire uno sguardo sulla vita intima di uno dei musicisti più interessanti della nostra epoca, il film mostra il suo impegno nel sostegno dell’omonimo progetto: Ellis Park, un’oasi per la salvaguardia della fauna selvatica dell’isola di Sumatra, in Indonesia, gestita e realizzata grazie alla passione e all’ostinazione della veterinaria olandese Femke Den Haas. Il parco offre cura e assistenza a lungo termine agli animali vittime di bracconaggio e violenza da parte degli esseri umani, anche a quelli che non possono più essere liberati nel loro habitat a causa di condizioni troppo gravi, in particolare primati. Ciò che mi ha colpita profondamente è il modo in cui la nascita del santuario, l’innescarsi della miccia che ha trasformato un’intenzione in concretezza, viene raccontata in uno scambio a distanza tra i due (Den Haas e Warren), generato da un montaggio perfetto, in cui entrambi, a partire dal centro della scena, guardano lontano in due direzioni opposte, ma con lo stesso amore e intensità, incontrandosi probabilmente all’altro capo del mondo dopo averlo abbracciato tutto. Den Haas, in questa scena, descrive la nascita del progetto proprio come i musicisti che hanno lavorato con Claudio Abbado mi raccontavano del suo modo di far accadere la musica, ovvero rendendo possibile l’impossibile. Sono queste le esatte parole che usa per descrivere ciò che fa Warren, che dal canto suo sostiene che non avrebbe potuto far altro una volta colpito (usa proprio questa parola, come se gli fosse caduto un mattone in testa) dalla sua totale autenticità.

Questo documentario, fin dai primi secondi, è un’immersione negli snodi fisiologici del processo creativo, in maniera assolutamente spontanea, e semplice, e completamente reale, spogliata da qualsiasi retorica e mistificazione, e offerta per ciò che è: una dinamica psicofisica, un modo di ascoltarsi e di restituire una sensazione, uno stato d’animo, un’emozione, il farsi corpo di qualcosa di effimero e disincarnato, eppure presente, tangibile, un modo di stare al mondo. Kurzel, insieme a Warren, ci porta in un territorio intimo e accogliente, senza filtri. E da ogni parola pronunciata da Warren appare evidente quanto sia urgente per ciascuno operare un viaggio verso la libertà: dai propri stessi pregiudizi, dalle proprie paure, dai traumi che l’esperienza ci ha inflitto, dalle proiezioni delle nostre insicurezze, come se la vita non fosse davvero altro che un ritorno. Come dice Warren percorrendo le strade che portano alla sua casa d’infanzia: non importa quanti concerti ho fatto, quanti viaggi ed esperienze incredibili ho avuto, ogni volta che sono in questi luoghi torno bambino, e capisco quanto mi abbiano influenzato, quanto io non sia altro che questo.

Durante il film ritorna spesso il tema della spontaneità, della verità, della semplicità, quella che oltre i bambini, incarnano gli animali, e la natura, ma anche la musica, e a volte il modo in cui alcune persone sanno essere, senza per forza essere grandi artisti. Eppure nella genesi di qualsiasi opera, bella o brutta, piccola o grande, famosa o sconosciuta che sia, in quella miccia, sembra fondamentale per Warren abbattere la barriera dell’ego, scavalcarla e sconfinarsi, per generare qualcosa, una canzone, una melodia, una poesia, ma pure un progetto di salvaguardia degli animali, dei più deboli. Mia figlia mi ha sempre chiesto fin da molto piccola come si facesse a comporre una canzone, e io – che non sono mai riuscita a comporne una – le ho sempre detto che bastava cantarla. Fino a prima di vedere Ellis Park non mi ero resa conto che durante le presentazioni dei miei libri una delle domande che mi fanno più spesso è la stessa: da cosa hanno origine le mie poesie? E che io rispondo sempre che semplicemente in alcuni momenti dal corpo emergono delle sequenze di parole nella mia mente. È la stessa cosa. “Chasing words”, dice Warren, che appare legatissimo a suo padre, chitarrista country, e racconta che quando gli chiese come facesse a scrivere le sue canzoni lui gli disse che era semplicissimo: bastava aprire un libro di poesie a caso, prese la chitarra e iniziò a cantarne una, demistificando completamente l’atto creativo e mostrandogli quanto fosse semplice, possibile. Sembra un discorso tecnico, e riservato a un pubblico di nicchia, ma non è assolutamente così, anzi, servirebbero molti più film come Ellis Park, proprio per diffondere, concretamente, questo tipo di sensibilità, di attenzione, da rivolgere a qualsiasi ambito dell’esistenza, nelle nostre relazioni affettive, nel nostro lavoro, nelle nostre famiglie, nelle nostre scelte, legate all’ambiente, alle abitudini alimentari, ai nostri valori.

Per farlo, per affinare la nostra sensibilità, e in un certo senso lasciarci trasportare da essa e cambiare, è necessario davvero modificare il ritmo interiore, mutare la forma che ha il nostro modo di essere presenti, nel corpo, nella mente, è un accordarsi continuo. Come all’inizio del film, in cui si sente Warren mentre accorda il suo violino, il primo strumento che ha iniziato a suonare, e che come riconosce è stato un lascito incredibile da parte dei suoi genitori, ben oltre le loro apparenti possibilità, commovente nella sproporzione del sogno. Un violino che si accorda, appare chiarissimo a qualsiasi spettatore, suonerà sempre come un inizio. Non c’è niente da fare. Un inizio di qualcosa più grande, ma anche un inizio di armonia collettiva, perché il violino, suonando il primo la, e poi le sue quinte giuste, diffonde quel primo suono e finisce per accordare tutta l’orchestra, non importa quanto siano diversi gli strumenti tra loro, non importa quante persone ci siano. Eppure – non a caso – la storia di Warren è tutta punteggiata da stonature, di cui non fa segreto. Dice che quando andava in giro da adolescente col suo violino era come se tenesse tutta la sua vita tra le mani, e che suonare il violino, significa essere un certo tipo di persona, una persona a cui molti daranno fastidio.

Così, da adolescente – sentendosi solo, bullizzato e insicuro – andava a trovare tutti i giorni una bellissima statua, e se ne stava lì seduto a contemplarla. La statua è una riproduzione del gruppo scultoreo dell’artista neoclassico Giovanni Maria BenzoniFuga da Pompei”, del 1873, che raffigura una famiglia che scappa per sfuggire all’eruzione del Vesuvio, con la madre che protegge il suo neonato e il compagno, cercando di coprirli dalla cenere. “Devo aver canticchiato nella mia testa tutta la mia infelicità per non ascoltarla,” esordisce Warren. E lo immagino, lui che era stonato, come all’inizio è stonato qualsiasi violinista, e che dice che il ritmo, e il tempo, e l’intonazione e l’accordatura non sono mai stati il suo forte, e che pure – forse proprio per questo – è un musicista pazzesco, capace di cantare la forza dell’imperfezione e del fallimento, del non riuscire; lo immagino che si siede sotto a questa statua incredibile, perché è solo, e disorientato, e ha troppa immaginazione, e ha una sensibilità troppo acuta, e non ha amici che lo capiscano, e semplicemente stando vicino al messaggio che gli trasmette ogni giorno quella forma impara molto di ciò che deve sapere dalla vita, e diventa ciò che è. Upanishad, il titolo della più grande raccolta di insegnamenti vedici di filosofia indiana di cui disponiamo, significa proprio “sedere a fianco”, a fianco di un maestro, certo, ma in questo caso il maestro può essere una statua, altre volte può essere un’architettura, come diceva sempre il mio professore di storia dell’architettura contemporanea all’università, a volte può essere la musica stessa, o un animale, o un albero. E questo è già un lascito fondamentale. Per lasciare però che questi vasi tracimino uno nell’altro è necessario essere liberi, cioè vuoti, e aperti, disponibili a ricevere. Per esserlo bisogna mettersi in viaggio e intraprendere una lunga strada, dentro e fuori noi stessi, allontanarsi, strapparsi, soffrire. Dice Warren che i modelli da cui era attratto, quelli che indirettamente veicolava quella statua, erano paura e distruzione improvvise, lancinanti, cataclismatiche, ma anche quella tenerezza del gesto delle braccia di quella madre, il cercate di fare del proprio meglio anche nelle situazioni peggiori e più devastanti.

E qui sembra innestarsi il punto di contatto, con Ellis Park e Den Haas, che si commuove raccontando dei bracconieri che uccidono le mamme scimmia per rapirne i cuccioli, che dovrebbero stare con loro almeno quattro anni e invece nella migliore delle ipotesi si ritrovano in una gabbia di fianco al famoso peluche dell’Ikea a forma di scimmietta (che non a caso fu il primo peluche preferito anche da mia figlia, a soli sei mesi), soli e terrorizzati, come spesso siamo o siamo stati anche noi, anche se spesso non vogliamo ammetterlo, nelle nostre case, nella nostra parte di mondo privilegiata, con la nostra carriera, e i nostri social in cui siamo sempre invidiabili e felici. Quando una delle persone che si occupano dei cuccioli di scimmia racconta del legame che ogni volta si crea con loro, parla dell’innescarsi di un bonding profondo, proprio come accade a qualsiasi madre col proprio bambino. Per sanare i loro traumi, dice, serve molta attenzione e dolcezza, e in questo processo si attiva un doppio percorso di guarigione, sia dell’animale che della persona che se ne occupa. È quello che in alcuni casi fortunati succede anche quando si suona insieme e in pochi istanti accade la magia, l’impossibile diventa possibile. È quello che sarebbe bello imparassimo a far succedere in qualsiasi relazione che abbiamo con l’Altro, col mondo, dandoci l’occasione di guarire e guarirci, senza paura di dare e ricevere, amando, senza il timore di dissolverci, perché solo in quella dissoluzione è possibile compiere quel ritorno che ci rende liberi.

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